Alla ricerca di un diverso stupore. Su Canzone nera di Wislawa Szymborska – a cura di Marco Rizzo
<<Quale sarà la prima cosa che farai quando sarai libera?>>.
<<Ballare>>.
(da Jojo Rabbit di Taika Waititi)
Dal 2022, grazie alla traduzione di Linda del Sarto e alla curatela di Andrea Ceccherelli, anche il pubblico italiano ha la possibilità di leggere le poesie giovanili di Wislawa Szymborska, composte tra il 1944 e il 1948 e raccolte in un dattiloscritto poi non pubblicato per volontà dell’autrice: Canzone nera, questo il titolo del volumetto di Adelphi[1]. Poesie di guerra e di dopoguerra, scritte da una poetessa poco più che ventenne che deve ancora trovare la propria voce più matura e inconfondibile. A sfogliarle oggi, un pubblico che è chiamato di nuovo a fare i conti, se non con la guerra vera e propria, certo con un teso pre-guerra carico di preoccupazioni e smarrimento. Già solo questo sarebbe sufficiente a farci guardare con interesse a queste liriche, di cui proverò a delineare alcuni fili conduttori.
Prima di tutto, c’è il disorientamento dell’io di fronte alla violenza della guerra. Alcuni, in questi casi, dispongono di una fede religiosa o politica, o di una filosofia della storia, che possa rendere intelligibile e dicibile quel panorama di morte e distruzione che la Polonia ha attraversato tra la doppia occupazione del paese nel settembre del 1939 e la Liberazione avvenuta nel gennaio 1945. La giovane Szymborska non è tra questi. Da qui il suo tentativo di sondare le possibilità della poesia di ricomporre in un ordine precario le macerie di senso della catastrofe collettiva appena vissuta, non meno pesanti di quelle materiali che ingombrano le città distrutte. Esso emerge bene in un testo come Cucire la bandiera, di cui cito appena pochi versi: “- è dallo stupore / che sorge il bisogno di parole”; “- il mio dire / sarà sempre come il pathos. Troppo poco” (p. 79). O anche lo troviamo, con un titolo programmatico, in Cerco la parola, dove l’autrice si interroga sull’inadeguatezza della poesia per qualificare la violenza efferata degli occupanti tedeschi, sul senso di scacco di una poesia politica incapace di farsi voce di collera, o almeno sconvolgente e veridica testimonianza. Tale bisogno di purezza e verità, etica prima che poetica, di risposte definitive, verrà in seguito abbandonato, lasciando il posto a uno scetticismo ironico e vitalista (istruttivo in tal senso, il confronto con un testo come Tutto, contenuto nella raccolta Attimo).
Per essere dunque chiari, non troviamo ancora qui quella capacità di abbracciare con grazia e ironia la gratuità dell’esistere che è tipico delle raccolte mature. È dunque, per certi versi, una voce insolita e straniera quella che i lettori e le lettrici che già conoscono e apprezzano la scrittrice polacca incontreranno sfogliando questa raccolta. Lo stupore non cinico di fronte all’assurdo, contrassegno della Szymborska a noi più familiare, non è qui assente ma è certo trattenuto, compresso dalla ferocia inaggirabile di tutto ciò che la circonda, dalla sua cruda persistenza anche a guerra finita. Eppure, per quanto ancora in competizione con altri sentieri e approdi stilistici, i tratti di quell’inquietudine senza tragedia, di quella grazia malinconica che la distingueranno in seguito, sono già in formazione e capaci di risultati alti, come questo:
Un tempo sapevamo il mondo dalla A alla Z:
– era così piccolo da stare fra due mani che si stringono,
così facile da lasciarsi descrivere con un sorriso,
familiare come l’eco di antiche verità in una preghiera.
La storia non ci ha accolto con fanfare trionfali:
– ci ha gettato negli occhi sabbia sporca.
Davanti a noi c’erano lunghe strade cieche,
c’erano pozzi avvelenati e pane amaro.
Il nostro bottino di guerra è la conoscenza del mondo:
– è così grande da stare fra due mani che si stringono,
così difficile da lasciarsi descrivere con un sorriso,
singolare come l’eco di antiche verità in una preghiera. (p. 25)
Ad essere investite e più profondamente segnate da tale sconvolgimento sono l’infanzia e la giovinezza, costrette a un ingresso precoce e feroce nella storia, che per molti ha coinciso con il vedersi interdetta la possibilità stessa di raggiungere l’età adulta. Ancora oggi, qui si consuma lo scandalo inaccettabile di ogni guerra: nessun discorso su torti, ragioni e prezzi accettabili pur di vincere o resistere, potrà mai cancellare e riscattare il vedersi strappare via una sola vita bambina in più. Quale può essere infatti lo spazio specifico dell’infanzia quando tutto attorno è morte e violenza? Nel testo I bambini di Varsavia – riferimento all’insurrezione antinazista della città nell’estate 1944, da non confondere con l’altrettanto nota rivolta del ghetto ebraico dell’anno precedente; durò circa due mesi, dopo averla debellata i tedeschi decisero di radere al suolo la città, poi ricostruita da capo nel dopoguerra – i bambini giacciono infatti riversi per strada, privati della possibilità di capire la differenza tra la pace e la guerra, per sempre. Un testo che difficilmente può evitare un rimando, letto oggi, alle infanzie falcidiate di Gaza.
