L’utopia di una rifondazione dell’Umanesimo nella Scuola Italiana – di Roberto  Finelli

L’utopia di una rifondazione dell’Umanesimo nella Scuola Italiana – di Roberto  Finelli

3 Marzo 2025 Off di Francesco Biagi

1. Innalzamento dell’obbligo scolastico al 18° anno di età. Unificazione delle varie tipologie della scuola secondaria superiore in un unico Liceo che contempli conoscenze generalizzate per tutti di materie storico-letterarie (tra cui Greco e Latino), materie scientifiche, logico-informatiche, linguistiche (due lingue straniere), con la forte presenza di attività teatrali, grafiche, musicali e sportive. L’aumento e la diversificazione del numero delle materie e delle molteplici attività scolastiche sarà consentito da una scuola a tempo pieno, aperta mattino, pomeriggio, sera, tale da divenire il luogo permanente di una attività non solo di istruzione ma di socializzazione e di incontro (senza ovviamente trascurare tempi e spazi dello studio individuale quale momento indispensabile del processo   formativo). Con l’innalzamento dell’obbligo scolastico all’età di 18 anni si provvederà alla riorganizzazione/eliminazione della scuola media inferiore, vero buco nero dell’attuale scuola italiana, da cui gli studenti escono ormai nella gran massa senza la padronanza delle strutture logico-grammaticali-sintattiche più elementari e dunque senza una sufficientemente modesta capacità di scrittura e di lettura. Di contro ai pochi già immersi in una modalità preliceale e individualistico-competiva di accumulazione di competenze.

2. Istituzione di un anno sabbatico generalizzato, e pagato con stipendio pieno, per tutti i docenti di scuola materna, primaria, media inferiore e secondaria superiore da trascorrere ogni 7 anni di insegnamento presso Università e Istituti di ricerca italiani e stranieri. Tale anno sabbatico, di frequenza di lezioni e di ricerca, che cancellerà la miriade di corsi e corsetti di aggiornamento contemporanei si concluderà con la compilazione di una tesi o di una esercitazione scritta, approvata e convalidata dall’Istituzione frequentata. Ne conseguirà una necessaria riorganizzazione delle istituzioni universitarie che dovranno aprire le loro aule, i loro programmi di studio e ricerca, i loro docenti a svolgere questa ulteriore offerta di cultura e di socializzazione agli insegnanti degli ordini precedenti di scuola.

 3. Formazione scolastica che abbia come scopo primario, oltre quello del “conoscere”, quello del “riconoscere” o, più propriamente, del “riconoscersi”. Ossia formazione cognitiva che abbia nello stesso tempo come suo scopo la formazione relazionale del “Gruppo Classe”. La formazione cioè di una comunità adolescenziale capace di distinguere e rivendicare la propria specificità di gruppo di contro a quella degli adulti e di accogliere, nel proprio essere-in-comune, nel proprio costituire un tutto, differenze, modalità di tempi e di affetti, sensibilità proprie di ognuno. La formazione del gruppo classe sotto la supervisione promotrice e partecipe degli insegnanti dovrà avere lo scopo di spegnere o mitigare la concorrenza tra i singoli e di introdurre ad una comunità dove comune e individuale, acquisizione del patrimonio dell’umanità e formazione del carattere possano confrontarsi e mediarsi nella loro problematicità quanto nella loro vivacità e ricchezza. La limitazione del numero degli studenti per ciascuna classe è ovviamente condizione fondamentale per il realizzarsi di tale relazione comunitaria.

4. Una scuola che voglia cessare di essere scuola dell’ignoranza e della mortificazione della passione, qual è giunta ad essere la scuola di oggi, e che voglia aprirsi a essere invece una scuola della gioia., non potrà infatti che fecondarsi delle istanze più originali poste dai movimenti di liberazioni di massa dal Sessantotto in poi e che si riassumono nell’introduzione di un’ulteriore definizione della libertà moderna, quale la possibilità per ciascuno di giungere alla più avanzata realizzazione di sé con il minor grado possibile di repressione di affetti e di autocensura. Ma come insegna l’antropologia e la scienza psicoanalitica più avanzata, la capacita da parte dell’adolescente di “riconoscersi” nella più propria irripetibile singolarità dipende dall’”esser riconosciuto”, dal grado cioè di accoglimento e di valorizzazione del proprio sè da parte degli altri. Ossia da un contenitore di socialità che, lontano da una logica individualistico-competitiva, sappia riconoscere le sue fragilità e i suoi tremori, senza criticarle e condannarle ma elaborandole attraverso la pratica di costruzioni comuni. Per questo l’istituzione del Gruppo Classe è l’istituzione fondamentale della scuola del conoscere/riconoscere, quale collettivo che deve saper mediare la conoscenza degli universali con la cura e il riconoscimento degli individuali.

5. Necessità, per ogni insegnante dei diversi gradi della scuola dell’obbligo, di frequentare un corso, della durata di 6 mesi, di cultura psicoanalitica dell’infanzia-adolescenza e della psicoanalisi dei gruppi, pagato con stipendio pieno, all’atto dell’ingresso nella professione scolastica. Compito fondamentale degli insegnanti in relazione alla formazione e allo sviluppo del Gruppo Classe sarà, oltre che promuovere uno spirito di solidarietà collettiva, quello di garantire il diritto di ogni membro a preservare la specificità della sua soggettività e a mantenere autonomia emozionale e di giudizio rispetto ai valori prevalenti nel gruppo. In tal senso i docenti che oltre che diffusori di conoscenza dovranno svolgere funzione di supervisione delle dinamiche relazionali-affettive del Gruppo Classe.

