
I Maestri folli e l’autorità coloniale – di Riccardo Ferrari
Nel 1960 Vittorio Lanternari pubblicò Movimenti religiosi di libertà e salvezza dei popoli oppressi, un libro divenuto presto un punto di riferimento internazionale negli studi sui nuovi movimenti religiosi sorti, a partire dai primi anni del XX secolo, dall’urto fra le culture tradizionali e la cultura “egemonica” occidentale imposta dal colonialismo europeo. Era tipico dei movimenti profetici e millenaristici nati in molte regioni africane, come in altri continenti, un mito di fine del mondo e palingenesi dalla condizione di oppressione attraverso un rifluire di forme religiose tradizionali rielaborate in funzione “di liberazione dai bianchi, nell’acquisizione di un più alto livello di vita, il cui desiderio è acuito appunto dal confronto dei sopravvenuti stranieri, apportatori di un’ignota cultura industriale e di straordinari strumenti di supremazia”[1]. I nuovi culti religiosi hanno avuto la funzione “profana” di risolvere le crisi provocate dalla fase estrema del colonialismo attraverso forme di riscatto mitico-rituale in grado di raccogliere le complesse istanze di liberazione dall’oppressione politica ma anche, una volta avvenuta la formale indipendenza dagli stati europei, da quella culturale del modello di civilizzazione capitalistica.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale la “situazione coloniale”, oltre che entrare formalmente nella tradizione degli studi antropologici, definisce un orizzonte critico in cui sono coinvolte sia le popolazioni colonizzate che in un arco di due decenni raggiunsero l’obiettivo politico dell’indipendenza, sia molti studiosi occidentali che cercarono di riflettere sul significato del colonialismo e sulle sue conseguenze politiche, economiche, sociali e psicologiche, fino a diventare un autonomo campo di ricerca con la Post-colonial theory.
È in questo contesto riflessivo che dobbiamo situare la realizzazione del film Les Maîtres Fous da parte di Jean Rouch nel 1955, ambientato nella città di Accra due anni prima che il Ghana (allora Costa d’Oro) raggiungesse l’indipendenza dalla corona britannica. Il film descrive un rituale di cui sono protagonisti alcuni appartenenti al movimento religioso Hauka, nato nel 1925 all’interno della cultura Songhai in Niger, per poi migrare in altre regioni dell’Africa Occidentale[2]. Gli Hauka sono una delle famiglie di spiriti nel pantheon del popolo Songhai, ma la particolarità di questi spiriti che vengono evocati nel rito di possessione è che assumono le forme delle autorità coloniali come King Zuzi (il giudice supremo coloniale) e Gomno Malia (il Governatore del Mar Rosso), divinità che incarnano un potere bianco misteriosamente intoccabile e irrigidito in grevi caricature delle sue più tipiche figure di potere. Il rituale Hauka (il cui nome, in lingua Hausa, significa “follia”) è una danza di possessione organizzata da un “sacerdote” (Zima) che era il garante del legame con gli antenati, nella quale gli “iniziati” al culto diventano dei medium degli spiriti del potere politico e militare dei colonizzatori, al suono di un violino monocorde e di un tamburo di zucca. Jean Rouch, su richiesta dello Zima che aveva visto i precedenti documentari del regista, filma uno di questi rituali “mimetici” nella campagna fuori dalla città, costruendo uno spazio dialettico fra la metropoli dove i partecipanti al rito lavorano tutta la settimana e il luogo festivo fuori dalla civilizzazione moderna, nella giornata domenicale.
Il regista, che studiava queste culture da alcuni anni, si era specializzato nella storia Songhai al seguito di Marcel Griaule e aveva già realizzato alcuni documentari su queste culture fra il 1948 e il 1949 che avevano suscitato l’interesse di molti intellettuali francesi, in particolare provenienti dal mondo del Surrealismo. La missione Dakar-Gibuti, nel 1931-33, guidata da Griaule e promossa dalla Repubblica francese e da un mondo culturale che comprendeva l’Istituto di Etnologia dell’Università di Parigi guidato Marcell Mauss, il Museo nazionale di Storia naturale e la rivista Documents, aveva già prodotto un’esposizione al Museo di Etnografia del Trocadéro con oggetti e fotografie della missione che aveva alimentato l’entusiasmo dei surrealisti per l’art nègre e lo stesso avvicinamento di Rouch alle culture centro-africane.