Pure va detto che, nella poesia di Szymborska, lo scandalo della guerra riesce a scuoterci e a sventare il rischio di anestesia del dolore perché siamo messi di fronte non a delle pure vittime, ma a delle tragiche piccole comparse che hanno maneggiato fucili, lanciato molotov, sono avanzate sotto il tiro nemico prima di morire: “… e forse anche per questo / ci strozza ogni momento / un perché, il più mesto, / un silente ma ha senso / – corpi di bambini caduti” (I bambini di Varsavia, pp. 15-17). Un’esplicita allusione da parte dell’autrice alla crociata dei bambini del 1212 divenuta oggetto di racconto grazie a Marcel Schwob, si incarica di collocare queste immagini al di là della singola ed eccezionale contingenza, facendone materia di una dolente interrogazione universale che continua ad accompagnarci, senza trovare risposta. Altrove nella raccolta, lo sguardo dei “figli della guerra” ricorre spesso, sembra trafiggere i sopravvissuti e incombere come un implacabile giudizio sul mondo degli adulti, sui loro tristi giochi a cui anche i più piccoli finiscono per prendere gusto, o per rimanerne imprigionati: “Come un passante di luoghi e giorni / – i luoghi e giorni di una dimensione devastata – / il ragazzino ripeteva per sempre / il ricordo della casa, dell’esplosione e del cielo.” (Dimensioni, p. 81)
Passiamo ora a un altro aspetto di non poco conto, vale a dire il sentimento ambivalente nei confronti della guerra che a mio avviso permea qui la sensibilità della giovane autrice. Da un lato si percepisce il desiderio che la macchina bellica in quanto tale si arresti, che torni la pace, restituendo spazio alla dignità e autonomia delle esistenze private, che le fredde logiche della geopolitica calpestano e dimenticano; per converso emerge l’aspettativa di una liberazione anche politica, che passa dalla sconfitta della principale potenza occupante, la Germania. Appena pochi versi per dare conto di questa contraddizione, che non cessa di abitare e di dividere ogni popolazione che si ritrova una guerra in casa: “Precederà i comunicati la gioiosa sirena dei cuori. […] // Nelle grida, nei discorsi, nei canti / parole tutte deludenti, tranne una: finalmente.” (Pace, p. 23); “…per il fumo dei camini, / per il libro estratto senza paura, / per una striscia di cielo limpido / lottiamo” (Per qualcosa di più, p. 13).
La frattura qui non è solo con un nemico, ma anche con la retorica politica della propria parte e delle sue parole con la maiuscola. Nessuna monumentalità cerimoniale, laddove il confronto con gli affetti perduti in guerra è qualcosa di privato e di appartato: “Lui per i vostri versi si rabbuierebbe / come per una dipartita altrui. // Non voleva essere un eroe” (Il bacio del milite ignoto, p. 55). Del pari, nessuna fascinazione per la forza militare, per parate di divise schierate. Con ciò non si rinnega affatto e anzi si fa emergere con più sincerità l’urgenza esistenziale e collettiva della resistenza. La scelta di combattere trova spazio quindi come necessità e come moto interiore liberamente maturato, al di fuori di qualunque coscrizione di Stato. In tal senso, particolarmente bella e struggente oltre che carica di valenze letterarie, è Janko Il musicante, una storia in cinque movimenti (l’attesa prima della scelta, l’addio, la preghiera del ritorno, la ricerca della tomba, il messaggio dall’aldilà) dedicata a un amante partigiano. Lascio parlare i versi, anche solo per brevi frammenti: “Il tempo dell’addio lo scrive la candela / con un filo di lacrime di cera.”; “Pregherò per il tuo ritorno / tutti gli dèi del mondo.”; e infine, sulla tomba dell’amante morto: “La cerco solo con la tristezza / che il mondo conosce da tempo: – dov’è sotterrato?” (pp. 29-33). E infine, in un secondo testo che fa da coda, di visita dell’io lirico presumibilmente proprio a quella stessa tomba: “Una doppia vita: la vita e te. / Una doppia morte: la morte ed io. / Un doppio vuoto: tu – tuo figlio, / che mai darò alla luce” (Il ritorno del rimpianto, p. 89).