6. Soppressione di ogni connessione possibile tra l’intero percorso scolastico (universitario incluso) e il mondo adulto del lavoro e della produzione. Scuola e lavoro sono due “trascendentali” (organizzatrici cioè di esperienza) che attengono a logiche diverse e a diversi tempi della vita, né riducibili ne sovrapponibili l’uno con l’altro. Il vero lavoro, estremamente impegnativo, di un percorso scolastico autenticamente tale, è infatti quello che connette “conoscere e riconoscere”. Ossia capacità da un lato di accogliere in sé il patrimonio di conoscenze che l’umanità è giunta ad elaborare fin qui attraverso la sua storia – la capacità cioè di apprendere i codici e le informazioni più valide che il genere umano ha fin qui prodotto – e dall’altro la capacità, per ciascuna individualità in formazione, di saper riconoscere il proprio mondo interiore, le proprie emotività e le proprie passioni, come luogo indispensabile (ed unico nella sua incomparabilità con quello di tutti gli altri) da cui nasceranno le sue scelte di vita e di professione, i suoi valori, l’intera sua forma di vita.

7. La scuola del conoscere/riconoscere nel suo rifiuto di ogni sovrapposizione e intreccio con il mondo del lavoro adulto e della produzione economica prevede l’abolizione del ruolo del “preside-manager” e di ogni possibile configurazione della scuola come scuola-azienda con i suoi studenti-clienti-utenti, con i suoi crediti e debiti formativi, con la sua didattica modulare, destinata a produrre una cultura-merce fatta di competenze acquistabili ed usufruibili dal mercato e dall’industria. La dirigenza scolastica, composta di docenti che sospenderanno per tempi limitati l’insegnamento, dovrà essere formata ed eletta attraverso processi democratici messi in atto dall’intero corpo insegnante: ed essere costituita da insegnanti che hanno esperienza d’insegnamento e conoscenza socio-ambientale della scuola che andranno a dirigere. La natura costituzionalmente democratica di tale dirigenza, anziché dirigere un processo aziendale-mercantile, dovrà esprimersi nella cura intelligente del suo demos, formato dalle due tribù degli studenti e degli insegnanti. avendone sollecitudine quanto ad armonia ed unità ed evitando perciò ogni estremizzazione di autoritarismo e di inoperosità. In questo senso anche l’autonomia degli istituti scolastici, oggi iscritta in una cornice mercatoria-concorrenziale, va profondamente ripensata, se non del tutto eliminata.

8. La scuola del conoscere/riconoscere istituisce il percorso formativo, non dell’homo laborans, ma dell’homo civis, non dell’essere umano come forza-lavoro ma come cittadino, membro di una comunità socio-politica. Come tale è una scuola che educa alla conoscenza e alla frequentazione degli universali, ossia di tutti i codici attraverso i quali la storia dell’umanità., nelle sue diverse tipologie, ha provato a condensare e a definire il suo rapporto con il mondo, producendo, culture e forme diverse della socializzazione. Attraverso il percorso delle discipline umanistiche, scientifiche e linguistiche, una formazione che abbia come sua destinazione la cittadinanza mette in atto l’accesso a una “cultura” che è sinonimo di “civilizzazione”, ossia attitudine e capacità di pensare qualsiasi problema nei termini non di interessi egoistici e parziali ma secondo l’orizzonte del coinvolgimento e dell’usufrutto, i piú universali possibili. Questa cultura degli universali è il presupposto, logico-mentale e morale, indispensabile a che si diano, successivamente nel mondo del lavoro, cultura e competenza tecnica del particolare. Giacché solo una compenetrazione di “humanitas” e di “techne” potrà garantire nella storia del futuro un’ibridazione armonica ed equilibrata tra mondo della vita organica e mondo dell’artefatto tecnologico che sempre più si confrontano nel nostro presente. L’opposizione, che ha estenuato la scuola negli ultimi trent’anni, tra “storicismo” e “pragmatismo”, cioè metodologia didattica istituita sulla riproposizione del percorso storico e metodologia che parte dai problemi pratici del presente per tornare eventualmente a pescare all’indietro, va sciolta mantenendo la successione del tempo storico come orizzonte indispensabile per l’orientamento e il consolidamento di una mente in formazione ma volgendo in pari tempo un’istanza pragmatica, parimenti indispensabile, nella capacità collettiva di presentificare, ridar vita e rimettere in scena quel passato, altrimenti astratto e consumato di senso. La diffusione delle nuove tecnologie deve facilitare la formazione del gruppo classe attraverso il reperimento, la messa in campo e la costruzione di un materiale del sapere iconico, narratologico-teatrale e musicale che superi i contenuti spesso solo astrattamente concettuali delle attuali discipline scolastiche. Per consentire un incontro fra strumenti del digitale e dell’artefatto da un lato e una forte radicalizzazione di umanesimo dall’altro è necessario procedere verso una didattica sempre più capace di transitare il sapere concettuale-discorsivo in un sapere iconico-rappresentativo, e viceversa, perché solo la mediazione di astratto e concreto può riaprire un discorso di profondità insieme conoscitiva ed emozionale.

9. Va promossa l’eliminazione delle prove INVALSI all’interno delle scuole di vario grado, per il loro essere un metodo del tutto estrinseco e meramente statistico-quantitativo di valutazione. L’eliminazione delle prove INVALSI deve accompagnarsi a una rivalutazione e a un riconoscimento economico e sociale, del lavoro e del ruolo dell’insegnante, a partire da rinnovate procedure dell’inserimento in ruolo che rimuovano l’estenuazione, fisica e psichica, dell’attuale precariato.