Les Maîtres Fous si presenta come un’opera ambiziosa che inventa un nuovo linguaggio filmico prendendo le distanze dal tipico documentario “descrittivo” per affermare una più complessa idea di antropologia visiva. Per fare questo Jean Rouch mette a frutto un elemento essenziale dell’approccio etnografico del suo maestro Griaule, che prevedeva una sorta di “provocazione” della realtà attraverso una metodologia etnografica complessa e sistemica, basata sulla formazione di un archivio visivo fatto di fotografie e mappe, dispiegando un team di professionisti osservatori che raccogliessero dati da varie prospettive disciplinari e assegnando un ruolo attivo e inter-attivo agli informatori a cui si potevano anche affidare compiti di ricerca. James Clifford ha definito questo stile di ricerca sul campo di Griaule come “una formazione da combattimento” che provocava e “disturbava” le forme rituali osservate, per “fare venire fuori risposte non preordinate”[3]. Michel Leiris, che partecipò alla missione Dakar-Gibuti come segretario archivista e che, al ritorno in Francia, curò un numero speciale della rivista Minotaure con le fotografie raccolte in particolare sulla cultura Dogon, scrisse un’amara riflessione su questa esperienza nel libro autobiografico L’Africa fantasma, interrogandosi sui limiti politici e scientifici che il colonialismo impone alla ricerca sul campo, partendo dalla constatazione che l’etnografia è in buona misura un prodotto della storia coloniale europea.
Date queste premesse, è più facile comprendere l’idea di cine-trance con cui Rouch descrive la sua opera, dove il team di Griaule che disturba e forse orienta il corso della cerimonia “nativa” con la sua esplicita intrusività, diventa la troupe cinematografica che non si limita a registrare un evento tribale ma in qualche modo lo suscita attraverso la sua presenza e partecipazione alla performance:
Lavoriamo con obiettivi grandangolari, in modo da poter essere molto vicini alle persone che filmiamo. Questo finisce per ridurre la nostra azione a un’avventura che è il più perfetto disordine, poiché filmiamo con grandangoli, cioè vedendo tutto, ma riducendoci alla prossimità, cioè senza essere visti dagli altri. Siamo diventati invisibili stando vicini e avendo una visione estremamente ampia; questo è il modello del disordine[4].
Il regista infatti, a partire da questo film, adotta una tecnica “leggera” con cinepresa 16mm usata per lo più a mano, riprese della durata di circa 20 secondi e un montaggio molto sintetico che condensa eventi e alterna luoghi e tempi diversi, orientando il significato (il film è strutturato secondo delle coppie di opposti come città e periferia, cerimonie dei colonizzatori e cerimonia indigena, tempo profano e tempo mitico). Con queste soluzioni Rouch costruisce un cinema critico nei confronti del realismo descrittivo tradizionale, facendosi agente di destabilizzazione e “disordine” grazie all’inserzione di una drammatizzazione che ha il compito non solo di osservare, ma anche di interpretare il significato del rituale Hauka e la verità dinamica dell’evento raccontato anche attraverso la presenza intrusiva dell’osservatore-etnografo.
Il film inizia con una scritta che avverte e circoscrive l’orizzonte di senso del rituale: alcune scene presentano violenza e crudeltà, ma queste vengono inserite in un’esperienza culturale che risponde alla necessità di adattamento alla civiltà occidentale e “meccanica” di alcuni giovani immigrati che vivono e lavorano ad Accra. Ecco il testo dei primi “cartelli” introduttivi:
Così nascono dei conflitti e delle nuove religioni. Così si è formata, verso il 1927, la setta degli Hauka. Questo film mostra un episodio della vita degli Hauka della città di Accra. È stato girato in seguito alla richiesta dei sacerdoti, fieri della loro arte, Mountyeba e Moukayla. Nessuna scena è vietata o segreta ma aperta a coloro che vogliono giocare questo gioco. E questo gioco violento non è che il riflesso della nostra civilizzazione.
