L’impermanenza permanente dell’arte di Vito Campanelli – di Alvise Marin
“Ogni pennellata è un istante fermato,
ma il movimento della pittura continua
oltre la tela.”
Gerhard Richter
“La pittura è il momento in cui l’invisibile si fa visibile per un istante,
prima di tornare a dissolversi nel tempo”.
Paul Klee
Il piano morfogenetico sul quale si muove la pittura dell’artista veneziano Vito Campanelli è assoluto. La combinatoria cromatica delle sue pennellate accenna mondi di là da venire che s’approssimano sulla tela a partire da un Reale prepittorico che non è per questo indifferenziato ma pieno di singolarità e di potenziali che custodiscono l’infinito formale. Su questa dimensione prepittorica l’atto del dipingere inocula quello che Deleuze chiama caos-germe ovvero «ciò attraverso cui deve passare il quadro affinché nascano la luce o il colore» e che corrisponde allo stile di ciascun artista. La tela per il pittore non è mai una superficie bianca in quanto da sempre colma di cose invisibili, tra le quali quei cliché che il caos-germe, che Bacon chiamava diagramma, ha la funzione di offuscare, ripulire e cancellare.
Il gesto pittorico di Campanelli è una differenza immanente che si muove lungo un piano bidimensionale che assorbe in sè ogni tridimensionalità. Non è un gesto dialettico, non contempla la negazione che si risolve nel movimento dell’aufhebung, in quanto conosce solo la differenza. In questo senso è un’arte che dice eternamente “SI” alla vita. La sua non è una pittura statica ma una pittura processuale che fa di ogni quadro un fermo immagine sulla fluidità polimorfica e incandescente della materia. Come pittura del divenire e della sua impermanenza, essa convoca in ogni sua nuance materica, una diversa disposizione del caleidoscopio dell’essere, colta sempre sul punto di trasmutarsi in altro. Forme che nel loro non cessare di trasformarsi non per gratuità ma per necessità, risultano altrettante individuazioni dell’essere materico. Forme che ci parlano da Altrove con la voce di Nessuno e che nel loro differenziarsi individuano un identico che si ripete all’infinito diversificandosi.

Decantata la materia e asciugatosi il colore, appaiono in superficie immagini pure, immagini di niente e di nessuno e per questo assolute. Immagini che contengono una «potenza ontologica in quanto non sono segni di qualcosa, ma sono qualcosa che accade». Non sono cioè dell’accaduto ma dell’accadere e per questa ragione non sono rappresentazioni ma eventi. Non rappresentano dei fatti in quanto sono atti colti nel loro accadere performativo, che non appartiene né al Simbolico né all’Immaginario ma al Reale. Qui il gesto pittorico sta sul piano del divenire, dell’energheia, ovvero dell’atto in atto e non su quello del divenuto, dell’entelecheia, ovvero del fatto compiuto. Arte quindi che non ri-produce né rap-presenta ma ap-presenta forme mai percepite prima direttamente.
Pittura geologica e genealogica quella di Campanelli che rintraccia le radici di forme e rappresentazioni sul piano eternamente impermanente del Reale. Un Reale autoarticolantesi e partogenetico che Campanelli non discretizza ma assume nella sua continuità con un movimento radente che oblitera ogni verticalità trascende, fosse pure quella di un soggetto creatore. L’artista diventa un intercessore di forme, un messaggero che come Hermes mette in contatto due piani incommensurabili. Egli si arrischia in quel metaxu tra sacro e profano, divino ed umano all’interno del quale opera una con-fusione simbolica che può condurre all’annientamento ma anche alla salvezza: «Ma dove è il pericolo, cresce anche ciò che salva» (Hölderlin). Un Reale che nessuna parola o immagine finita può restituire perché è nel loro sprofondare che esso s’approssima. Nei quadri dell’artista la costruzione della realtà collassa aprendo faglie oltre le quali non valgono più le regole percettive del senso comune. I colori si addensano attorno a punti singolari che risucchiano lo sguardo dell’osservatore al di là del quadro, in una dimensione in cui soggetto e oggetto, interno ed esterno, si fondono assieme e tutto ritorna materia.