10. Né è un caso che per l’eccesso di una “governance del numero” l’Università italiana, come ultimo fondamentale segmento del percorso formativo, abbia subito negli ultimi trent’anni una decadenza e un impoverimento qualitativo, la cui drammaticità di proporzioni, richiede, in continuità. con le riforme utopiche sopra tratteggiate per i gradi di scuola precedenti, un analogo spirito, e coraggio, di fantasia utopica e trasformatrice. L’istanza prioritaria è quella di modificare radicalmente l’istituzione del 3+2, della distinzione cioè tra laurea triennale e laurea magistrale, perchè tale istituzione, se ha allineato l’Università italiana alla tipologia di quelle europee (secondo una dominanza del modello anglosassone), lo ha fatto a prezzo di un alleggerimento e superficializzazione di programmi e di studi così radicali che si può ben affermare, senza timore di smentita, che oggi l’Università della laurea triennale è retrocessa ad essere quello che una volta era il Liceo. La riduzione temporale dei corsi da annuali a semestrali (nella realtà della durata di soli due o tre mesi) ha infatti impedito una lenta assimilazione dei contenuti da parte degli studenti, con un adeguato approfondimento e appassionamento critico. Ha pressoché annullato l’attività seminariale, quale luogo d’incontro più orizzontale e più facilitante fra professori e studenti. Ma soprattutto con lo sgravamento e la semplificazione dei programmi di studio ha interiorizzato nei professori una disposizione emotiva a considerare i propri studenti, non come interlocutori in formazione dialoganti con pari dignità., ma come “animulae vagulae et blandulae”, da non sorprendere e sanamente provocare, bensì. da far crescere con piano, imbelle dottrinarismo. Dato l’aggancio al sistema universitario europeo, modificare l’istituzione del 3+2 è un’impresa certamente difficile, ma, tra le varie ipotesi ineludibili di smontaggio e riconfigurazione, si potrebbe valutare l’idea di fare dei primi tre anni corsi ed esami su materie eguali e fondamentali per tutti – quindi un curriculum di base obbligatorio e generalizzato che ponesse appunto le fondamenta – e dei due anni successivi delle specializzazioni a scelta del laureando con un piano di studio più determinato e di approfondimento. Dunque un percorso di studi di cinque anni che consentirebbe il ritorno della durata dei corsi da un semestre (trimestre) a un intero anno e che contemporaneamente consentirebbe la parificazione europea di lauree triennali e di lauree magistrali.

11. Abolizione dell’ANVUR (Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca), come istituzione che, giudicando delle prestazioni dei diversi atenei, promuove e sollecita la concorrenza nell’intero sistema universitario, destinando quantità di finanziamenti diversi alle Università migliori delle altre. Abolizione della VQR (Valutazione della Qualità della Ricerca) quale strumento di valutazione dell’attività di ricerca di docenti e ricercatori universitari. Tale complesso di istituti della valutazione, presuntivamente volti a misurare e giudicare secondo qualità, applicando invece criteri essenzialmente formali e quantitativi (come parametri bibliometrici fondati sul numero di citazioni per le materie scientifiche), ha pesantemente concorso ad alterare e a peggiorare la natura della ricerca, e di conseguenza, dell’insegnamento. La necessità di rientrare in parametri di valutazione formale obbliga infatti sempre più ricercatori e docenti a dare attenzione assai più a criteri estrinseci che non al contenuto della loro produzione, garantendosi soprattutto la pubblicazione della loro saggistica in riviste di serie A. Così come la classifica dei Dipartimenti di Eccellenza attraverso l’introduzione dell’astruso e controverso Indicatore Standardizzato di Performance Dipartimentale (ISPD) ha ulteriormente aumentato in Italia la disparità della distribuzione dei fondi a disposizione del Ministero della Ricerca e dell’Università, fortemente penalizzando gli atenei delle isole e del Sud. Una vera valutazione della qualità e dei risultati della ricerca, in ogni campo, può essere solo quella della comunità scientifica, largamente intesa, la sola capace di mettere a confronto gli universali e di discutere e indagare il valore di ogni singola produzione e competenza e del suo concorrere o meno all’avanzamento delle conoscenze e alla qualità dell’insegnamento che ne deriva. In questo senso è indispensabile ritornare a commissioni nazionali, formate da un ampio numero di membri, per i concorsi universitari, che superino la pratica degli attuali concorsi che oggi garantiscono solo la cooptazione e la riproduzione “feudale” di gruppi locali.

12. Investimenti di grande volume per l’edilizia universitaria, al fine di costruire case dello studente e collegi residenziali in un numero tendenzialmente sempre più adeguato al numero degli studenti. Con il duplice scopo di combattere, da un lato, la rendita urbana che ha svuotato molti centri storici per trasformarli in residenze d’affitto e, dall’altro, di operare una riconcentrazione di sedi universitarie, capaci, per il loro numero più limitato, di offrire strutture di ricerca e di studio, come laboratori e biblioteche, e strutture di socialità (residenze, mense, attrezzature sportive, accademie del tempo libero) a un livello di qualità. assai più elevato di quello contemporaneo.

 

1. Una catastrofe della mente

La proposta di questi punti, del tutto utopici e irrealistici nella situazione attuale, vuole mettere in scena il sogno di un possibile ripensamento e di nuova configurazione della riforma di Giovanni Gentile a un secolo di distanza e a fronte del passaggio epocale che la rivoluzione informatica e la cosidetta intelligenza artificiale sta generando nelle nuove generazioni, con particolare riferimento alla problematica di una psiche in formazione.

Una nuova configurazione che della riforma Gentile mantenga la profonda ispirazione umanistica e storicistica ma che appunto sappia avanzare un umanesimo nuovo capace di dialogare e interloquire, senza rifiuti arcaici e improponibili, con le nuove tecnologie e con le trasformazioni radicali che stanno portando nelle nostre vite.