Le prime immagini della metropoli e la voce narrante ci fanno entrare in un trafficata “Babilonia nera”, dove da molti paesi dell’Africa occidentale vengono persone a cercare di vivere la “grande avventura delle città africane”. Alcuni giovani della comunità Zabarma sono mostrati nei rispettivi lavori subalterni, dai manovali del porto a quelli dell’agricoltura, dai “boys” addetti alla pulizia delle fognature a quelli che hanno trovato impiego nell’edilizia e nelle miniere. In contrapposizione a questa discesa della forza-lavoro nella città occidentalizzata attraverso la potenza plasmatrice del capitale, la situazione cambia improvvisamente e anticipa, con una scena notturna in cui vediamo un volto trasfigurato dalla possessione con una schiuma bianca che gli esce dalla bocca, il rituale eseguito da questa comunità durante la giornata di domenica: il rituale dei nuovi e folli dèi, gli Hauka.
Dopo questa anticipazione, il film ritorna nella metropoli africana, e viene mostrato lo spostamento, la domenica mattina, dei membri della setta in un bosco fuori dalla città, presso il sacerdote che celebra il rito e che ha già predisposto alcuni elementi del set, come teli decorati appesi che vengono chiamati con il nome della bandiera del Regno Unito (Union Jack), l’altare del sacrificio (un blocco circolare di cemento armato), il palazzo e la statua del governatore realizzata con “oggetti-trovati” (un fantoccio di legno con occhiali, baffi, capelli, sciabola e pistola). La cerimonia segue lo schema dei riti di passaggio, dove la preparazione (la fase pre-liminare) vede il succedersi della confessione dei peccati, il sacrificio di una gallina, l’iniziazione dei nuovi adepti e la purificazione. Passata la mattinata in attesa di un cane portato per il sacrificio, iniziano la musica e la danza, mentre gradualmente a molti dei presenti tremano le labbra, gli occhi ruotano e si dilatano, le bocche schiumano: sono i segni somatici della possessione e i primi Hauka si manifestano attraverso i medium che tutti i partecipanti iniziati possono diventare. Arriva dapprima Kapral Gardi, il caporale, poi si manifestano via via gli altri spiriti, il segretario generale, la moglie del dottore, il guidatore di locomotiva e gli altri agenti del dominio coloniale, fino a che il sacerdote non rompe un uovo sopra la testa del Governatore. Improvvisamente, grazie alle scelte di montaggio, vediamo un’altra cerimonia, ma non più nel bosco, bensì nella città, una parata militare del potere bianco, e l’uovo rotto dai “selvaggi” sopra la testa del Governatore diventa una appropriazione parodica delle piume bianche e gialle sopra l’elmetto del vero governatore, così come in tutta la trance assistiamo a una mimesi dei simboli del potere esibiti nella parata coloniale.