Rosso, blu, giallo, bianco, arancione e nero si amalgamano assieme o nel caso dei primi due, egemonizzano separatamente la tela dando vita a cicli nei quali ritornano temi che non esistono in sé, ma si offrono solo attraverso le loro infinite variazioni, come accade nelle Variazioni Goldberg, tematizzabili quindi sempre après-coup. L’arte di Campanelli non de-finisce nulla ma finisce ogni terminazione mantenendosi aperta e interminata. Arte frattale che non sviluppa la sua produzione diacronicamente, ma che a ogni suo stadio ricomincia daccapo con carotaggi sincronici nelle stratificazioni dell’essere, che convocano assieme passato, presente e futuro, sospendendo il tempo all’assenza di tempo. Nel tempo sospeso di ogni opera l’osservatore può cogliere le pulsazioni e le convulsioni del sottofondo ctonio della materia, nel quale Campanelli affonda il pennello innescando processi formali trasduttivi che producono forme che nella loro metastabilità sono sempre sul punto di trasformarsi in altro.
L’arte di Campanelli è decentrante, l’Ego del soggetto non vi si può rispecchiare, in quanto essa è quello specchio opaco che non riflette il soggetto ma lo attrae a sé. Un arte a brandelli dove il sangue del sacrificio del soggetto cola dentro occhi abbacinati dal polemos primordiale della materia e le tensioni vengono risolte dal miracolo della forma. Un’arte nè apollinea né dionisiaca, che rimane in ascolto dello sfondo magmatico di un Reale generativo che l’artista coagula in forme transeunti, ognuna delle quali «vivente la morte e morente la vita» delle altre, prendendo a prestito una frase di Eraclito. Materia e forma fanno Uno in un annodamento che non può sciogliersi perchè la materia si dà ex ante come materia informata che non riceve poi la sua forma, ma la possiede inestricabilmente ab origine.

Campanelli non riproduce la realtà, ma sosta in limine alle sue faglie, ai suoi traumi, anticipando il tellurico che si annuncia, per plasmarne e riplasmarne il magma polimorfo come Efesto nella sua fucina. La cifra estetica di Campanelli non va declinata sul piano della coscienza, utilizzando le categorie discrete della ragione, ma sul continuum inconscio. È una pittura che può entrare in dialogo con il fantasma inconscio di chi l’osserva. Al pari di una macchia di Rorschach o di una frase de I Ching ciascuno vi può proiettare le coordinate allucinatorie del proprio desiderio, per reperirne il profilo fantasmatico e la sua traiettora destinale.
Arte del pieno, non del vuoto, che non sottrae ma differenzia, che non dialoga con il nulla ma fa apparire e scomparire forme che stanno su di un piano senza tempo, quello univoco del Reale del quale piega e ripiega, stende e raggrumma la materia, in guise di volta in volta diverse. Vita e morte come susseguirsi di forme da sempre in salvo in quanto non emergenti dal nulla e non rientranti nel nulla. Il loro essere eternamente muta, ma non potrà mai non essere, secondo la lezione di Parmenide. Quella di Campanelli risulta essere una lezione di anti-nichilismo.
C’è osmosi tra il corpo dell’artista e la tela, trasmigrazione retroattiva di flussi, libbre di carne che si fissano sul quadro sanguinando lungo la tela. Egli infonde movimento ai suoi quadri continuando il suo gesto oltre il quadro stesso. Quest’ultimo diventa la cartografia colorata di quell’esterno che abita l’artista (estimo lo chiamava Jacques Lacan) e che egli estroflette sul piano pittorico. Egli dipinge ascoltando l’eco della materia che riverbera nell’antro della sua anima guidandolo nell’atto pittorico.
La cifra cromatica di Campanelli ruota attorno a due colori primari, il rosso e il blu, ai quali possiamo associare altrettanti cicli o meglio movimenti spiraliformi tridimensionali, il livelli di ognuno dei quali corrispondono a un diverso piano di stratificazione materica.

Nella dominante rossa l’artista alza colonne e muri di fuoco dentro fornaci al calor bianco nelle quali fa esplodere in frammenti le viscere della materia, dipingendone lapilli accecanti che danzano e cinerei resti in cui essi si trasformano. Il calore del colore fonde i legami degli atomi riconfigurandoli in nuove e mutevoli fogge. Navigando lungo un rosso Acheronte l’artista scorge sotto la crosta mondana la fucina dalla quale tutto prende forma, diventandone custode e sacerdote allo stesso tempo. Dove ardono fiamme su sfondi neri, guizzano spirali e volute di fumo bianco e baluginii di luce gialla trasformativa, come altrettanti germi che rinnovano la cristallizzazione delle forme a venire. E ancora, strappi di realtà che lasciano intravedere la testura del Reale, squarci cromatici nella tela che denunciano la convenzionale impostura delle forme consolidate e condivise.