Non credo sia azzardato considerare la trasformazione che il digitale sta portando nei nostri sistemi di scrittura, di lettura e comunicazione come paragonabile ad altri passaggi di portata storica, quali ad esempio il passaggio dalla scrittura ideografica o geroglifica alla scrittura alfabetica, capace di esprimere in una somma di soli trenta simboli la grande quantità precedente di simboli pittografici, o paragonabile ancora al passaggio dalla scrittura amanuense alla stampa a caratteri mobili. In entrambi i casi passaggi di enorme portata, che hanno segnato progressi giganteschi nella diffusione e nella democratizzazione del sapere. Né oggi è da meno la potenzialità di democratizzazione e diffusione della cultura, di nuove modalità di connessione sociale, di ampliamento e di approfondimento di informazioni che le macchine computazionali portano con sé, generando la nostra meraviglia. Dunque un passaggio storico epocale quello che l’umanità contemporanea sta vivendo quanto ai nuovi sistemi di codificazione, di accumulazione e di trasmissione delle informazioni.

Eppure queste promesse di un rinnovato illuminismo e di una più feconda umanità stentano a consolidarsi quando passiamo a considerare la condizione esistenziale e psichica, lo spessore caratteriale e culturale della nostra gioventù. Perché di essa, pensando in termini assai generali, si potrebbe dire che è invece attraversata e segnata da un profondo malessere che rifacendosi alla dizione di Axel Honneth potremmo definire un “soffrire di indeterminatezza” (Leiden an Unbestimmtheit). Cioè una patologia ormai di massa per la quale ogni singolo stenta a trovare dentro di sé valori ed affetti, idee ed emozioni, che possano appassionarlo a un proprio progetto di vita e radicarlo dunque in un percorso di lenta e duratura costruzione di soggettività: di una soggettività con un forte grado di socializzazione ma nello stesso tempo di idiosincratica individualità non riducibile a seduzioni e simbiosi altrui.

In un mondo di informazioni sempre più moltiplicate, quanto a fonti di emissione e quanto a continua variazione dei messaggi, quella che si sta profondamente deteriorando è la verticalità dell’essere umano, cioè la sua capacità di attingere senso e direzione di vita dalla propria interiorità. Oggi soffrire dell’indeterminato non rimanda a tradizionali patologie psichiche, legate ancora, potremmo dire freudianamente, a una costellazione edipico-autoritaria basata sulla contraddizione tra pulsioni emozionali e istituzioni socio-familiari repressive, bensì, io credo, a una patologia di anestetizzazione del proprio sentire. Ossia al mancato sviluppo di un vero e proprio apparato per sentire, per riconoscere e percepire sé medesimi. Ma senza un radicamento nel proprio fondo d’essere, nel proprio fondo emozionale, si può generare solo una mente estrinseca a sé stessa, costantemente connessa, on-line, con messaggi, dettami e icone esteriori e dunque incapace di trovare in sé i criteri e i radicamenti del proprio vivere.

Non a caso catatonia dell’apprendimento ed edonìa depressiva sono le due dimensioni che appaiono connotare maggiromente lo stile di vita dei nostri adolescenti, inseriti in un percorso istituzionale di formazione scolastica ed universitaria che sembra ormai aver assunto, come sua nota dominante la rimozione di ogni intensità di passione e l’omologazione di tutti su un livello conoscitivo anaffettivo e tecnico-strumentale.  Dove catatonia dell’apprendimento significa appunto limitarsi ad apprendere le nozioni più di superficie senza la possibilità di accedere a quadri più complessi e appassionati di senso, di cultura e di storia. Così come edonìa o euforia depressiva significano cercare di compensare tale mancanza di profondità, non solo di concetto ma anche di affetto, con accensioni emotive prive di reale soddisfacimento e pronte ad essere sostituite dalla cattiva infinità di contenuti e pratiche egualmente effimere.

Di fronte a tale patologia di massa che affetta la nostra gioventù io credo si possa rivendicare e sostenere la distinzione tra informazione e interpretazione, con le conseguenze che ne derivano sul piano della formazione scolastica e più in generale dei modi della socializzazione contemporanea.  L’informazione è una comunicazione di notizie, di dati e contenuti che avviene attraverso dei codici tendenzialmente universali (come il linguaggio, la scrittura, la matematica), che, accettati da tutti, aprono ad una conoscenza generalizzata di fatti e situazioni. Mentre l’interpretazione è ciò che dà senso a quelle informazioni, secondo il nostro peculiare e individuale modo di usarle, di selezionarle, di leggerle, di compararle e valutarle. E il senso qui, nella sua ultima istanza, è ciò che coincide con il bene o il male del nostro sentire.

Vale a dire che mentre il “significato” si riferisce ai termini del codice universale usato e alle loro infinite configurazioni possibili, il “senso” sta nel sentire dell’individualità di ciascuno, nella misura in cui sia intensificato o all’opposto ridotto e limitato il suo benessere e la sua forza idiosincratica di vita. Mentre il significato si riferisce a ciò che vale per tutti, il senso è ciò che abita e valorizza in modo privato quel significato, a secondo del grado di bene o di male, di gioia o di mestizia, che ciascuno prova nell’interiorità del proprio corpo emozionale.

La psicoanalisi insieme alla filosofia, una filosofia d’spirazione laica e materialistica, ci dicono che il problema dell’origine del senso giace nella natura contemporaneamente una e bina dell’essere umano, nell’essere cioè l’essere umano un corpo e insieme una mente. Ossia che il corpo, con la sua natura biologico-animale e il suo sentire affettivo-emozionale è il luogo fondamentale di genesi e di riproduzione della vita, e che rispetto a tale processualità primaria la mente con la sua attività rappresentazionale, linguistica e concettuale nasce come funzione secondaria volta a proteggere e ad aver cura del proprio corpo emozionale nelle sue relazioni indispensabili con il mondo esterno.