Dopo questo montaggio alternato che ha il compito di mostrare allo spettatore le vere autorità che vengono evocate nel rito di possessione, entriamo nella parte più disturbante del film, quando tutti gli Hauka si riuniscono in una “tavola rotonda” per compiere il sacrificio del cane e decidere come dovrà essere consumato, crudo o cotto, secondo le due tipiche opzioni che Lévi-Strauss aveva studiato come indicative dell’opposizione natura/cultura. Presa la decisione di cuocerlo, compiendo quindi un deliberato atto culturale, tutti i “performers” prima leccano il sangue e poi consumano le carni del cane dopo averlo tagliato e cotto in una marmitta, immergendo le mani nella pentola bollente e disputandosi le varie parti, fra cui testa e budella. Rouch, nel suo commento fuori campo (che è la voce dell’osservatore-etnologo occidentale partecipante), interpreta questo sacrificio nei termini della violazione di un tabù africano quanto europeo e, dal momento che viene praticato quando gli Hauka sono posseduti dagli spiriti coloniali, vi vede l’immagine rovesciata della violenza dei “bianchi”. Consumare la carne di un animale tabù equivale, nella logica del rituale, a incorporarne la forza e il potere trasgredendo un divieto culturale: l’esibizione della crudeltà deve essere inserita in questo “frame” di rispecchiamenti e inversioni in cui la follia e la violenza che vediamo nello spettacolo barbarico nella foresta riproduce la follia e la violenza dei rapporti di potere nella città coloniale, dove i masters (maestri, padroni) bianchi strutturano la vita dei colonizzati, riducendo la loro soggettività a quella, quando non si tratta di esplicito schiavismo, del fedele servilismo del cane per il suo padrone. Uccidendo il cane in questa contro-parata dominata dal caos e dal disordine, gli Hauka dimostrano la loro indocilità e il loro coraggio, uccidono simbolicamente anche la loro subalternità proponendosi come soggetti storici e non solo come fedele materiale umano o forza-lavoro addomesticata. La follia degli Hauka può così essere letta come lo specchio rovesciato della follia della cultura occidentale e la messa in scena straniante della dialettica servo-padrone.
L’ultima parte del film ci mostra il ritorno alla vita urbana dei medium Hauka dopo la cerimonia domenicale e li presenta nelle loro attività lavorative ordinarie, con i primi piani dei volti sorridenti e non più trasfigurati dalla possessione, dal sangue e dalla schiuma: ci mostra quindi la terza fase dei riti di passaggio, quella post-liminare che consiste nel reinserimento comunitario delle persone che hanno attraversato la crisi rituale nella fase liminare, persone che sono le stesse ma nello stesso tempo trasfigurate, rinate e rinforzate in una nuova forma di umanità. Davanti all’ospedale psichiatrico di Accra vediamo il governatore, il conducente della locomotiva e l’autista del camion che lavorano come operai nella società urbana delle acque, mentre la voce fuori campo di Rouch si domanda se queste persone non abbiano trovato il “rimedio” per essere perfettamente integrate nella società “meccanica” e capitalistica, la “panacea” contro la malattia mentale della modernità grazie al loro modo creativo di negoziare rapporti di forza in cui sono, per definizione, la parte debole.
Il film di Rouch nasce quindi da una riflessione critica sullo “sguardo coloniale” della cultura occidentale, di cui l’etnografo fa parte, come dal 1951 aveva messo in rilievo Georges Balandier[5]: l’asimmetria della situazione coloniale richiede una riorganizzazione della prospettiva dalla quale si osserva il fenomeno “etnico”. La strada intrapresa dal regista francese è quella di un’antropologia “condivisa” e dialogica che prevede un feedback fra osservato ed osservatore. L’idea del regista, più volte espressa nelle sue riflessioni di accompagnamento al film, è quella di rendersi invisibile attraverso un’eccessiva visibilità e prossimità del cine-operatore all’interno del rito, costruendo un cine-occhio in trance che risponde in modo paradossale al problema etnografico dell’osservazione partecipante.
Ecco come il regista rievoca il suo lavoro con la popolazione Songhay:
Nel 1954 ho potuto recarmi tra quelle popolazioni con un film da me girato sui cacciatori di ippopotami con l’arpione che ho proiettato nel loro villaggio. Ho scoperto con grande stupore, immediatamente, che queste persone che non avevano mai visto il cinema capivano l’immagine cinematografica […] Lo abbiamo proiettato tre volte; alla terza volta mi hanno criticato, mi hanno detto: “Non è esatto, hai fatto un errore”. Questo non me l’avrebbero mai detto se si fosse trattato di un testo […] In altre parole, ciò che ritengo essenziale, è il fatto che un lavoro svolto su una popolazione sia criticato dalla stessa gente. “Hai sbagliato”, questa frase è l’inizio di quella che noi chiamiamo antropologia condivisa.[6]
Attraverso questa negoziazione il regista-etnografo non vuole riprendere in modo “oggettivo” un evento e rappresentarlo secondo un criterio di verità più o meno scientifico, ma vuole generare una verità filmica. È questo il significato del cinema-verité che ha consegnato Jean Rouch alla storia della settima arte, un cinema che, come sottolineava Gilles Deleuze in L’immagine-tempo, distrugge ogni modello del vero per diventare creatore e produttore di verità attraverso un gioco in cui i personaggi insieme al regista non smettono di diventare altro operando una “messa in leggenda”: “Rouch fa il suo discorso libero indiretto mentre i suoi personaggi fanno quello dell’Africa”[7].