Da parte sua la recente mostra Arousal, o del risveglio, curata da Francesca Brandes, è dominata invece da un colore freddo, il blu, con il quale l’artista aveva già lavorato in passato. Se nel colore rosso c’è un movimento d’espansione e di neghentropia, in quello blu, al contrario, c’è un movimento di contrazione e di entropia. In alcune tele di questa sua ultima personale veneziana, si può cogliere la materia nel suo tendere verso una quiete che restituisce all’osservatore un senso di pacificazione. Le tensioni che alimentano la plasticità in fieri delle forme tendono a venire meno, mentre il movimento risulta sul punto di arrestarsi. Campanelli sosta qui, rimanendo sulla soglia tra la vita e la morte, tra il respiro del colore e il suo agonizzare, raccogliendo gli ultimi rantolii di vita della materia e il suo grido strozzato prima che si spenga nel buio di una notte indifferenziata. La dicotomia tra l’assenza di colore e un blu screziato si sfrangia, rilasciando puntuazioni colorate che vengono risucchiate nell’oscurità di un buco nero. Qui non siamo sulla terra ma nello spazio, tra astri ghiacciati o in via di spegnimento. Come il rosso ci portava all’inizio del mondo così il blu ci porta alla sua fine. Allo stesso tempo, su di uno sfondo nero, il blu di Arousal intercetta l’ombra della materia, dipingendola in negativo come in un radiogramma. È la radiografia dell’ectoplasma materico che avvolge l’universo, quella materia oscura invisibile, quel noumeno del quale il fenomeno costituisce la sola parte percepibile.

L’arte di Campanelli in definitiva non fa altro che dipingere l’inizio e la fine del mondo, ricominciando ogni volta da capo, come fosse la prima volta. È arte traumatica che si rigenera indefinitamente attraverso la forza del trauma stesso che induce in chi ne viene coinvolto. Le affezioni che suscita nel soggetto lo scompongono nelle sue componenti emotive elementari, che a loro volta, tendono a polarizzarsi in direzioni diametralmente opposte: movimento vs stasi, vita vs morte, fluidità vs sclerosi, tensione vs quiete, aggregazione vs disgregazione ed espansione vs contrazione.
Potremmo in qualche modo definire la pittura di Campanelli anche come pittura pulsionale, la quale non fissa sulla tela enti de-terminati ma ruota attorno a se stessa ripetendosi da posizioni eccentriche sempre diverse, tali da garantirne il mutamento. Per coglierla è necessario che l’osservatore si faccia materia lui stesso per venirne a sua volta plasmato. Sincronizzando il proprio spettro psico-cognitivo con l’impasto morfo-cromatico della tela, egli può trovarvi le risposte che in quel momento sta inconsciamente cercando, le quali cor-rispondono alla sua verità singolare. Risposte non chiare e de-finitive perché se la verità è sempre un non-nascondimento (a-letheia) che allo stesso tempo occulta e dis-occulta, la luce con cui l’arte di Campanelli può illuminarla deve essere radente, per non bruciarla, e perciò non deve mai rispondere, ma sempre e solo accennare, come faceva la Pizia. Sta poi al soggetto ri-comporre le sue ritenzioni mnestico visive all’interno del suo parallelogramma di forze interiore, per disegnare la risultante della sua traiettoria esistenziale.
L’arte di Vito Campanelli è poietica nel senso attribuito a poiesis da Heidegger, ovvero quello di un “portare alla luce”, di un modo di rivelazione dell’essere, attraverso un processo per il quale qualcosa esce dal nascondimento, illuminato da una luce che lo lascia accadere. Un arte che coglie in filigrana l’essere materico e antimaterico, ripetendosi sempre uguale e perciò sempre diversa, suscitando emozioni proprie di un’esperienza pura, attraverso il colore che nasce come una nuvola d’essere al di sopra dell’universale braciere (Deleuze), infinito generatore di forme.
https://campanelliarte.weebly.com/
Riferimenti bibliografici
G. Deleuze, Sulla pittura
M. Heidegger, La questione della tecnica
F. Hölderlin, Patmos
J. Lacan, Scritti
R. Ronchi, Deleuze
G. Simondon, L’individuazione psichica e collettiva