Ma tutto ciò significa dire che l’unità dell’essere umano è fondata sulla compresenza di un sentire emozionale da un lato e di un conoscere rappresentativo-discorsivo dall’altro e che la complessità, e insieme la drammaticità dell’esistenza umana, consiste nel cercare di condurre costantemente ad unità questa natura duale del proprio essere.

In tal senso si può dire, anche qui in ultima istanza, che l’attività della mente umana realizza operazioni pensanti, autenticamente tali, solo se essa muove da sensazioni-emozioni di origine corporea e che la psiche sia propriamente in attività solo quando riesce a trasformare le proprie emozioni in pensieri: in un transito che va costantemente dal corporeo-emozionale al concettuale- rappresentativo e viceversa, secondo la natura appunto, bina ed insieme una, dell’essere umano[1]. Secondo la quale va sottolineato che conoscere non è sentire, perchè sono ambiti di funzionamento della psiche che obbediscono a logiche diverse ed eterogenee, ma che pure la loro coalescenza, la loro compresenza possibilmente dialogica, quando non invece oppositiva e patologica, costituisce la peculiarità di ciò che si dice essere umano.

Ne deriva da tutto ciò la critica assai legittima che taluni muovono all’intelligenza artificiale argomentando che tale endiadi è una contraddizione in termini e che non si possono definire “intelligenti” macchine a calcolo, macchine computazionali, pure meravigliose e sorprendenti nella loro velocità di elaborazione e di calcolo. In questo ambito si potrebbe ad es. svolgere qualche considerazione sulle prestazioni “conoscitive” di una applicazione come ChatGPT, riferendosi alla distinzione kantiana tra “logica formale” e “logica trascendentale”.  ChatGPT lavora su un’enorme quantità di testi, provenienti da libri, saggi, siti Web ed altre fonti, calcolando quali siano le parole più frequenti e probabili per dare una risposta coerente e adeguata. Elabora dati estraendo dunque  mediane statistiche da un materiale informativo già esperito e accumulato. Anche per il Kant della Critica della ragion pura la logica “formale” elabora contenuti di una conoscenza già acquisiti. Li ordina, li connette l’uno con l’altro, li accorda secondo gradi diversi di universalità, rende esplicito ciò che in essi è già implicito, ma non produce nuova conoscenza, non produce acquisizione di nuovi contenuti. Dà forma ai contenuti già dati valendosi solo del principio logico di identità e non contraddizione, che consente fondamentalmente di includere od escludere, di legare o di slegare. Laddove la logica “trascendentale”, che genera nuova conoscenza, è legata al darsi di modificazioni della sensibilità, di intuizioni e configurazioni sempre nuove di spazio e di tempo, messe in atto dalla corporeità dell’essere umano. Ossia la logica trascendentale, in tanto è acquisizione di nuove conoscenze, in quanto tratta le modalità di un pensiero che in ultima istanza affonda le sue radici nel continuo variare della sensibilità corporea. A differenza della logica formale che invece, usa un pensiero astratto dalla sensibilità, e, come tale, si occupa, non di contenuti, ma solo di calcoli e di messa in forma di contenuti già dati.

 

2. Senso e significato

Alla base di un nuovo umanesimo dunque io credo che sia da porre la tesi che l’essere umano, in tanto è uno e bino, in quanto stringe nell’unità del suo vivere un corpo, regolato da automatismi e ritmi biologici, e una mente che ha la funzione primaria di mettere in accordo l’organizzazione e la riproduzione di tale corpo proprio ed interiore con il corpo esteriore delle pratiche e delle norme dell’organizzazione sociale. Questa prospettiva dell’anthropos come insieme biologico da un lato e linguistico-culturale dall’altro ci allontana da ogni esistenzialismo della differenza ontologica, alla Heidegger, tra Essere ed Esserci, da ogni filosofia della scissione tra infinito e finito o dell’opposizione tra natura e cultura, e ci consegna alla teoria di una mente che ha come sua idea fondamentale il corpo, nel senso che oggetto primario della mente è il corpo quanto alla necessità di quest’ultimo di essere preso in carico e di giungere ad essere rappresentato e riconosciuto nella sfera della coscienza discorsiva e simbolica.

Su questa funzione della mente umana di portare alla luce della conoscenza, ben prima che il mondo esterno, il proprio mondo interno corporeo e materiale la lezione di Baruch Spinoza è stata tanto profonda e originale nell’Europa del ‘600 quanto disconosciuta e rimossa per buona parte della filosofia moderna. Solo la psicoanalisi l’ha fatta sua, rielaborandola, a mio avviso, e approfondendola nell’asserzione di fondo che è solo l’ancoraggio nel reale della corporeità biologica che dà senso al mondo simbolico delle consuetudini della cultura e del linguaggio.

Tutta la teoria freudiana, dall’inizio alla fine, malgrado al rilievo che nella pratica clinica viene assegnata alla funzione terapeutica del linguaggio, è fondata infatti sulla tesi che il linguaggio porta alla luce il senso ma che esso non è generatore e produttore di senso. Abbandonando il riduzionismo della svolta linguistica che ha connotato buona parte della filosofia del Novecento, per cui l’Essere non sarebbe altro che linguaggio, quello che qui si vuole sottolineare è che oggi bisogna guardare maggiormente al lato della psicoanalisi, della biologia e delle neuroscienze, insieme alla filosofia, per trovare la ricerca più avanzata di un’antropologia che assuma come oggetto privilegiato di studio l’emersione del biologico nel culturale e dunque i possibili percorsi di integrazione (come, viceversa, di scissione e di disconoscimento) che si danno tra le due polarità di un’esistenza umana concepita quale  compresenza dell’Uno e del Bino.