Nonostante questo etno-dialogo che provoca una verità possibile nel rispetto della volontà dei soggetti coinvolti, nelle prime proiezioni pubbliche il film raccolse entusiastici consensi quanto aspre critiche. Infatti se per il mondo intellettuale parigino divenne quasi un mito, in particolare nell’ambito della critica cinematografica dei Cahiers du cinéma, da Bazin a Godard, il film indispettì sia gli antropologi sia molti intellettuali “neri”. Se il suo mentore Marcel Griaule chiese di distruggerlo dopo averlo visto in una proiezione riservata al Musée de l’Homme e molti antropologi criticarono l’assenza di contestualizzazione del rituale all’interno della religione Songhay, il film fu giudicato da molti esponenti del mondo africano come razzista per il modo in cui, invece che superarli, rinforzerebbe gli stereotipi su una supposta componente selvaggia e tribale delle culture “primitive”[8].
Il problema sottolineato da alcuni studiosi come J. Ferguson è che l’operazione di mimicry da parte di culture del terzo mondo, ossia l’imitazione di pratiche e figure del primo mondo, può avere diversi livelli di analisi. L’imitazione può essere letta come un gesto di resistenza, di appropriazione parodica di alcuni modelli per incorporarne la potenza nell’orizzonte dell’emancipazione, ma può anche chiudere l’incontro etnografico in un paradigma tradizionale che identifica il mondo africano con una mentalità magico-primitiva, cioè “etnicizzarlo” senza considerare l’aspetto dinamico di certe pratiche culturali che hanno più a che fare con una rivendicazione della propria appartenenza al mondo moderno (“l’imitazione aveva meno a che fare con la magia simpatetica e l’adattamento del potere bianco all’interno degli ordini culturali indigeni, e più con le rivendicazioni di appartenenza alla società moderna e le negoziazioni dei diritti connessi a tale appartenenza”)[9].
Come si è detto il film si inserisce all’interno del decennio della decolonizzazione e deve essere letto come una testimonianza di questa trasformazione storica, della cicatrice che ha lasciato non solo nelle istituzioni sociali e culturali, ma anche nella psicologia delle persone coinvolte in questo processo. Per un verso appartiene al tentativo di comprensione di nuovi culti sincretici come quelli analizzati da Lanternari, ma anche e negli stessi anni da Peter Worsley sui culti millenaristici in Melanesia come il “culto del cargo”, dall’altro, proprio per queste sue modalità innovative di rappresentazione, si presenta anche come una riflessione sul rapporto fra mimesis e potere. Come osserva Ernesto De Marino a proposito degli studi di Lanternari e Worsley, i movimenti millenaristici possono avere diversi significati. Il culto del cargo, ossia l’attesa di una mitica nave (o aereo) carica di merci di produzione occidentale, cioè quei beni che i “bianchi” avevano abusivamente tenuto per loro, che avrebbe segnato l’inizio di un’era di indipendenza dal dominio coloniale, può essere il “dinamico preannunzio di un gruppo che si risveglia” attraverso l’organizzazione sempre più consapevole di una resistenza politica anti-britannica oppure una semplice forma di evasione in cui i “gruppi impartecipi alle manifestazioni istituzionali di una data società”[10] cercano un “compenso” simbolico alla loro subalternità di colonizzati, confermando la struttura logica del discorso egemonico. Occorre forse recuperare il suggerimento di Ugo Fabietti, secondo il quale i rituali mimetici non hanno tanto lo scopo di appropriarsi magicamente di alcuni aspetti di un’altra cultura, quanto di instaurare con essa una “relazione significante”[11] che, grazie alla forza produttiva dei comportamenti imitati e parodiati, promuove un riconoscimento del popolo indigeno come soggetto attivo di una dialettica interculturale.
