A PARTIRE DA CORPI MIGRANTI…

A PARTIRE DA CORPI MIGRANTI…

11 Febbraio 2021 Off di Francesco Biagi

di GIAN ANDREA FRANCHI

 

L’impegno politico con i migranti è prima di tutto un rapporto di corpi. Un corpo chiede, un corpo risponde.

Un corpo chiede con la sua mera esposizione, prima che con le parole. Chi risponde agisce, a sua volta, prima e più con il corpo che con le parole.

Il corpo è per se stesso significante. Il suo significare nasce dalla sua vulnerabilità. La vulnerabilità mostra che ogni corpo mi riguarda: è parte di me ed io parte di lui.

In tal senso, la condizione infantile, in cui la vulnerabilità è massima, permane come un deposito intimo e fondamentale in ogni essere umano[1].

I corpi dei migranti sono corpi di dolore (Achille Mbembe). Il dolore interpella. Qui è il punto di partenza di un impegno che precede il pensiero: la risposta a questa chiamata.

O corpo, fai di me un uomo che interpella!” gridava Frantz Fanon

È quello che fanno i migranti.

 

Per arrivare dalla Bosnia a questo piazzale alberato davanti alla stazione di Trieste, dove tutti i giorni da circa un anno un gruppo di persone si raccoglie per accoglierli, hanno camminato per settimane in mezzo a boscaglie su terreni impervi, hanno attraversato fiumi, nascondendosi dall’inseguimento di polizie armate di tecnologia: droni, visori a raggi infrarossi, rivelatori di calore – e di cani: abbiamo toccato i segni dei loro morsi su questi corpi…

E c’è anche Frontex, la polizia dell’Unione Europea.

 

Bisogna curare, nutrire, calzare, vestire: ‘cura dell’altro’ in tutta la gamma dei significati.

La cura è sempre un dialogo profondo, l’intreccio di un reciproco riconoscimento.

Un riconoscimento, però, che, in questo caso, parte dalla disparità radicale fra noi che abbiamo il potere di dare o di non dare e loro che non hanno nessun potere.

Come può avvenire allora un riconoscimento, se il riconoscimento implica reciprocità?

Questa reciprocità è data: storicamente. Fra noi e loro c’è un rapporto profondo.

Noi ci riconosciamo in loro perché i loro corpi feriti e umiliati, le loro esistenze precarie, vulnerabili, esposte, ci mostrano il rovescio, il rimosso, il cuore oscuro dei nostri privilegi.

Quando chi fa parte di un sistema d’oppressione si riconosce come tale e si ribella alla sua condizione, alleandosi con l’oppresso, allora nasce un rapporto politico, che va a toccare con mano le origini della nostra ‘superiorità’ e della loro ‘inferiorità’[2].

 

Oggi il razzismo è tornato visibilmente al centro della politica come un fondamentale dispositivo di governo. In varia misura lo è sempre stato, più o meno apertamente: l’Europa moderna è nata con il colonialismo.

Lo è anche all’interno della stessa Europa, ben visibile nelle migrazioni interne: una volta spagnoli e italiani, oggi albanesi, rumeni, bulgari, ucraini. Ne incontriamo in piazza della stazione, insieme ai profughi del Medioriente.

Oggi, però, il razzismo si esibisce con l’impudenza del luogo comune come operatore culturale all’interno di un’involuzione non contingente, autoritaria e poliziesca, della politica europea, conseguenza di un neoliberismo scatenato, privo di ostacoli, nella sua rincorsa del valore di scambio come unico valore, nell’accentuazione vertiginosa delle disuguaglianze e della distruzione ambientale[3].

 

Da Franz Fanon ad Abdelmalek Sayad ad Achille Mbembe – loro stessi migranti, coinvolti fino in fondo in ciò di cui scrivono -, scorre un filone di pensiero che ci mostra il migrante (emigrante, immigrato, richiedente asilo o profugo) come una figura inquietante, unheimlich senza Heimat, perché la sua Heimat è stata da noi distrutta: il migrante, dunque, ci rivela il nostro volto nascosto, il nostro vero volto. Ci rivela la violenza profonda annidata nella nostra cultura, che abbiamo imposto ovunque.

 

Il migrante, il migrante profugo, però, affrontando il game[4], mettendosi in gioco, assume il suo spaesamento, la sua Unheimlichkeit.

Che sia costretto a farlo, che non ne abbia consapevolezza politica, fa parte della sua condizione di profugo. Sono tutti profughi, anche chi non viene da paesi in guerra o guerriglia o semidistrutti. Tutti vengono da paesi in cui la vita è resa impossibile a causa degli effetti permanenti del colonialismo, dal neo-colonialismo, dalle innumerevoli forme di dominio e sfruttamento la cui matrice storica, ma anche attualissima, risale all’Europa, all’Occidente.

Sono in fuga verso paesi all’origine della loro fuga, responsabili della loro condizione.

Sono avanguardie del mondo che verrà: qualunque cosa significhi questo futuro.

In questo modo, il migrante assume di fatto una funzione eversiva, perché mette in discussione la logica dello Stato, che è una logica violenta: ‘o fuori o dentro’. “L’idea che sia possibile scegliere con chi coabitare”, è “ciò che resta dell’hitlerismo[5].

Quando vengono ‘accolti’ – se vengono ‘accolti’ -, i migranti sono in realtà ‘internati’, in vari modi, rimessi cioè in ‘un dentro’, nel migliore dei casi lavoratori ai livelli inferiori, fino alla semischiavitù se non schiavitù vera e propria. I paesi di antica tradizione coloniale, come la Francia, mostrano che non può esistere integrazione, nemmeno in limitati casi individuali. “La migrazione è un atto esistenzial-politico di rottura irreparabile”[6].

Ricordo il grande scrittore afgano, Tariq Rahimi, conosciuto in occasione di un premio letterario, ora cittadino francese, vincitore del premio Goncourt nel 2008 – nelle condizioni dunque della massima integrazione -, la cui letteratura è tutta un canto doloroso sulla condizione migrante. “Come ogni esiliato sono un uomo d’altrove […]  sono sempre altrove […] io sono là dove non sono […] Altrove, non riesco a definirlo … Non è né là dove sono, né là da donde vengo, né là dove vado […] Altrove è il vero senso dell’esilio [7].

Per quel che riguarda noi, abitatori ‘legittimi’ dell’Occidente, “lo straniero mette in questione chi immagina di essere saldo nell’identico della sua proprietà. Se raccolta, almeno in parte, la sfida rivela un mondo in cui nessuno può più sentirsi a casa” [8].

È quello che chi s’impegna politicamente con i migranti deve dimostrare: nessuno è più a casa, perché non esiste una casa, una Heimat, un luogo comune in cui tutti possano sentirsi accolti, riconosciuti.

Questo è il messaggio del corpo migrante a noi che crediamo di avere una casa, in cui rientrare la sera.

Una casa che è anche la nostra prigione[9].

 

I richiedenti asilo sono inquietanti perché spezzano il nesso tra uomo e cittadino (Agamben): “la criminalizzazione dei non-cittadini indesiderati è soprattutto un modo di costruire la cittadinanza”. E allora ecco  i campi profughi, “tratto distintivo del moderno stato-nazione[10].

Si potrebbe dire che il mondo contemporaneo è caratterizzato da ciò che il grande antropologo Ernesto De Martino chiamava la crisi della presenza. La presenza ‘tradizionale’, precapitalistica, legata a una socialità ormai distrutta – ma che comunque, in qualche luogo, può diventare anche una resistenza costruttiva e far nascere nuove forme di collettività, ad esempio lo zapatismo, o almeno tentare – è ben esemplificata dal testo demartiniano intitolato Il campanile di Marcellinara.

Vi si racconta che una volta De Martino, smarritosi con la sua équipe in una delle sue peregrinazioni di studio in Calabria, propose a un vecchio pastore, che passava di lì, di salire con loro in auto per aiutarli a ritrovare la strada. Il vecchio, accolto malvolentieri l’invito, salì comunque sull’auto. Ma quando il campanile del suo paese scomparve all’orizzonte, fu preso da un’ansia terribile, per cui dovettero riportarlo indietro: “si precipitò fuori dall’auto senza neppure attendere che fosse completamente ferma, scomparendo selvaggiamente, senza salutarci, ormai fuori dalla tragica avventura che lo aveva strappato dallo spazio esistenziale del campanile di Marcellinara[11].