Già Spinoza ci aveva insegnato con la sua Etica che “bene” e “male” non sono criteri dell’agire procurati attraverso il conoscere bensì attraverso il sentire. Ossia che, lontani da un’etica intellettualistica in cui è la conoscenza dell’intelletto che indica al desiderio il luogo del bene e il luogo del male, è invece lo stato del nostro sentire, in laetitia o in tristitia, in gioia o in depressione, che ci indica che cosa o non desiderare. Già Spinoza cioè ci aveva detto che è la condizione di maggiore investimento vitale del nostro corpo, in una armonia in cui non ci sono parti asimmetriche che prevalgono e asservono le altre, a darci il senso, la direzione, il progetto del nostro vivere.

Ed appunto ritornando a Spinoza noi possiamo avanzare una distinzione tra “senso” e “significato” che assegna il primo all’interiorità del sentire di ciascuno di noi e il secondo ai termini del sapere pubblico e codificato che la conoscenza collettiva deposita nelle sue trame sociali, dalle pratiche e dalle consuetudini dell’agire ai documenti e alle memorie della scrittura, alle istituzioni della trasmissione della cultura.

Questa distinzione fondamentale tra senso e significato, tra ciò che potremmo dire nella nostra esperienza non è codificabile ma sempre individuale e costantemente variabile e ciò che attiene invece alla codificazione universalmente attingibile e trasmissibile, questa distinzione tra sentire e conoscere, io credo, sia la chiave di volta per orientarci in questo passaggio epocale della storia umana segnato dalla diffusione delle tecnologie digitali e dalla riformulazione generale dei sistemi di scrittura e comunicazione, come dei sistemi di produzione e circolazione economica. Ma chiave di volta sopratutto per orientarci nel mondo dell’educazione e dell’istruzione

E’ infatti la distinzione tra sapere non codificabile e sapere codificabile, tra sapere emozionale e sapere linguistico-concettuale che ci apre alla distinzione tra “interpretazione” e “informazione”, indispensabile io credo per comprendere gli aspetti fecondi e positivi, quanto i limiti e le pesanti insidie, che connotano il passaggio dal mondo analogico al mondo digitale.

 Informazione e interpretazione rimandano infatti a dei contesti profondamente diversi. Informazione significa traduzione ed elaborazione di dati in un contesto matematico che attraverso un codice, nella maggior parte dei casi a carattere binario, tende ad eliminare ogni ridondanza o incertezza al messaggio da trasmettere o memorizzare. Informazione è perciò un dato di esperienza che viene interamente formalizzato su una stringa di simboli numerici che vengono calcolati e connessi tra loro secondo una coerenza assiomatico-formale propria solo del principio di identità e non contraddizione, e secondo una linearità unidimensionale che non ha più alcun riferimento al senso concreto, materiale, emozionale e disposto in uno spazio tridimensionale con cui è nata quell’informazione. Proprio per questa formalizzazione del linguaggio digitale, per questa separazione tra sintassi e semantica, tra calcolo di segni e contenuti di senso e significato, le nuove tecnologie sono in grado di lavorare su una enorme quantità di dati elaborandola, secondo algoritmi ed automatismi matematici, ad una velocità incomparabile con quella umana, la cui intelligenza è invece appesantita e rallentata dall’essere attività mentale di un corpo che si muove e vive in uno spazio tridimensionale.

Ma è appunto proprio tale pesantezza del corpo, di un corpo biologico-emozionale, che ci fa intendere cosa significhi “interpretazione” nella sua differenza da informazione. L’interpretazione è il punto di vista, il vertice prospettico, con cui ciascuno di noi, a muovere dalla sua propria irripetibile singolarità, vede e ritaglia il mondo, lo organizza e gli dà forma al fine della propria riproduzione di vita o ancor meglio al fine della propria espansione di vita. Vale a dire che di tanto l’informazione è codificata, quantificabile ed accumulabile, così l’interpretazione è individuale, idiosincratica e fondata sulla materialità di una vita organica.

In questo senso la scrittura informatica è un “codice” e come tale partecipa alla storia delle codificazioni che connotano la storia dell’umanità, a partire dall’invenzione del linguaggio e della scrittura, che disciplinano ed ordinano ambiti dell’esperienza umana, consentendo un accesso e un uso pubblico, universale, a tutti coloro che ne accolgono norme e procedure. Mentre l’interpretazione è il luogo della singolarità di un vivente, di un organismo, e della sua intenzionalità di mantenimento e di riproduzione che non può essere mai ridotta a un modello, ad un modulo: dato che la natura del vivente, quale integrazione sempre individualizzata di molte componenti diverse, è proprio quella di non essere mai semplificabile e riducibile a una formatizzazione universalizzante.

 

3. Una scuola del conoscere e del riconoscere

Ma è proprio tale antropologia materialistica dell’essere umano – quale unità di un corpo organico da pensare, riconoscere e proteggere all’interno di una mente linguistico-culturale – tale compresenza dell’Uno e del Bino che pone ovviamente il problema della loro auspicabile integrazione e sintesi. Come portare cioè a coerenza i ritmi biologici con i ritmi sociali, ossia con le pratiche delle istituzioni sociali e culturali?

Giacchè esattamente di ritmi è necessario parlare quanto ai diversi cicli biologici che devono integrarsi e armonizzarsi nel nostro organismo per dar luogo ad una vita capace di essere vissuta nella continuità e nella perseveranza. Anche qui, va sottolineato, riprendendo la lezione di Spinoza sulla ratio corporis, ossia sulla proporzione che integra e mantiene secondo una coerenza di vita i nostri organismi, al fine che nessuna componente biologico-emozionale-biologica si estremizzi, conducendo a patologie fino alla morte un’esistenza, che può vivere invece solo dell’integrazione dell’intero.