Jean Rouch è ben consapevole di questa ambiguità del processo mimetico e dalle prime parole del suo commento fuori campo ci invita ad entrare in un gioco di specchi, in cui soggetto e oggetto, osservato e osservatore, diventano reversibili: la civiltà e la barbarie non sono più localizzabili ed opposte, anzi, all’interno della violenza strutturale dell’incontro coloniale, la barbarie diventa un prodotto della civiltà.
In questo senso Les Maîtres fous è un esempio di antropologia visiva che va messo in costellazione con le altre riflessioni che, nel contesto storico dei processi di decolonizzazione, hanno costituito un orizzonte di significato alla decostruzione del paradigma autoritario e coloniale. Oltre al già citato Balandier, anche Frantz Fanon, pubblicando nel 1961 I dannati della terra, rileva la compromissione delle stesse discipline etnologiche nel dispositivo del potere imperialista, con il loro improbabile sguardo neutro sulla cultura primitiva o tradizionale. Nel sistema di dominio della città coloniale l’antropologo con il taccuino o con la cinepresa che riprende in modo oggettivo il rito “autentico” è un prodotto ideologico di quella stessa situazione in cui potere e violenza coincidono (tanto che, come Griaule racconta a proposito delle nuove maschere tradizionali della cultura Dogon, fra le varie figure di questa iconografia “primitivista” a metà Novecento fa la sua comparsa proprio la maschera dell’etnografo con penna e taccuino[12]). Per questo Fanon non guarda con simpatia certe pratiche rituali come le danze di possessione che cristallizzano le culture colonizzate in una dimensione a-temporale, sottratta al dinamismo storico e che incanalano l’aggressività in un cerchio permissivo, che “protegge e autorizza”. Fanon ha avuto il merito di porre la questione della soggettivazione all’interno della città coloniale, studiando gli effetti che il potere bianco crea non solo a livello politico ma anche a livello psichico e per questo vede nella danza di possessione uno strumento ambiguo spesso funzionale alla reintegrazione, dopo la crisi, nella strutturazione gerarchica della società:
In realtà sono sedute di possessione-spossessione quelle che vengono organizzate: vampirismo, possessione da parte dei gin, degli zombies, di Legba, il dio illustre del Vodù. Tali sfaldamenti della personalità, tali sdoppiamenti, tali dissoluzioni adempiono a una funziona economica primordiale nella stabilità del mondo colonizzato […] Si assisterà, nel corso della lotta di liberazione, a un singolare disamore per queste pratiche […] dopo anni d’irrealismo, dopo essersi compiaciuto dei fantasmi più stupefacenti, il colonizzato, con il mitra in pugno, affronta finalmente le sole forze che gli contestavano il suo essere: quelle del colonialismo.[13]
La condizione di oppressione delle popolazioni autoctone colonizzate ha creato una sorta di situazione oppositiva, una “drammatica” in cui i neri vogliono assumere la maschera bianca del dominatore in un processo di “lattificazione”. In Pelle nera, maschere bianche Fanon aveva fatto la sua diagnosi di psichiatra-colonizzato, parlando della condizione nevrotica di “doppio narcisismo” con il bianco chiuso nella sua “bianchità” e il nero nella sua “negrità”, in una dialettica negativa in cui ogni termine trae il suo senso dall’altro, ma in una asintetica ed eterna differenziazione. La poetica della “negritudine”, il movimento di affermazione dell’identità “negra” che segue al neologismo di Aimé Césaire, può essere letta come una strategia funzionale all’uscita dal circolo vizioso, che però va criticata nella sua componente mitica ed essenzialista se si identifica su una supposta e autonoma “natura negra”, una sorta di rovesciata “metafisica africana” in cui, come scrive Alain Badiou, gli uomini neri “sono più belli, più forti, più intelligenti, più in accordo con la natura, più antichi, provvisti di un ordine simbolico più corposo, più dotati del senso del ritmo, più poeti, più…più dei bianchi”[14], invece di negare valore a “ogni giudizio globale su una comunità di colore”.