Al posto della ‘presenza’ tradizionale Nel villaggio, nella comunità, subentra l’imposizione del riconoscimento identificativo dello Stato, basato sul controllo: “non esiste spazio per l’essere umano in sé e per sé al di fuori del suo status legale e politico”. Ma il riconoscimento di diritti è un riconoscimento astratto: “Le relazioni fra cittadino e istituzioni possono essere l’ambito in cui l’individuo resta senza volto senza per questo rimanere senza diritti [12]. Anzi: il prezzo da pagare per avere dei diritti è proprio il diventare una ‘persona’ giuridica, perdere il proprio volto, la propria singolarità[13].

La nostra azione, invece, è intesa a dare un volto, uno sguardo, ai migranti; è protesa ad affermare “l’essere umano in sé e per sé al di fuori del suo status legale e politico”, nella consapevolezza che “il corpo trabocca dalla legge[14].

Su questo traboccare si fonda un ‘diritto’ che straccia in realtà qualunque riconoscimento statale o di potere, perché lo eccede.

Questo ‘diritto’ non è nient’altro che ciò che è di volta in volta necessario alla piena manifestazione del corpo umano (e non solo umano, ma qui si apre un più ampio discorso).

I ‘diritti umani’ delle leggi internazionali e nazionali, invece, esistono soltanto nella misura in cui vengono riconosciuti da un potere: scendono dall’alto al basso.

Inoltre, storicamente, sono i diritti del maschio bianco occidentale che, (im)posti come universali, vengono gradualmente e selettivamente estesi, in maniera formale, ad altri gruppi umani, a seconda degli interessi e delle circostanze. Sono in realtà una forma di conquista.

Sono i diritti del soggetto individuale definito dall’economia di mercato, in cui la principale forma di libertà deriva dalla proprietà (che, oggi, è essenzialmente proprietà di denaro, il quale dà libertà di possedere qualunque cosa, compresi gli altri esseri umani: il denaro è la principale e più invasiva forma di potere effettivo).

L’estensione formale dei diritti umani da parte delle potenze occidentali, titolari effettive di tali diritti, a paesi che ne sono ritenuti originariamente privi, è stata la giustificazione culturale di un pervasivo sistema di potere, funzionale a sfruttamento, estrazione e controllo. Nel secondo millennio l’esportazione della ‘democrazia’ ha assunto carattere di una distruzione permanente, come si vede bene, per quel che ci riguarda direttamente, nei paesi del cosiddetto Medioriente (Afganistan, Pakistan, Iran, Iraq, Siria, Libia, Yemen, Nord Africa…).

 

Per fare un rapido balzo storico, basta leggere quello che è considerato il massimo teorico della democrazia, J. J. Rousseau, e vedere come escluda la donna dalla politica rinchiudendola in casa, per capire la matrice dei ‘diritti umani’[15]. Questo riferimento aprirebbe un altro capitolo sulla matrice originaria delle disuguaglianze sociali e del concetto di diritti umani, andando più alla radice…

Così come la dice lunga sui diritti umani la rivolta degli schiavi di Haiti (1791-1804), che portò a una repubblica governata dagli ex-schiavi cui questi diritti erano stati negati dalla nuova Francia rivoluzionaria.

Si tratta quindi di cogliere un’altra specie di ‘diritti’, totalmente diversa, che non deve essere confusa con quella corrente[16].

Ben altro dai diritti umani riconosciuti formalmente dall’ONU e da molti Stati[17], dunque, sono i diritti di cui ogni corpo vivente è manifestazione. Equivalgono all’esigenza imprescindibile di voler vivere pienamente, con tutte le possibilità contenute, appunto, nei corpi umani (e nei corpi di tutti i viventi, con le loro specifiche diversità). Spinozianamente, il corpo umano è potentia. Potenza relazionale perché il corpo è un centro, un incrocio di relazioni. I diritti riguardano, appunto, relazioni.

Questi diritti sono da esigere a tutti i costi. Lo stato attuale del mondo – anzi, della vita terrestre – mostra, attraverso la distruzione di sempre più ampie possibilità di vita, che sono diritti della vita in quanto insieme  costitutivo, le cui forme, da quelle più semplici a quelle più complesse, come l’homo sapiens, sono intimamente connesse. Questi diritti nascono dal carattere relazionale e collettivo del fenomeno della vita. Vorrei dire che sono diritti ontologici[18].

Più precisamente: c’è diritto, in questo significato, quando il bisogno di vivere e il desiderio di vivere – inseparabili, perché senza l’esaudimento del bisogno non può esserci desiderio – vengono sfruttati, impediti o repressi.

 

Dall’incontro con i corpi migranti, direi che si possono distinguere due fasce di diritti, che chiamerei la fascia del bisogno e la fascia del desiderio.

Questa articolazione in due fasce o due livelli, che stanno fra di loro come le radici e la chioma di un albero, non sorge da un’astratta esigenza classificatoria. Nasce direttamente dal rapporto con i migranti, che in un primo momento deve affrontare la fascia del bisogno: curare ferite, sfamare, vestire e poi allargarsi a quell’altro che cresce sulla soddisfazione primaria, e alla parola[19].

Sulla base del primo contatto e del primo incontro, attraverso il bisogno, senza la cui soddisfazione il corpo non sopravvive, appare allora una prima fascia, relativa alla protezione e all’accudimento – alla sopravvivenza, quando il corpo, come avviene nell’infante, è ancora racchiuso nell’immediatezza del proprio bisogno, cui tutto il resto è meramente funzionale.

Una seconda fascia scaturisce da un ulteriore contatto e da un più articolato incontro, in cui si manifestano, anche attraverso il desiderio, l’immaginario, la parola.

Da ciò deriva quello che Hannah Arendt chiamava il diritto di apparizione in uno spazio pubblico, cioè il diritto intrinseco di fare politica: il corpo è intrinsecamente politico.

Dalla negazione di questo diritto del corpo, sorge il diritto di allearsi con altri corpi (Butler) per resistere e agire contro questa negazione (che peraltro coinvolge la stragrande maggioranza degli esseri umani).

Da ciò sorgono, quindi, il diritto di resistenza e di ribellione e anche il diritto di fuga, anch’esso forma di resistenza.

Bisogna ribadire che questi diritti del corpo contrastano totalmente con i dispositivi politici, sociali ed economici che oggi governano ogni angolo del mondo[20].

I diritti del corpo sono diritti radicali: toccano le radici della vita e dell’esistenza[21].

 

Ho imparato, in questi veloci drammatici anni, che occuparmi dei ‘bisogni’, di ciò che dapprima mi appariva come ‘assistenziale’ – atteggiamento complice del potere, perché non sfiora nemmeno le cause della sofferenza, ma, cercando di alleviarla, le conferma – rimanda, tuttavia, a un nucleo profondo della condizione umana, perché parte dal corpo nella sua concreta singolarità, che è, insieme, vera universalità. A patto, però, di saperlo cogliere e, per così dire, ‘estrarlo’, appunto, dalla ganga della cultura assistenziale, “dall’etica della compassione e della sofferenza” (Mellino).

Questo nucleo – la relazione fra corpi – deve essere anche alla base della dimensione politica, se viene intesa non come attività parziale, in un significato diffuso, ma come il  nome  stesso della convivenza.

Possiamo chiamare cura la relazione fra corpi, nel significato più ampio e intenso della parola[22].

 

Il primo riferimento per definire la cura è l’infanzia. Nell’in-fanzia, la condizione di chi è ancora senza parola, che senza cura non può sopravvivere né vivere, si coglie a pieno la radice relazionale della condizione corporea – ‘sono rimasto senza parole!’, si dice dei momenti intensi della vita.

Sappiamo che l’infanzia è la fase essenziale per capire qualcosa del divenire umano. Questa considerazione, ormai culturalmente diffusa, sembra finora poco considerata dal pensiero e dalle pratiche politiche[23].

Più in generale, ritengo che l’infanzia, come l’adolescenza, non siano fasi dell’esistenza destinate a risolversi, ma aspetti permanenti e fondamentali delle nostre emozioni, della nostra relazione con gli altri, rimossi nell’età cosiddetta adulta[24].

L’infanzia ci mostra che la cura dell’altro è conseguenza diretta e necessaria del carattere relazionale della soggettività. La cura è un comportamento necessario perché un essere umano si formi, ma un essere umano non finisce mai di formarsi – o piuttosto non dovrebbe mai finire di formarsi: in realtà viene normalmente imprigionato in un certo stadio socialmente imposto. La cura, quindi, dovrebbe essere il comportamento intrinseco alla vita sociale.