Tutto ciò per dire, ritornando alla “cosidetta” intelligenza artificiale, che il convincimento che informazione non è interpretazione deve essere posto, a mio avviso, a base di ogni possibile utilizzazione della tecnologia digitale all’interno dei nostri istituti scolastici.

L’insegnamento di Giovanni Gentile è stato, com’è ben noto, che è sia la filosofia, e non la pedagogia, che debba essere al centro dell’educazione pubblica e della trasmissione della cultura. Se per “filosofia” s’intende il pensiero che pensa cosa ci rende umani, ossia pensa i trascendentali costitutivi dell’essere umano, nel loro essere strutture invarianti e di senso del suo continuo divenire. E il cui umanesimo non può che costituire l’a priori di ogni serio discorso di pedagogia e di metodologia dell’insegnamento.

Solo che nel nostro tempo di diffusione del digitale io credo sia necessario confrontarsi da parte degli operatori della scuola con un umanesimo, ricco non solo di passato ma che sia anche memoria del futuro. Un umanesimo cioè che sia ben più radicale di quello del passato nel suo essere fecondato e riconcettualizzato alla luce di un filosofare aperto al materialismo delle rinnovate scienze biologiche, antropologiche e psicoanalitiche. Per cui non basta, in questo nostro discorrere assai sintetico e schematico, rifarsi al solo materialismo di Spinoza e alla sua teoria di una mente che pensa e conosce veramente solo in parallelismo con i moti e le emozioni del proprio corpo. Bisogna fare entrare, sulla scena di una scuola tecnodigitalizzata, Hegel e la sua antropologia del “riconoscimento”.

Hegel com’è ben noto, sulla scia di Fichte, ha infatti introdotto nella storia della cultura umana tale nuovo trascendentale antropologico che stabilisce essere legata l’autocoscienza – l’essere consapevole cioè da parte d’ognuno del valore e dell’individualità della propria esistenza – al riconoscimento e alla valorizzazione che ne fa un’altra autocoscienza. Ha distinto cioè conoscenza (“Erkennung”) e riconoscimento (“Anerkennung”), dirigendosi la prima verso un contenuto di oggettività, la seconda verso un contenuto di soggettività e definendo tale configurarsi di una soggettività attraverso il medium dell’alterità come una componente ineliminabile, oltre quella del corpo materiale, della bisognosità umana.

Ma tale acquisizione antropologica fondamentale in Hegel è ancora iscritta nel limite di una “lotta” per il riconoscimento, di una relazionalità ancora troppa agonica e conflittuale. Ed è stata solo una rilettura psicoanalitica nella seconda metà del ‘900, a forte istanza corporea-materialistica e lontana dalle fumoserie metafisiche del lacanismo, che ha superato questo limite della pur fondamentale acquisizione hegeliana, giungendo a vedere nella questione del riconoscimento, cioè nell’essere riconosciuta o meno di una mente in formazione, addirittura la possibilità o meno del suo accesso alla concettualizzazione e alla discorsività del linguaggio.

Solo l’essere accolta, riconosciuta e contenuta da un’altra mente – questa la tesi di fondo – consente alla mente in formazione del bambino di non sentire i bisogni della propria corporeità  nel verso di una invasività drammaticamente estranea e minacciosa bensì di accoglierli e di elaborarli in un modo sufficientemente adeguato. Solo una “mente al quadrato” cioè, dove la prima è contenuta e riconosciuta nella seconda, consente alla fragilità infantile di mediarsi con il proprio corpo, non espellendo e proiettando fuori di sè come mere “cose in sé”, inconoscibili ed estranee, i movimenti del proprio sentire pulsionale, ma accogliendoli dentro di sè col portarli fino alla discorsività e alla relativizzazione simbolica della coscienza linguistico-rappresentativa. Per cui potremmo appunto dire che qui il “riconoscere”, nel senso dell’essere riconosciuto, “precede” il conoscere, vale a dire che l’accoglimento emotivo da parte di un’altra mente consente ad una mente in formazione di accedere ad un proprio apparato per pensare i pensieri, non viziato da scissioni, rimozioni e proiezioni sull’esteriore.

Ma dunque proprio da tale elaborazione psicoanalitica della categoria hegeliana del riconoscimento io credo possiamo trarre indicazioni preziose per una riconfigurazione delle nostre istituzioni didattiche che sia all’altezza della grande sfida che oggi la tecnologia dell’informazione pone all’umanesimo ispiratore e alimentatore della nostra cultura, nel verso di una mediazione possibile tra cultura dell’informazione e cultura dell’interpretazione. Perchè se estendiamo il nostro modulo della mente al quadrato dallo stadio primigenio di una mente all’intero percorso della sua formazione scolastica e teniamo fermo al principio che si dà vera conoscenza solo se si va dal concetto all’affetto e viceversa – ossia solo se l’attingimento della conoscenza del sapere e dei riti codificati proceda insieme all’attingimento dei propri ritmi emozionali e biologici – allora dobbiamo pensare ad una scuola che sia anche e in primo luogo istituzione del riconoscimento.