Tra la tensione resistenziale e patriottica e le ragioni intime della poesia c’è dunque, in diversi testi, un costante corpo a corpo, come inevitabilmente è giusto che avvenga quando ci si trova di fronte a versi scritti con la storia a caldo. Si può quindi perdonare all’autrice quando la seconda non riesce a difendere adeguatamente i propri spazi, intuendo tuttavia, dal titolo di una lirica esortativa (Dedicati alla poesia), che una scelta di campo è già stata compiuta ed è in via di maturazione; che la ricerca di una propria voce poetica distinta, che separi i propri testi dai “pigri poeti al sole più deboli dei loro versi” è già riccamente iniziata.
Qualche annotazione anche sulle dimensioni dello spazio e del tempo nella raccolta. Lo sguardo della giovane Szymborska tende a indugiare su spazi vuoti, paesaggi desolati e feriti (più frequenti nelle poesie dell’immediato dopoguerra), ma anche su immagini di strade, luoghi brulicanti e affollati per la festa, per la lotta, per il gran movimento di mezzi militari. In ciò marcando una differenza di prospettiva rispetto ai tanti civili che allora, in tutta Europa, si rifugiarono nelle campagne per sfuggire ai bombardamenti e agli assedi delle città durante gli anni di guerra, il paesaggio, si definisce qui come mancanza e lontananza, generando un senso di inquietudine che angoscia e attanaglia. Possiamo trovarne traccia in un testo significativo come Ricordo di settembre (riferimento al 1939, all’inizio della guerra ad opera della Germania e all’occupazione tedesca e poco dopo anche sovietica del paese), dove l’autrice dà sfogo a un accorato e disperato dialogo con il paesaggio, con le pianure, le colline, i boschi e i fiumi della Polonia, come se questi potessero resistere al sopruso e alla barbarie quando le forze degli esseri umani non bastano a ciò. Ed è pure particolarmente evidente in un verso lapidario e lacerante, dedicato a chi in quegli stessi anni stava vivendo la più terribile delle prigionie e delle forme di annientamento: “Là fuori è il mondo intero” (Il convoglio di ebrei, p. 91).
Szymborska ci invita però a osservare anche quella quotidianità che comunque esiste e persiste in mezzo ai crateri della storia, nella vita brulicante delle strade, nella presenza di mendicanti e mutilati, nel bisogno di evasione che troviamo ben condensati in un testo come Uscita dal cinema, che ci chiama a riflettere sul rapporto per noi, oggi, sempre più sfuggente tra immagini, finzione e realtà:
Luccichio di sogni sulla tela bianca.
Un paio d’ore di scaglie lunari.
C’era l’amore su melodia languida,
c’era il ritorno felice dal vagare.
A favola finita il mondo è plumbeo, spento.
Qui facce e ruoli non sono studiati.
Un soldato canta lamenti partigiani,
una ragazza suona il suo lamento.
Torno da voi, torno al mondo reale,
pieno di nebbia, di folla, di fato –
da te, giovane mutilato all’angolo del viale,
da te, ragazza dallo sguardo vacuo. (p. 47)
Desiderio di vita che riprende però alla fine, dopo l’avvenuta liberazione della Polonia meridionale ad opera dell’Armata Rossa nel 1945 (Ricordo di gennaio) nella calca di un ballo in Canzone nera, nel ritrovato diritto alla gioia dopo aver preso congedo dal rischio di restare intrappolati nei lutti del passato (Il Giorno dei Morti).
Leggere questi testi oggi, lo abbiamo detto all’inizio, non è attività oziosa né puramente memoriale. Si tratta invece di attraversare (consci del lusso di poterlo ancora fare, ma chissà per quanto, in maniere sicure e indirette), il vissuto interiore di una giovane donna chiamata a diventare grande in mezzo alla più terribile delle tragedie collettive. Quella tragedia (mai cessata fuori al di fuori), ben prima del 2022 o del 2014 si era già ripresentata in Europa, nella Iugoslavia degli anni ’90. Proprio in quegli anni un autore italiano come Giuliano Mesa, che ha fatto delle violenze della Storia una presenza pervasiva nella sua poesia, immaginava un ideale dialogo a distanza tra due voci di poeti dell’Est e dell’Ovest (Osip Mandel’stam e Cesar Vallejo), mai incontratisi ed entrambi dipartiti nel buio crepuscolo degli anni Trenta europei: “e cadde, Spagna, e dopo / i suoi nemici / strinsero un patto, e gli altri, / altri nemici, li guardavano, / sperando che finisse tutto lì / (Varsavia a uno, all’altro qualcos’altro)” (Da recitare nei giorni di festa V[2]). Mesa alludeva qui al patto Molotov-Von Ribbentrop del 23 agosto 1939, alla spartizione della Polonia tra Germania e Unione Sovietica che sarebbe avvenuta di lì a poche settimane. Come pure, probabilmente, all’illusione che quel patto (che, come è noto, prevedeva anche l’impegno reciproco di non aggressione tra i due paesi) avrebbe tutelato l’Unione Sovietica dal regime hitleriano. Così non fu. Come non fu di garanzia, beffardamente, il patto di non aggressione tra Germania e Polonia firmato nel gennaio 1934, uno dei primi atti importanti della politica estera di Hitler, revocato pochi mesi prima, nell’aprile 1939.