L’estensione sociale della cura per l’altro si chiama politica, se vogliamo intendere la polis come la situazione collettiva in cui ciascuno, curandosi di sé, si cura dell’altro. Lo esprime molto bene Judith Butler: “Il corpo è costituito da prospettive che non può abitare; è qualcun altro a vedere il mio volto e a sentire la mia voce, in modi che mi sono preclusi. In questo senso – corporeo – noi siamo sempre altrove, e al tempo stesso qui, e questo spossessamento evidenzia la socialità alla quale apparteniamo[25]. Il possesso individualistico di se stessi è impossibile, ma le conseguenze generali di questo tentativo illusorio sono micidiali.

Il corpo, il corpo culturale, è una prospettiva su se stessi attraverso l’altro. In un certo senso, l’altro è più intimo a me di ciò che chiamo ‘me stesso’ perché mi esperisce come io non posso esperirmi, ma la sua esperienza di me mi è essenziale. Nell’infanzia questa prospettiva si costruisce attraverso la cura.

Noi siamo, così, sempre consegnati agli altri: ciò determina anche quello che posso chiamare la nostra continuazione quando non ci saremo più. Questo è molto importante per dare un senso alla nostra vita  e, insieme, anche alla nostra morte[26].

A proposito di prospettiva, mi ha colpito un’osservazione di Achille Mbembe sullo sguardo, “ciò che costituisce la razza è prima di tutto un certo potere dello sguardo[27]. Lo sguardo è fondamentale nell’infanzia per la costituzione della soggettività, lo sguardo materno, lo sguardo di chi si prende cura dell’infante. Esiste anche uno sguardo sociale, che ha un padrone: lo Stato, in quanto datore e controllore dell’identità, non solo in termini burocratici[28].

Lo constatiamo ogni giorno, occupandoci dei profughi, che sono ridotti letteralmente ad ombre. L’importanza di guardarli negli occhi; e di toccarli, come è necessario per le prime cure: restituire a loro il loro corpo, umiliato. L’umiliazione del corpo è la forma più forte e profonda di potere, da cui nascono le forme più essenziali e permanenti di potere, l’androcentrismo, il razzismo, il classismo.

 

Nessuno guardava, pur vedendolo benissimo, quel ragazzo, seduto sul marciapiede vicino alla questura di Trieste, nella primavera dell’anno scorso, con indosso soltanto la camicia dell’ospedale e i piedi in plastiche azzurre.

Era stato, si, ricoverato d’urgenza: un morto per strada, in pieno centro, è brutto a vedersi!

La questura gli aveva fatto firmare, si, come vuole la legge, una domanda d’asilo.

“Espletata la pratica”, era stato abbandonato in strada, reso invisibile appunto come una pratica chiusa in un cassetto, fino a quando qualcuno, emerso dall’indifferente scorrere dei ‘passanti’, lo aveva guardato, non solo visto.

 Anche il morto, però, è entrato nella nostra vita.

Non ero mai entrato in un obitorio. Nel settembre del 2019 sono entrato, insieme a Lorena, nella piccola, squallida, rugginosa camera mortuaria dell’ospedale di Bihac, Bosnia.

Aperto il massiccio sportellone di ferro, appaiono due irte chiome nere, sfuggenti al lenzuolo verde che ricopre i corpi.

I corpi di due migranti. Uno sconosciuto, ma sappiamo che si tratta di un giovane accoltellato nel miserabile campo di Vucijak, costruito su una discarica: accadono, ogni tanto, risse tra uomini di etnie storicamente ostili, come afgani e pakistani, fomentate dalle condizioni dei campi.

Conosciamo bene l’altro: Alì, tunisino, dai piedi neri per la necrosi. Alì delirante nel container del campo Bira, immenso capannone semibuio popolato da corpi vaganti, da lunghe file all’ora dei pasti.

Alì, nel suo container dal tanfo insostenibile, delirava, in arabo, francese, tedesco, anche italiano. Aveva mezzi piedi neri come l’inchiostro. Necrosi secca. Ne cadevano frammenti. Rifiutava tenacemente di farsi curare, temendo l’amputazione. Non poteva restare senza piedi. Voleva tornare in Germania, dove gli era rimasto un figlioletto.

L’ultima volta che l’avevamo visto vivo, stava in un letto dell’ospedale, reparto psichiatrico, legato mani e piedi per impedirgli di andarsene.

Non sono riusciti a fermarlo. Ritornato, dopo varie vicende, al Bira, è scappato, non si sa come. È stato raccolto esanime in un bosco della Bosnia.

Alì migrante assoluto.

 

Per concludere questo rapido excursus di storie, fra le tante incontrate, nel tentativo di accennare al cuore della nostra esperienza: un gesto di ribellione, che ha una valenza politica generale – ma, del resto, tale era stato anche quello di Alì.

Il 7 dicembre 2017, un ‘richiedente asilo’, esasperato, si è disteso con la sua coperta in mezzo al traffico stradale di una città del Friuli. Invece di nascondere il suo corpo negli anfratti urbani, come spesso i profughi facevano, questo giovane uomo l’ha gettato dentro il meccanismo urbano, bloccando il prevedibile flusso della quotidianità.

Ha fatto quello che dovremmo fare tutti noi, impegnati politicamente con i richiedenti asilo.

Ha contra-posto il corpo, il nudo corpo vivente, alla prigione di norme che governano la costruzione dell’identità sociale: eccomi! io sono qui, vivo, in mezzo a voi che non volete vedermi.

Più vivo di voi, di noi: bisogna aggiungere!

 

La condizione di pro-fugo, infatti, nella sua sospensione traumatica fra passato e futuro, non manifesta solo una “doppia assenza” (Sayad) – dal luogo d’origine e nel luogo d’arrivo – può anche manifestare un’eccedenza rispetto a entrambi.

Il possibile terreno politico d’intesa fra il profugo e il cittadino con carta d’identità che s’impegna con lui, sta proprio in questa eccedenza, non certo in un’integrazione che peraltro non c’è e non potrà esserci in una società in cui, fra l’altro, la disuguaglianza a tutti i livelli è in continuo aumento (ma che non potrebbe esserci comunque rispetto a  una società che si definisca attraverso la ‘nazione’).

Il corpo dei migranti comunicava, come quello degli infanti, attraverso i bisogni elementari, attraverso il dolore primario. In questo caso, però, si tratta di un dolore inflitto consapevolmente, di un’umiliazione che cercava di annullare la dignità e la vita: il rapporto con questo dolore era politico.

I bisogni, il dolore, richiedevano un’azione per esaudirli, in alcuni casi immediata. E questo non era, non poteva e non doveva essere assistenza che sarebbe stato ribadire – domani e sempre – quei bisogni. Questo era – e radicalmente – azione politica.

Il fatto evidente, consegnatomi dall’esperienza con i migranti, per cui il loro corpo comunicava prima e più di ogni parola – resa inoltre ancora più difficile anche da un’altra barriera o confine da superare, quello linguistico – mi ha spinto a ri-considerare la condizione infantile come dimensione permanente dell’umano: un corpo inerme, dipendente, proiettato verso il possibile.

La parola ‘infanzia’ indica un corpo umano ancora privo di parola, che si esprime con la sua esposizione in un modo che va ben oltre a quello che potrebbe o saprebbe dire. Si esprime direttamente con il suo bisogno radicale degli altri, senza di cui non può vivere, prima che con il desiderio.

Lo stesso vale per il profugo.

L’esaudimento accogliente del bisogno consente il passaggio al desiderio, che è sempre desiderio dell’altro, di se stesso nell’altro, con l’altro – potenza relazionale. Perché l’esaudimento del bisogno consenta l’emergere del desiderio e della relazione deve essere accogliente. Questo è la base dell’azione politica.

Mi sembra evidente che questa riflessione non voglia infantilizzare il migrante. Tutt’altro: vuol dare, certo, all’infanzia un posto più importante di quello che le è stato riconosciuto. Inoltre, vuole, in questo caso, riconoscere al corpo una potenza comunicativa autonoma, diversa dal linguaggio, molto più forte e talora anche meno ambigua, ma più difficile da accogliere e sopportare per chi è insediato nel linguaggio e nella rappresentazione, che sono anche un sistema di controllo e una barriera difensiva. Più difficile perché significa fare i conti anche con il proprio corpo.

Il corpo può dire quello che il linguaggio non riesce, si vergogna di dire, teme, non sa o non può dire – non vuole dire.

Nulla di nuovo, certamente. Anzi, i limiti del linguaggio sono un luogo comune. Diverso, però, è farne esperienza politica. Ma è quello che viene richiesto dalla fase storica che stiamo attraversando.