E’ l’istituzione del gruppo classe che in questa prospettiva di una scuola bina – scuola sia della conoscenza che del riconoscimento – appare come la configurazione più adeguata di una collettività che svolga la funzione di un contenitore capace di accogliere e di far crescere le differenze dei suoi singoli componenti. Un contenitore che, muovendo da una coincidenza di tempo anagrafico e di comune esperienza di apprendimento, possa divenire il luogo di una societas non competitiva ma accogliente, tollerante delle più varie individualità, e unificata dallo stupore della conoscenza. Con l’ovvia considerazione che la funzione degli insegnanti è in tale quadro cruciale per impedire che la movenza scolastica vada in direzione opposta, ossia che un gruppo di adolescenti, ciascuno alla ricerca della propria identità, cada nella consuetudine, oggi molto diffusa, di una socializzazione attraverso concorrenza e individualismo, leaderismo e subalternità, fino a giungere alle estremizzazioni del bullismo e del cyberbullismo. Una funzione degli insegnanti che esige dunque anch’essa di essere bina, in quanto da un lato distributori e conservatori del sapere e dall’altro supervisori di un lavoro di gruppo in cui ogni membro raggiunge se stesso solo nell’interazione collaborativa con gli altri.

La formazione, la cura e la difesa di un gruppo classe, cioè di un gruppo di adolescenti resi solidali da una comune esperienza di apprendimento e validi a difendere la propria autonomia di affetti, di idee, e di età dal mondo degli adulti, dovrebbe costituire quindi, insieme al lavoro del concetto, il lavoro proprio del percorso scolastico: lavoro del concetto e lavoro dell’affetto che nel loro intreccio di operosità espellono di necessità fuori del mondo della scuola qualsiasi connessione, anche solo per cenni o anticipazioni, con l’orizzonte e le logiche del lavoro proprie del mondo adulto e della sua istanza economica..

Tanto che il riferimento alla messa in opera del gruppo classe come chiave di volta del nesso educazione/istruzione/formazione, chiarisce a mio avviso tutte le ombre implicite una concezione della scuola che si ispiri invece filosoficamente al pragmatismo e al learning by doing. Perché ne esplicita l’analogia se non la sovrapposizione tra società della scuola e società del mercato economico che ne sta in qualche modo alla base, intrecciando quei due ambiti sociali, da tenersi pure rigorosamente distinti, attraverso la sciagurata ed univoca definizione dell’essere umano come problem solving.

Tempo della scuola e tempo del lavoro propriamente detto, tempo di una socializzazione non mediata dal denaro e tempo di una socializzazione mediata invece dal denaro, corrispondono ad età della vita profondamente diverse, che non vanno sovrapposte in alcun modo data l’eterogeneità delle loro logiche. L’alternanza scuola-lavoro è di conseguenza una istituzione scolastica che deve essere assolutamente eliminato. Anche perchè la sua intrinseca nocività corrompe lo snodarsi della vita attraverso fasi distinte del tempo, fino a chiudere l’orizzonte della temporalità in un eterno presente che sottrae significato e valore alla dimensione del futuro. Da questa distinzione epistemologica e antropologica tra informazione e interpretazione ne deriva è che la più propria dimensione del “fare”, del “lavorare”, che dovrebbe aver luogo nella scuola è quella attinente alla pratica di formazione di comunità. E che dunque bisognerebbe insistere molto sulla distinzione greco-antica tra il poiein, che lavora e crea gli oggetti, e il prattein, che lavora e forma le soggettività. Senza omettere di dire che ovviamente una scuola ripensata alla luce di un prattein a forte ispirazione umanistica implica una grande riorganizzazione complessiva ma pure appare come l’unico modo di accogliere e mediare l’istanza di una fondazione pragmatica della scuola sottraendola all’egemonia attuale di un orientamento volto sempre più verso l’anticipazione del mondo del lavoro e alla formazione di una soggettività capace fin dall’adolescenza di farsi imprenditrice di se stessa. Come accade invece oggi con la “scuola delle competenze” e con il suo rovesciamento in un sapere generico che fornisce a me sembra solo una alfabetizzazione elementare di base e quel minimo di abilità linguistico-comunicative, necessarie per interloquire passivamente con le macchine dei futuri lavori informatici.

Laddove la scuola utopica del futuro a cui pensiamo è una scuola che produca una ecologia della mente in senso sia oggettivo e che in senso soggettivo: oggettivo quanto ad apprendimento, comparazione e integrazione dei sistemi di senso elaborati dalle culture dei popoli del mondo e soggettivo quanto a confronto e possibile integrazione con la molteplicità delle componenti del proprio Sé.  Abbiamo necessità, come s’è già detto, di un “nuovo umanesimo”, che consenta un uso e una strumentazione delle nuove macchine a calcolo e dei grandi depositi dei big data a partire dal valore irrinunciabile della singolarità del vivente e dal diritto d’ognuno di accedere con il minore grado possibile di scissione ed autocensura al proprio asse verticale.

Ciò di cui abbiamo bisogno è perciò di una scuola che, mentre provvede alla trasmissione delle conoscenze, abbia cura contemporaneamente dell’autoriconoscimento, cioè della capacità dell’adolescente e dello studente in generale di sviluppare la capacità di entrare in comunicazione e di dialogare con il proprio mondo emozionale. Abbiamo bisogno di un umanesimo appunto materialistico, lontano da tradizioni di personalismo spiritualistico e trascendente, che includa dentro di sè i livelli più avanzati delle contemporanee scienze biologiche, neuropsicologiche e psicoanalitiche. Infatti solo un umanesimo intrinsecamente fecondato dai saperi della scienza io credo possa contenere i danni, non della scienza e del suo percorso inesauribile di conoscenza, ma della tecnoscienza che oggi pretende di governare il mondo con la riproposizione pitagorica che la realtà sarebbe costituita da informazioni e codici alfanumerici con la conseguente riduzione della democrazia a mera e neutrale governance del numero.

 

Note a piè di pagina: 

[1] Cfr. R. Lombardi, Metà prigioniero, metà alato. La dissociazione mente-corpo in psicoanalisi, Bollati Boringhieri, Torino, 2016.