Il riconoscimento attraverso la lotta è arrivato pochi anni dopo la realizzazione de Les maitres fous, quando il Ghana ottenne l’indipendenza dal Regno Unito nel 1957. Il movimento Hauka però non finì, sia perché il potere coloniale continuava ad esercitarsi attraverso le varie forme di Indirect-Rule (ossia di decentramento attraverso i capi tribali che rappresentano l’autorità metropolitana) sia perché alle ferite del potere coloniale si aggiunse la lotta a cui in fondo i maestri folli avevano già trovato una prima forma di adattamento, ossia la lotta per la sopravvivenza nella città capitalistica e nelle strutture di dominio della globalizzazione.
In omaggio alla liberazione del Ghana e dopo la visione del film di Rouch, Jean Genet nel 1958 scrisse Les Nègres, riflessione metateatrale sul doppio narcisismo della negritudine. Attori neri travestiti da “negri” recitano la cerimonia dell’immagine che i bianchi gli hanno imposto, mettendo in scena, come in un rituale, l’uccisione dopo lo stupro di una donna bianca, cioè assumendo lo stereotipo dell’ideologia razzista sulla sessualità nera. Li giudica un tribunale formato da attori neri con una maschera bianca che rappresentano le figure del potere bianco: il giudice, la regina, il missionario, il governatore. Come annuncia un personaggio all’inizio della pièce, la parodia deve essere spinta fino al suo culmine per rendere impossibile ogni comunicazione: “se tagliamo i legami, che un continente se ne vada alla deriva e che l’Africa sprofondi o prenda il volo…”[15].
Note:
[1] Lanternari V., Movimenti religiosi di libertà e di salvezza dei popoli oppressi, Feltrinelli, Milano, 1960, p. 20.
[2] Sulla diffusione di questo movimento vedi Stoller P., Horrific Comedy: Cultural Resistance and the Hauka Movement in Niger, Ethos, Vol.12, No 2, 1984, pp. 165-188.
[3] Clifford J., I frutti puri impazziscono, Bollati Boringhieri, Torino, 1993, p. 89.
[4] Rouch J., Ciné-Etnography, University of Minnesota Press, Minneapolis, 2003, pp. 154-155 [le traduzioni dei testi citati in inglese sono fatte dall’autore del presente saggio].
[5] Balandier G., La situazione coloniale e altri saggi, [1951] Meltemi, Milano, 2022.
[6] Intervista raccolta in Cedrini R., Immagini e culture. Introduzione all’antropologia visiva, Flaccovio, Palermo, 1990, p. 26.
[7] Deleuze G., L’immagine-tempo, Ubulibri, Milano, 1989, p. 171.
[8] Stoller P., 1992, The Cinematic Griot: The Ethnography of Jean Rouch, Chicago, Chicago University Press.
[9] Ferguson J., Of Mimicry and Membership: Africans and the “New World Society”, Cultural Anthropology, Vol. 17, No. 4, Nov 2002, p. 558.
[10] De Martino E., Furore, simbolo, valore, Feltrinelli, Milano, 1980, p. 161.
[11] Vedi Fabietti U., Dal tribale al globale, Pearson, Milano, 2020, p. 184.
[12] Vedi Aime M., Il primo libro di antropologia, Einaudi, Torino, 2008, p. 254.
[13] Fanon F., I dannati della terra, Einaudi, Torino, 1962, p. 22.
[14] Badiou A., Lo splendore del nero, Ponte dell Grazie, Milano, 2016, p. 96.
[15] Genet J., I Negri, in Id., Tutto il teatro, Mondadori, Milano, 1989, p, 280.