Ciò non significa separare corpo e linguaggio o ridurre l’importanza della dimensione intellettuale. Al contrario. Significa riconoscere un valore politico ai bisogni elementari, che abbiamo in comune con ogni vivente – quindi un’espansione necessaria dell’agire politico – e alle emozioni, all’affettività. Capire il nesso forte tra bisogno, emozione e pensiero.

Il corpo è relazione, quindi intrinsecamente comunicativo, espressivo, manifestativo. Il corpo parla. Il linguaggio nasce dal corpo, ma il corpo è più vasto. Fa parte di un sistema di relazioni molto più complesso e sfuggente di quelle linguistiche, anche di quelle sociali.

La lingua che usiamo, inoltre, è codificata da un potere, quindi è anche dispositivo di controllo sul corpo e di produzione di soggettività. La civiltà moderna ha fortemente separato e contrapposto corpo e linguaggio: uno sviluppo denso di conseguenze. Ecco perché è importante partire dal corpo bisognoso. Peraltro, anche le classiche lotte operaie e, in genere, dei subalterni, partivano dai bisogni più connessi con le basi del vivere, come l’aumento salariale, la riduzione delle ore di lavoro, alcuni diritti di base, per poi crescere e articolarsi in desiderio e progetto di cambiamento.

È sui bisogni vitali, senza di cui non si può vivere, che opera principalmente il controllo del potere: tende a mantenere i subalterni al livello dei bisogni, impedendo loro di accedere al proprio desiderio, anche e soprattutto quando consumisticamente moltiplica i bisogni, fingendoli desiderio. Il desiderio autentico non si nutre di oggetti, di merci, ma è l’attore dell’essenziale sintesi temporale fra passato, presente e futuro.

Il corpo nelle nostre società non esiste al di fuori dei potenti dispositivi che lo gestiscono. Il dispositivo sanitario, prima di tutto, ma pensiamo allo sport, alla moda… pensiamo a come una pubblicità estremamente invasiva spinge con forza a tutta una serie di comportamenti sociali imitativi. L’intero onnipresente apparato elettronico è un modo di gestire e controllare il corpo. Il nostro corpo e le nostre emozioni, i nostri desideri, ci sfuggono, in questo labirinto d’imposizioni e controlli.

Il migrante che arriva a noi dal game, con il suo corpo sfinito, è in fuga anche dai dispositivi di potere corporeo[29]: il suo corpo è realmente un corpo che lotta contro i dispositivi di potere che lo perseguono. Il suo corpo di profugo ci rimanda, in qualche misura, anche al nostro corpo…. Non ha importanza che sia stato cacciato, che non sia una ‘libera scelta’ la sua: il suo corpo è nudo perché è uscito da un insieme di dispositivi e non è entrato e non entrerà mai – non potrà entrare – pienamente in un altro, come scrive Rahimi.

Questo ci dice con forza il gesto del giovane che si era steso in mezzo alla strada.

Oggi, inoltre, i bisogni vitali più elementari, perfino il respirare, pagano un sempre più pesante tributo di vita a un sistema di potere invasivo come un virus. Sappiamo che la vita intera è minacciata, la terra in cui affondano le nostre radici.

 

L’infanzia può dare anche un altro insegnamento. Ci mostra l’importanza del rito, direi ‘dell’arte’, come movimento dell’essere insieme.

La ricerca e la riflessione antropologica ci dicono che il rito è stato il dispositivo culturale principale per far fronte all’incomprensibile, all’angosciante, al “tutt’altro”, alla “crisi della presenza” (De Martino).

Il rito si coglie bene in forma nativa – credo – in quei giochi d’infanzia il cui scopo è per il bambino la richiesta all’altro della rassicurazione di esserci, come il giocare a nascondersi per essere trovati[30].

Ho vivo l’esempio di un gioco inscenato da un bambino di tre anni che si faceva rinchiudere in uno scatolone per poi risorgere instancabilmente al riconoscimento: entrare da solo nel buio per uscire ridente alla luce degli altri. Mi sembra che in ciò appaia, colta gioiosamente, la dimensione fondamentale della condizione umana: il carattere intrinsecamente relazionale del corpo-soggetto e la costante possibilità della scomparsa, della caduta nel buio – la sua precarietà. Il bambino, nella sua ancora incerta e inerme esistenza, lo avverte con intensità. Il gioco dello scatolone, come altri basati sullo sparire e riapparire, è – si può dire – un rito elementare, spontaneo, in questa fase basilare della vita. E dimostra il bisogno di rito.

Il rito è un’azione sul tempo che, con la ripetizione, in questo caso, di un gesto assolutamente fondamentale – il  venire alla luce, l’apparire, l’esporsi – reclama il riconoscimento necessario dall’altro. Reagisce al rischio della perdita di forma, di cui la morte, sottesa alla vita, è l’avvento definitivo e necessario. È una specie di danza della vita.

 

L’infanzia ci mostra, anche, che di fronte all’imprevisto e all’imprevedibile non ci sono soltanto le valenze emotive dell’incertezza, della confusione, della paura. Può anche sorgere una valenza positiva: lo stupore.

Penso che lo stupore possa essere la base emozionale positiva per l’accoglienza dell’imprevisto, dell’imprevedibile, dell’ignoto. Anche per l’orrore storico.

Per me lo è stato, nella mia stupita incertezza sul che fare di fronte all’arrivo di questi nuovi migranti, diversi da quelli che già conoscevo negli anni Novanta[31].

Aldo Gargani, commentando Primo Levi, così scrive a proposito dello stupore di fronte al: “mistero che non è l’enigma di una cosa particolare, ma il destino in generale dell’essere dell’uomo nel mondo. Questa limitazione instaura lo stato dello stupore come un ‘aperto’, un regime dell’interrogazione nel quale non possiamo entrare e dal quale non possiamo uscire. […] nella tensione verso ciò che è nascosto la nostra volontà abdica di fronte a una realtà che deve patire, sopportare, e inaugura un pensiero che non è solo un prodotto, un artefatto della ragione, ma anche un pensiero-affetto, soprattutto un ascoltare, un rispondere e poi anche un pensiero raccontato[32].

Nella mia attività con i migranti è stato per me fondamentale questo ‘regime dell’interrogazione’ coordinato dallo stupore, di fronte all’inconsueto, all’inquietante di queste presenze che mi interrogavano, insieme, sul mondo in cui vivo e sul mio intimo.

Un ‘pensiero-affetto’ o piuttosto un affetto-pensiero rimanda a una visione ampia della politica in cui le passioni – unione dell’”intimo” e del “pubblico” – possano essere “una risorsa sociale” (Elena Pulcini), cioè una risorsa politica.

Le emozioni e le passioni – la paura, l’angoscia, la speranza, lo stupore, la gioia – sono, poi, tutte, modi di patire, soffrire o godere il tempo, l’inafferrabile fondo della vita, di cui sono esperienze, da cui dipendono la precarietà e la vulnerabilità della nostra esistenza.

 

Parlo qui della base elementare della ‘politica’ come rapporto  d’accoglienza del futuro sulla base di passioni come lo stupore, la speranza, la gioia, capaci di accogliere il dolore come  esperienza di relazione, di apertura all’altro e non di chiusura su di un se stesso individuale.

La questione del tempo è al cuore della politica. Alcuni autori parlano di paradigma della generatività, come “movimento antropologico originario che si realizza in quattro tempi: desiderare (una spinta senza la quale nulla è possibile), mettere al mondo (far nascere, dare inizio a qualcosa che non c’era), prendersi cura (senza di cui nulla può durare), lasciar andare[33].

È un tentativo di leggere il tempo – di fare esperienza del tempo – come potenza generativa, invece che distruttiva, fonte della possibilità di trasformare ciò che riceviamo da chi viene prima, producendo un nuovo per chi viene dopo: il ‘passare’ del tempo come “ricevere e dare”, “ereditare e promettere”. Il tempo come qualità diacronica della relazione.

Del tempo, invece, normalmente (cioè, secondo la norma, la normalità) non c’è esperienza ma solo vissuto[34], che appare tutto rivolto al passato, cioè al visibile, al rappresentabile: produce insicurezza da cui nasce paura e dalla paura l’odio per tutto ciò che non assomiglia al passato, che è nuovo e diverso.

Come verifichiamo ai nostri giorni nel rilancio di un razzismo ormai privo di veli.

Scrive Shoshana Zuboff  che sotto “la dittatura della ragione di mercato […] muore il sogno e, con essa, la nostra capacità di meravigliarci e di protestare” per concludere che “è il momento giusto per riscoprire il nostro senso dello stupore”[35].