Allora, per la Polonia e per altre popolazioni europee, la minaccia principale veniva da Ovest, quella secondaria da Est. Che si pensi il contrario, oppure lo stesso, rispetto al ritorno di un orizzonte di guerra incombente nell’Europa di oggi, trovo che i versi di Mesa siano un prezioso antidoto a certi abbagli geopolitici e alle retoriche manichee, proprio per la lucidità con cui sa indicare, alle vittime sacrificali delle logiche di potenza, una pluralità di nemici; i quali sono spesso, e in primo luogo, alla testa dei propri Stati. Sarebbe prezioso ricordarlo soprattutto in questi nostri anni Venti, di fronte a guerre che minacciano sempre più di estendersi e allargarsi e ai vuoti di memoria e realtà di cui è sintomo un cieco ritorno al nazionalismo e al militarismo, alla logica della supremazia e dell’imposizione dei propri interessi con la forza ai danni dei più deboli. Dell’inquietante ripresentarsi di tutto questo, la stessa Szymborska si era parimenti avveduta negli anni ’90 di fronte ai massacri in Iugoslavia, scrivendo un testo intitolato La fine e l’inizio, che riprendeva il dialogo con i temi delle sue liriche giovanili e che ripropongo in conclusione. Con l’auspicio che la poesia possa mantenersi strumento in grado di fornirci uno sguardo obliquo sulla realtà e di farci immaginare nuove fini e nuovi inizi, al di là delle false soluzioni e delle mistificazioni propagandistiche che ancora una volta sentiamo risuonare, in questa nuova e imprevista notte in cui l’Europa, e forse il mondo intero, sta precipitando.
Dopo ogni guerra
c’è chi deve ripulire.
In fondo un po’ d’ordine
da solo non si fa.
C’è chi deve spingere le macerie
ai bordi delle strade
per far passare
i carri pieni di cadaveri.
C’è chi deve sprofondare
nella melma e nella cenere,
tra le molle dei divani letto,
le schegge di vetro
e gli stracci insanguinati.
C’è chi deve trascinare una trave
per puntellare il muro,
c’è chi deve mettere i vetri alla finestra
e montare la porta sui cardini.
Non è fotogenico
e ci vogliono anni.
Tutte le telecamere sono già partite
per un’altra guerra.
Bisogna ricostruire i ponti
e anche le stazioni.
Le maniche saranno a brandelli
a forza di rimboccarle.
C’è chi con la scopa in mano
ricorda ancora com’era.
C’è chi ascolta
annuendo con la testa non mozzata.
Ma presto
gli gireranno intorno altri
che ne saranno annoiati.
C’è chi talvolta
dissotterrerà da sotto un cespuglio
argomenti corrosi dalla ruggine
e li trasporterà sul mucchio dei rifiuti.
Chi sapeva
di che si trattava,
deve far posto a quelli
che ne sanno poco.
E meno di poco.
E infine assolutamente nulla.
Sull’erba che ha ricoperto
le cause e gli effetti,
c’è chi deve starsene disteso
con la spiga tra i denti,
perso a fissare le nuvole.[3]
NOTE:
[1] Tutti i riferimenti di pagina riportati di seguito nel testo appartengono a questa edizione, ove non diversamente specificato.
[2] Giuliano Mesa, Poesie 1973-2008, La camera verde, Roma 2010, p. 233. Il gruppo di poesie da cui ho tratto questi versi è disponibile anche sulla rivista online “Nazione Indiana” tramite seguente link: https://www.nazioneindiana.com/2006/04/11/da-recitare-nei-giorni-di-festa/
[3] Wislawa Szymborska, La gioia di scrivere. Tutte le poesie (1945-2009), Adelphi, Milano 2009, pp. 503-505.
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Marco Rizzo è nato a Lucca nel 1992, nei suoi studi presso l’Università di Pisa si è occupato del rapporto tra letteratura e censura e di processi intentati contro romanzi e opere poetiche e successivamente della rappresentazione del male nel Voyage di Céline. A partire dal 2019 insegna discipline letterarie negli istituti superiori della Toscana. Attualmente è in servizio presso l’Isis Carducci-Volta-Pacinotti di Piombino (LI). Ha pubblicato alcuni scritti di argomento politico e letterario su vari blog e riviste online, tra cui “Machina”, “La Balena Bianca”, “La letteratura e noi”, “Carmilla” e la stessa “Altraparola”.