La ragione di mercato – ultima trasformazione radicale della razionalità cartesiana e kantiana – è il dispositivo culturale moderno fondamentale per gestire il tempo, in maniera ormai esasperata, che rifiuta tutto ciò che è estraneo alla sua logica. Quando c’è una grave crisi sociale, come quella indotta dall’epidemia del covid19, l’economia funziona come una rete elastica che si allarga o restringe, a seconda delle circostanze, ma che è molto difficile smagliare verso un’altra visione di futuro, impossibile anzi, senza un desiderio e una volontà collettiva abbastanza coesi da potersi trasfondere in progetto.

Tornando allo stupore, è l’emozione capace di sporgersi positivamente verso il futuro. Credo che ci sia un rapporto profondo fra lo stupore e la capacità di immaginare alternative allo stato di cose presente: lo stupore predispone alla possibilità di fare esperienza.  È accoglienza del tempo, cioè del passare, anche del morire quindi.

Lo stupore di fronte all’ingiustizia, ad esempio, può far sorgere il desiderio non solo di rifiutarla, ma anche di cercare e di praticare altro. C’è un rapporto fra stupore e desiderio.

Non c’è solo l’odio per l’ingiustizia del presente – emozione, peraltro, necessaria. L’odio non offre, però, la spinta per costruire: la forza emotiva, il desiderio e la volontà di cambiare e, poi, di progettare il cambiamento. Non è un’emozione generativa.

La costruzione del nuovo richiede un forte impegno emotivo e immaginativo che implica la produzione di un immaginario comune, per cui – credo – lo stupore fornisce una spinta di base. Lo stupore, accogliendo la confusione, l’incertezza di fronte a ciò che non comprendiamo, senza farsene intimorire, può trasformarli in esperienza.

 

L’incertezza è sempre stata considerata un disvalore. Propongo di rovesciarla in valore. Anche epistemologico. L’accoglimento dell’incertezza può essere – ed è stato per me – impulso a un’autentica conoscenza nella misura in cui dà luogo all’esperienza. Ho usato molte volte quest’ultima parola, accompagnandola spesso, pleonasticamente, con l’aggettivo ‘politica’ o ’autentica’, che si equivalgono.

Che cosa intendo allora, qui, con esperienza?

Per definire la parola, devo ricordare che il punto partenza di queste riflessioni – ciò che ai miei occhi le giustifica – è l’incontro con i migranti-profughi della Rotta balcanica, caratterizzato proprio dall’incertezza sulla sua valenza politica, cioè su quello che per me doveva essere il senso di questo incontro, difficile e complesso, nato in un’età chiamata ‘vecchiaia’; ma anche da un’incertezza ancora più intensa sulla mia capacità di rapportarmi al dolore, individuale e collettivo.

Allora l’espressione ‘esperienza autentica o politica’, meglio esperienza sic et simpliciter, vuol indicare il tentativo di non togliere all’esperienza quello che è il suo tratto costitutivo: il rapporto con ciò che non rientra nel già noto, nel prevedibile, nell’immaginato, che è nuovo e perciò inizialmente incomprensibile – forse in parte sempre incomprensibile – e angosciante.

Ciò che effettivamente è nuovo si manifesta come qualcosa di avvolgente, inafferrabile, in-concepito, non ancora oggettivato davanti a noi in una rappresentazione. Da ciò l’importanza dello stupore (e di un’analoga area emozionale) che non comprende ma si lascia prendere per giungere – forse – al livello dell’intelligere, intus legere.

Il balzo d’epoca, in cui siamo da alcuni decenni, ci manda proprio in una direzione in cui abbiamo a che fare con la dimensione dell’inglobante del non rappresentabile: con ciò che non è davanti e sotto di noi, ma che è più grande di noi. Ci viene incontro tragicamente nell’innesto di una devastazione ambientale non più controllabile, dell’ambiente vitale: della vita che ci circonda e di cui siamo parte e non padroni.

Il modo in cui sono organizzate le nostre società ci impedisce proprio di fare esperienza.

È ormai notissima la riflessione di Benjamin sull’incapacità di fare esperienza con cui s’inaugura, attraverso la prima ecatombe bellica mondiale, il mondo contemporaneo[36]. L’avvento post bellico dei fascismi e la seconda guerra mondiale, l’epoca dei lager, non hanno fatto altro che allargare lo spettro del sopportabile e dell’incomunicabile. E oggi questo fenomeno è ancora più evidente – con la smisurata produzione d’immagini elettroniche, dalla televisione ai cellulari: in una sorta di accecamento dello sguardo (cui già Benjamin accennava a proposito del ritratto fotografico). Non c’è il frastuono di una ‘grande guerra’, ma la vibrazione di una quotidianità pervasa da dispositivi di controllo e comando che s’insinuano capillarmente nell’intimità[37], soprattutto nei paesi ‘occidentali’, cui vanno aggiunti paesi emergenti, fra cui domina ormai la Cina. Nei paesi rimasti invece, o aggravati, nella condizione una volta detta del ‘terzo mondo’, la distruzione ha spesso i connotati di una guerra permanente, in senso proprio o diffuso.

 

 “L’esperienza è radicata nella singolarità dell’esserci di ciascuno. È un occhio che guardando si guarda. È autoconoscenza e cura di sé che coglie ciò che sta sotto il mascheramento dei ruoli sociali che sembrano identificare l’individuo”[38]. “Il mascheramento dei ruoli sociali” agisce sotto l’egida del potere d’identificazione dello Stato: è proprio ciò contro cui vanno i migranti che varcano illegalmente i confini.

Questa concezione dell’esperienza vale anche e soprattutto nelle situazioni estreme.

Primo Levi “da sempre, superato il primo impatto del ritorno da reduce della Shoah, nutre il bisogno di fare esperienza… attraverso un esercitare attenzione, capacità di sostare e una continuità meditativa[39].

La parola ‘attenzione’ mi ricorda ancora un concetto di Simone Weil. Per lei l’attenzione “consiste nel sospendere il proprio pensiero, lasciandolo disponibile, vuoto e penetrabile dall’oggetto, pur mantenendo in prossimità al proprio pensiero, ma un livello inferiore e senza contatto con esso, le diverse conoscenze acquisite che pur siamo costretti a utilizzare[40]. In questa concezione, che rimanda anche a culture orientali, è implicito un certo atteggiamento corporeo.

L’attenzione weiliana rimanda, secondo me, all’area dello stupore di cui mi sembra un modo particolarmente intenso: l’accoglimento dell’ignoto, dell’inaccettabile, nelle situazioni estreme; una sorta di stupore pensante che si apre fermamente all’ignoto[41].

Milioni di tedeschi e di polacchi, ucraini e altri ancora consapevoli o meno, convivevano con i lager. In questi anni, d’intenso rapporto con i migranti, mi viene spesso in mente un passaggio del documentario di Claude Lanzmann, Shoah 1985, in cui (cito a memoria) un contadino polacco che aveva i suoi campi nei pressi di un lager racconta, in un’intervista, di come ci si abituava alle urla che ogni tanto si levavano dal campo, di come ci si abituava a convivere con un campo di morte.

Oggi, le decine di migliaia di morti nel Mediterraneo, mare turistico per eccellenza, non sono forse una situazione estrema, con cui noi conviviamo tranquillamente?

Oggi, il Mediterraneo è un mare di morte e le sue coste sono piene di campi di detenzione e di villaggi turistici. La mitologica isola di Lesbo ospita l’inferno del campo di Moria.

Perciò “il caso limite del Lager diventa esemplificativo dell’analisi dei meccanismi di potere nelle comunità umane[42].

 

L’impegno con i migranti mi ha spesso richiamato alla memoria i miei due viaggi in Palestina: territorio di profughi a casa loro – tutta la Palestina sotto occupazione permanente, è un vasto campo. In quest’angolo del Medioriente vibrano veramente le corde profonde della nostra situazione storica.

La problematica di Auschwitz nel dopoguerra ha oscillato fra due forme di rimozione: opposte e, insieme, complementari.

La prima forma di rimozione è la sua assolutizzazione a evento unico, quasi sacrale, cinicamente utilizzata dallo Stato di Israele, che in realtà è una colonia d’insediamento, per una politica razzista e poliziesca di portata mondiale.

Mi ha profondamente colpito a Gerusalemme vedere come il Museo dell’Olocausto, Yad Vashem, che è anche il Monumento alla Shoah, sorga in una valle dalla quale sono stati espulsi gli abitanti originari, le cui tracce sono state accuratamente cancellate, facendone un luogo vuoto e gradevole.

Lo Yad Vashem finisce così con il trasformare, mediante una sorta di tragico paradosso, la tragedia della Shoah nella scenografia giustificativa di un progetto politico molto simile a quello nazista da parte di coloro che si ritengono  i legittimi eredi di quelle vittime.

La seconda rimozione si manifesta, presso ampi strati sociali in Europa e altrove, nella diffusione di atteggiamenti, comportamenti e luoghi comuni razzisti e nella ripresa di sottoculture nazionaliste, apparentemente fuori tempo massimo, ma in realtà complementari a una globalizzazione inarrestabile. Tutto ciò ha avuto un’evidente risonanza con le ultime migrazioni di terra e di mare.

Il tema del lager, delle sue esaltazioni e rimozioni, è perfettamente contestuale a una riflessione che parte dalla questione dei profughi. Siamo di nuovo entrati in un’era di campi: probabilmente non ne siamo mai usciti[43]. Non a caso, proprio fra la gente oppressa di Palestina, sul muro di un povero villaggio, che ogni giorno si deve confrontare con la violenza dei coloni e dell’esercito di Israele, ho potuto cogliere la dichiarazione di quello che ritengo il comportamento politico fondamentale per il tempo storico che stiamo vivendo: Esistere è resistere, resistere è esistere.

 

I corpi dei migranti che incontriamo ogni giorno, feriti, stanchi, affamati, umiliati, ci fanno toccare con la mano (non per metafora) gli effetti di una condizione sociale, diffusa ovunque. Il suo esito inevitabile, se non voluto, è, appunto, l’umiliazione di gran parte, della maggior parte, degli esseri umani, fino a spingerli verso una vita invivibile e infine verso la morte, come un rimasuglio di cibo nella spazzatura. E ciò, nel contesto di un attacco alle basi della vita.

Per questo l’incontro quotidiano con i migranti, che arrivano tutti i giorni nella città di confine in cui abito, dopo mesi e anni di un viaggio animato dalla speranza di vivere, mi pone davanti agli occhi – e anche questa non è una metafora – il rapporto del morire e della morte con la vita come una concretissima domanda, personale e insieme universale.

Mi sorge allora quella che mi sembra la domanda politica fondamentale: è possibile capire perché abbiamo prodotto una civiltà che sembra spinta da un’indifferenza assoluta verso le conseguenze ormai visibilmente mortali del suo procedere?  

Data la mia età, questa domanda è resa più intensa anche dall’esperienza del mio corpo che declina: mi avvio verso la mia morte in un mondo che sembra anch’esso avviarsi verso la morte, come un fumatore dai polmoni ormai intaccati che pur continua accanitamente a fumare.

Il riferimento all’esperienza personale non può essere ritenuto insignificante come se fosse meramente individuale. Un dato da superare politicamente è proprio la visione individualistica dell’essere umano. Proprio la necessaria innovazione del modo di pensare l’impegno politico oggi deve accogliere l’intimo intreccio dell’esperienza soggettiva con quella storico-sociale: senza trasformazione soggettiva non può darsi trasformazione collettiva. Uno dei punti deboli della ‘tradizionale’ concezione politica “rivoluzionaria” è stato proprio la sottovalutazione della trasformazione soggettiva: il suo rimando a un indeterminato futuro. Lo abbiamo visto con dolorosa intensità soprattutto dalla metà degli anni Settanta del Novecento in avanti.

Una duplice domanda, quindi, nasce dalla risonanza fra il mio corpo e quello dei migranti, dall’esperienza dell’incontro politico di corpi.

 

– Il corpo del migrante e profugo: tanti corpi, quotidianamente incontrati al termine del loro viaggio rischioso, spinti da una disperata speranza. Corpi che mettono in gioco comunque quel che resta loro di vita per andare dove ritengono di poter vivere e non soltanto sopravvivere o rischiar di morire ogni giorno. Sono i corpi dei migranti della cosiddetta Rotta Balcanica, che meglio dovrebbe chiamarsi Rotta dell’Unione europea (per la responsabilità fondamentale che la burocrazia di Bruxelles e i paesi che contano nell’Unione hanno assunto nella catena di respingimenti, violenze e anche di morte): corpi che ci parlano della nostra condizione umana, sociale, politica, di cui sono un segno e un segnale.

 

– Il mio corpo di uomo anziano, con la sua storia alle spalle.

 

Questo rapporto d’esperienza fra il mio corpo e il corpo dei migranti profughi, dalla loro diversa relazione con la morte, produce un terreno problematico sul morire e sulla morte, concretissimo e insieme inafferrabile, filosofico ma profondamente politico.

I migranti rischiano sempre di morire. E molti muoiono. L’anno appena trascorso è stato inaugurato su di una balza carsica a pochi chilometri da Trieste, proprio sul confine con la Slovenia, dalla morte di un giovane uomo tunisino.

Queste morti non sono accidentali. Sono morti sistemiche.

Nel caso dei Balcani, il sistema è un complesso dispositivo confinario che va dalla Turchia al Centro, Nord Europa. È il frutto avvelenato della politica europea nei confronti delle migrazioni. Per la Rotta Mediterranea, si declina ormai in termini di strage continua nell’indifferenza della stragrande maggioranza della gente.

Il sistema confinario stabilisce una graduatoria selettiva in base alla ‘dignità di lutto’: fra chi è in grado di sopravvivere e può proseguire verso “l’accoglienza” come lavoratore di basso livello; chi rimarrà un fantasma sociale, un ‘clandestino’, che potrà riempire le schiere del lavoro nero precario; chi verrà respinto nell’inferno da cui è fuggito o è stato inviato da una famiglia in affanno e chi scomparirà per sempre, come i più di 20.000 morti contati nel Mediterraneo dal 2014 al 2020, (ma i morti che sfuggono al conto, annientati come se non fossero mai esistiti, sono certamente molti di più…)

 

Basta leggere le statistiche storiche sulla distribuzione mondiale della ricchezza perché salti subito agli occhi che la differenza tra ricchi e poveri non è mai stata così grande come oggi nella storia degli esseri umani. ‘Ricchi e poveri’ significa potenti e impotenti, cioè: degni e non degni di vivere.

Questo dato statistico va letto dentro la ferita ormai irreversibile inferta a quel complesso delicato equilibrio dinamico che è la vita, di cui gli esseri umani sono solo una componente, che agisce però ormai come un processo cancerogeno diffuso.

Nell’impulso sfrenato dell’attuale civiltà dominante, che ha divorato o distrutto ogni altra forma sociale e sta divorando e distruggendo molte forme di vita, anche la matrice ambientale, la vita stessa sembra avviata verso un declino inarrestabile.

In tale contesto storico, assolutamente nuovo, dobbiamo agire, vivere e morire.

Ciò cambia i parametri dell’impegno politico, che oggi è rivolto a un cambiamento molto più complesso e soprattutto più radicale di quello immaginato, elaborato e praticato finora, anche nei modi più complessi e interroganti degli anni Sessanta e Settanta del Novecento.

Un protagonista della sinistra radicale italiana degli anni Settanta sostiene che oggi la politica sia impotente “perché la volontà non è più in grado di governare la complessità (letteralmente super-umana) dei processi che la libertà umanistica pervertita in dittatura liberista, ha generato”. Prosegue, dicendo: “ebbene, si, sono disperato… la disperazione è una condizione del pensiero […] che non coinvolge necessariamente il cuore, né il corpo sensibile e desiderante. Forse (come credo stia suggerendo il pensiero che meglio interpreta l’epoca pandemica, quello del femminismo post-umano di Donna Haraway) proprio partendo dal corpo sensibile e desiderante si può trovare una via, post-umanistica e post-politica per vivere felicemente il declino e la dissoluzione della sfera umana”[44].

Io penso che “il declino e la dissoluzione della sfera umana” – a parte il ‘felicemente’, cui io sostituirei il ‘disperata speranza’ michelstaedteriana – siano legati a una questione antropologica e naturale  centrale. Sulla quale vorrei proporre un tema che a me sembra indispensabile oggi per il pensiero e l’azione politica.

 

Dobbiamo capire che il carattere necrofilo della civiltà capitalistica dipende da un dato storico fondamentale. Questa civiltà, ha invaso violentemente il mondo intero, arrivando fino ad alterare le più riposte nicchie biologiche, perché non è in grado di esperire ed elaborare il morire e la morte, che, anzi, ha rimosso più profondamente di qualunque altra civiltà[45].

L’avanzare irresistibile del capitalismo, basata sulla rimozione della finitezza delle forme di vita, cioè della morte, ha rimosso ogni tentativo culturale, che pur c’è stato, di elaborare il morire e la morte, innescando una dinamica omicida e biocida (di cui l’epidemia ancora in atto è una delle tante manifestazioni e non la più grave)[46].

Il rifiuto di dare un senso alla morte è anche alla base  del rapporto distruttivo della civiltà moderna con la matrice vitale.

C’è un testo di Georg Simmel, intitolato Metafisica della morte, pubblicato nel 1910, che offre degli spunti di meditazione importanti sulla morte.

Dopo aver distinto la forma del corpo organico da quella del corpo inorganico, Simmel scrive:

Il segreto della forma [del corpo organico] sta nel fatto che essa è confine, essa è la cosa stessa e, nello stesso tempo, il cessare della cosa, il territorio circoscritto in cui l’Essere e il Non-più-essere della cosa sono una cosa sola. […] Ma il suo confine non è soltanto spaziale, bensì anche temporale. Proprio per il fatto che il vivente muore, che il morire è posto con la sua natura stessa … la sua vita riceve una forma nella quale il senso quantitativo e il senso qualitativo si mescolano diversamente che in quello spaziale […] la morte è legata alla vita fin dal principio e dall’interno. […] in ogni istante della vita noi siamo fatti in modo da dover morire e ogni istante sarebbe diverso se questa non fosse la nostra sorte che influisce in esso. Nello stesso modo in cui nell’attimo della nostra nascita noi non siamo del tutto presenti, ma c’è qualcosa che continuamente si sviluppa in noi, parimenti noi non moriamo soltanto nel nostro ultimo istante. Questo solo rende chiara l’importanza formatrice della morte. Essa non limita, cioè forma, la nostra vita soltanto nell’ora della morte, ma è un momento formale costitutivo della nostra vita, che tinge tutti i suoi contenuti”[47]

“Nascere e morire”, “rinascere e rimorire” continuamente, ovvero l’iniziare e il finire, sono il tessuto temporale della vita[48].

Non è possibile un cambiamento politico radicale senza la capacità collettiva di accogliere il morire e la morte in quanto finitezza intrinseca alla forma temporale. La forma di un processo temporale è la finitezza: il fatto che esso inizia e finisce. Il problema è che l’animale culturale, così come si è formato storicamente, tende a non accettare la finitezza. Senza questa accoglienza che si deve chiamare ontologica, non è possibile la costruzione di una collettività autentica, perché è qui la radice del rapporto fra il singolo e i molti e, inoltre, il suo rapporto con l’insieme della vita.

La morte dovrebbe essere – e potenzialmente è – il compimento di ogni vita, non la sua interruzione, così come la nascita è l’inizio che apre il suo processo di formazione.

‘Compimento’ vuol dire, appunto, che ogni forma di vita, come è forma temporale, necessita di finire. Così come la forma spaziale, essa ha necessariamente un confine, più esattamente: un limite, oltre il quale non è più. È questo il concetto, la concepibilità della forma.

Per gli altri viventi, i viventi non umani, in qualche modo, è un compimento la morte, quando possono morire al termine del loro ciclo. La vecchiaia dovrebbe essere il processo di compimento della vita.

La morte come compimento, però, implica una società in cui il singolo possa realizzarsi, completare, appunto, la sua vita, che significa manifestare compiutamente la sua singolarità: ciò che solo quel singolo può fare, dire, vedere, udire e quindi comunicare agli altri. Qui sta il significato politico dell’accoglimento della morte. La cultura ha introdotto nella vita la dimensione della singolarità, cioè del valore insostituibile di ogni singola forma di vita. Forse proprio per questo ha introdotto anche la nefasta utopia dell’eternità quale compensazione immaginaria alla costante impossibilità di compimento per la stragrande maggioranza delle esistenze[49].

Il carattere interruttivo e non conclusivo della morte – invece della conclusione necessaria del racconto della vita, che è ciò che dà forma – deriva dall’incapacità o impossibilità di vivere una esistenza degna di essere vissuta. Ciò dipende dalla mancanza di una collettività in cui viva il ricordo di chi non c’è più, una comunità in grado di accogliere per tutti il lascito della singolarità che ha compiuto il suo ciclo vitale. La vita del singolo dovrebbe continuare in forma diversa nel suo lascito alla comunità, nel ricordo, nelle tracce e nei segni lasciati dal suo passare[50].

Il mandato dell’essere umano, dell’essere culturale, avrebbe potuto essere l’elaborazione della finitezza della vita di ogni singolo inteso come centro di relazioni e quindi in rapporto intrinseco, costitutivo con la collettività. L’elaborazione del valore assoluto di ciascun essere umano proprio in quanto finito, mortale sta nell’esserci una volta sola; portatore di un messaggio – di un dono – che soltanto quel singolo può dare. La finitezza del singolo è l’unica modalità di assolutezza.

L’unicità assoluta del singolo non ha nulla a che fare con l’individualità – frutto perverso della civiltà moderna: la società come concorrenza, contrapposizione, lotta -, ma implica la comunità, perché il senso del singolo sta nella relazione, nella comunicazione, vorrei dire nella comunione, che la disperazione religiosa cristiana ha fantasticato nella comunione fisica con il corpo di dio.

È un dato storico che la maggior parte delle civiltà – non tutte – ha siglato il suo essere ‘insieme’ in termini di potere, in forme diverse. Nella maggior parte delle civiltà, il connettivo dell’essere-insieme è una forma di potere.

Questo dato storico ha la sua origine proprio nell’incapacità di elaborare, accogliere, dare un senso alla morte.

Il potere – qualunque potere: di un capo tribù o di uno Stato moderno – nasce a causa della rimozione angosciata della morte, da cui deriva l’incapacità di cogliere il nesso tra finitezza-unicità-assolutezza di ogni singolo e fondazione-di-comunità, in cui l’unicità di ciascuno non si contrappone, ma esige gli altri, perché l’unicità di ciascuno è costituita solo dal reciproco riconoscimento.

La finitezza del singolo è il fondamento della comunità storica. Chi muore lascia dietro di sé, lascia cioè al futuro, a chi viene dopo di lui, ai giovani, il suo esser passato di lì: la sua esistenza[51].

La civiltà moderna di origine europea, che ha conquistato il mondo con una violenza giunta spesso al genocidio, ha inventato l’individuo di mercato, che vive di merci e denaro, che riduce la dimensione affettiva a un incerto e casuale contrappunto tra individui incomprensibili – che non si possono comprendere perché sradicati dall’autentica reciprocità che è l’unica Heimat – nella disturbata, precaria, molto spesso violenta, intimità familista[52].

Lo ‘sviluppo’ estremo di questa condizione ha portato al dominio totale dell’astrazione: l’economia delle merci e del denaro, divenuta un automatismo inarrestabile, non è altro che il frutto della rimozione dell’angoscia per la morte[53]. Ha prodotto, cioè, la negazione radicale del rapporto singolarità-comunità in nome dell’individualismo di mercato, in cui la relazione passa attraverso l’astrazione quantitativa.

Il dominio dell’astrazione merci-denaro – la forma di potere più profonda e distruttiva, che nell’algoritmo, raggiunge una sorta di perfezione – produce la cieca corsa a una crescita illimitata, che è, appunto, la negazione radicale della finitezza, del limite intrinseco a ogni forma di vita. È radicalmente mortifero in senso letterale.

L’economia di mercato non è che la disperata rimozione della morte, che necessariamente produce morte.

Queste riflessioni, forse scontate, sono il tentativo di elaborazione discorsiva di questi anni di rapporto con chi vedo arrivare ogni sera: figure magre dai piedi malconci nelle scarpe stracciate, affamati e stanchi. Figure di verità storica, politica e filosofica.

 

Note: 

[1]C’è dalla prima infanzia alla tomba, in fondo al cuore di ogni essere umano, qualcosa che, malgrado tutta l’esperienza di crimini commessi, sofferti e osservati, si aspetta invincibilmente che gli si faccia del bene e non del male”, Simone Weil, L’Enracinement, Gallimard 1949, p.13; “Questa parte profonda, infantile, del cuore…”; “Grido silenzioso che risuona soltanto nel segreto del cuore”, S. Weil, Écrits de Londres, Gallimard 1957, p.13 (trad. mia).

[2]Un elemento fondamentale del suo [di Fanon] repertorio credo sia l’invito, l’incitazione a uscire da se stessi. Si tratta di una risorsa fondamentale in una fase in cui il concetto d’identità sta perdendo tutto il suo potere di sovversione per diventare una specie di oppio per le masse. L’uscita da sé per Fanon costituisce un’impresa rischiosa, ovviamente, e necessaria. Ma la sfida essenziale per lui non consiste nel ritornare a sé. Fanon, piuttosto, suggerisce che sia necessario allontanarsi e mettersi in cammino in modo tale che lungo la strada si producano incontri imprevisti con altri e con altre, a loro volta fuoriusciti da sé”, intervista ad Achille Mbembe dal Manifesto, 03-12-19.

[3]La risposta dell’UE al movimento di migliaia di migranti in fuga da Siria, Afganistan, Libia e altre zone è stata la costruzione discorsiva della ‘crisi dei rifugiati’ e quindi l’istituzionalizzazione di una singolare economia politica morale di gestione: militarizzazione sia dei confini ‘esterni’ che dei territori ‘interni’, gestione umanitaria delle eccedenze; repressione/sorveglianza/deportazione/morte da una parte, accoglienza/incorporazione differenziale umanitaria, dall’altra” V. Miguel Mellino, Governare la crisi dei rifugiati, DeriveApprodi, 2019, p. 151.

[4] Game è il termine corrente con cui i migranti chiamano il loro cammino nella Rotta, dall’evidente il significato di mettere in gioco tutto, anche la vita.

[5] Saskia Sassen, Espulsioni, Il Mulino 2014, pp.  254.

[6] Donatella Di Cesare, Stranieri residenti, Bollati Boringhieri, p. 136.

[7] Atiq Rahimi, Grammatica di un esilio, pp. 84-85 e 159-160, ed. it. Bottega Errante 2018. Sulla condizione del migrante cfr. il testo fondamentale di Abdelmalek Sayad, La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato, a cura di Salvatore Palidda, Milano, Raffaello Cortina, 2002.

[8] Donatella Di Cesare, op. cit., p 155.

[9] L’epidemia lo fa vedere  in modo efficacissimo.

[10] Sh. Khosravi, Io sono confine, Eleuthera 2010, pp.194, 127.

[11] E. De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, 2002, pag 481

[12] Sh. Khosravi, Io sono confine, op. cit., pp.  127, 194 e 202.

[13] Uno strumento concettuale che può esser utile per distinguere la potenza identificante dello Stato o comunque di un potere e la soggettività che ad essi si sottrae, che io chiamo singolarità, può essere la distinzione di Paul Ricoeur fra identité (idem) e ipseité, cfr. Temps et récit, I-II-III Gallimard 1983-84-85.

[14] U. Galimberti, Il corpo, Feltrinelli, 1983, p. 211.

[15]  Nella Rivoluzione francese ci furono anche, ovviamente, correnti radicali che misero le premesse di futuri fondamentali sviluppi, basta ricordare Babeuf. Voglio ricordare, inoltre, Olympe de Gouges, frequentatrice del circolo di Condorcet, che pubblicò nel 1791 la Déclaration des droits de la femme et de la citoyenne, in cui dava una curvatura universalista non androcentrica alla nozione di ‘diritti’. Fu sostenitrice del divorzio e del diritto di unioni extramatrimoniali. Quest’apertura la condusse alla ghigliottina nel novembre del 1793, come peraltro Babeuf.

[16] Sarebbe opportuno trovare un’altra parola per evitare confusione, ma le parole non si inventano a piacimento, sono frutto di lunghe storie… Ancora Simone Weil ha cercato di elaborare un concetto alternativo a ‘diritti’: il concetto di obbligo (obligation). Il contesto del pensiero weiliano è peculiare, tuttavia credo che possa dare stimoli molto importanti anche a chi non accoglie una dimensione trascendente. “L’oggetto dell’obbligo … è sempre l’essere umano in quanto tale. C’è obbligo nei confronti di un essere umano per il solo fatto che è un essere umano, senza l’intervento di nessun’altra condizione.”, S. Weil, L’enracinement, Gallimard 1949, p.10 (trad. mia). L’obbligo comporta un atteggiamento nei confronti di ciascun essere umano che Weil chiama ‘rispetto’: “l’obbligo si compie soltanto se il rispetto è effettivamente espresso” (p. 11) e può esserlo solo attraverso ciò che chiama “bisogni terrestri”. Queste considerazioni rimandano pienamente all’esperienza con i migranti. Uno di loro, un ragazzo pakistano, mi diceva una volta che andava in cerca di un luogo dove potesse essere rispettato. Weil ci offre un’altra pregnante riflessione quando parla di “bisogni vitali dell’essere umano’” che hanno “un ruolo analogo al nutrimento”, analogia efficacissima e concreta che noi possiamo verificare direttamente. S. Weil era una persona che si metteva in gioco con il suo corpo, per cui scriveva di ciò che viveva, come, ad esempio, il bellissimo saggio sulla Condition ouvrière, Gallimard 1951.

[17] Peraltro oggi, in tutto il mondo e anche in Europa, spesso in rapporto alla questione delle migrazioni, è in atto un restringimento del campo di applicazione dei diritti umani.

[18] Preferisco questo aggettivo, di sapore filosofico, a ‘ biologico’, che rimanda a una specifica visione scientifica della vita.

[19] Questo dato ci mostra qualcosa della condizione corporea. Corpo di bisogno, corpo di desiderio? C’è uno scarto evidentemente fra queste due dimensioni del corpo, reso evidente dalla distruzione dell’ambiente. Si può parlare di corpo ambiente e corpo sociale? Il desiderio è un’evoluzione-trasformazione culturale del bisogno. Il bisogno isola? Il mio bisogno non è il tuo bisogno, se ho fame e siamo in due per un solo cibo nasce conflitto, ma in natura la regolazione è metaindividuale: nella catena alimentare c’è un equilibrio fra la massa dei viventi in una determinata specie basata sul limite della soddisfazione dei bisogni. La cultura, soprattutto la cultura moderna, ha rotto il limite.

[20] Miguel Mellino afferma che i migranti profughi “sono titolari di un diritto assoluto di protezione, ma vengono anche posti, dalla sua [dello Stato] logica emergenziale, coercitiva e paternalistica, in una condizione di stretta sorveglianza e dipendenza dall’inizio alla fine del percorso”, in M. Mellino, Governare la crisi dei rifugiati, DeriveApprodi, 2019, p. 170. Secondo me, sono titolari come ho detto di un diritto che lo Stato non può riconoscere, di qui il carattere sovversivo della figura del migrante profugo.

[21] “Il diritto di avere dei diritti inteso non come legge naturale o come patto metafisico, ma come persistenza del corpo contro quelle forze che tentano di debilitarlo o sradicarlo”, J. Butler, Alleanza dei corpi, Nottetempo 2017,  p. 135]

[22] La cura è stata lanciata politicamente dal femminismo nei primi anni 70, almeno in Italia. Avendo dedicato un certo tempo della mia vita a ragionare su Heidegger e in particolare su Sein und Zeit, che considero la sua opera più importante, mi è ritornata anche a proposito dei migranti, l’importante elaborazione heideggeriana del concetto di cura, Sorge: “l’essere-nel-mondo è essenzialmente cura […] e l’essere con l’altrui ‘con-esserci’, incontrato nel mondo, come prendersi cura”, M. Heidegger, Essere e tempo (testo a fronte), Mondadori 2006, a cura di A. Martini, pp. 549-551.

[23]Tanto per Hobbes quanto per Marx l’umano è già da sempre un adulto”, “la dipendenza appare del tutto espunta dall’immagine di quest’uomo originario”, J. Butler, la Forza della nonviolenza, Nottetempo 2017, pp. 56 e 57. Bisogna aggiungere anche un adulto maschile.

[24] L’etimologia ci aiuta: adulto significa ‘cresciuto’, mentre sappiamo che non si finisce mai di crescere.

[25] J. Butler, L’alleanza dei corpi, Nottetempo 2017, p. 155.

[26] V. ultima parte del testo.

[27]  A. Mbembe, Critica della ragion negra, Ibis 2016, p. 187.

[28] I padroni sono diversi, in realtà, ad es., pensiamo ai social

[29] Anche se usa accanitamente il cellulare per mantenere un contatto con la famiglia, per mantenere e stabilire rapporti essenziale nel game, per gestire le rotte…

[30] In questa dimensione può rientrare anche il gioco freudiano del rocchetto, in Al di là del principio del piacere.

[31] Queste nuove migrazioni delle rotte mediterranea e balcanica sono essenzialmente di profughi, si che si tratti del Medioriente, dove la cosa è evidentissima, ma anche per la rotta mediterranea, frequentata più da persone in fuga dall’Africa, dove le condizioni sono ormai – e sempre più saranno – in diversi paesi di piena invivibilità.

[32] Cit. in G. Varchetta, Un andare pensando. Primo Levi e la ‘zona grigia’, Mimesis, 2019, p. 35, nota.

[33] Magatti e Giaccardi, Generativi di tutto il mondo unitevi! Manifesto per la società dei liberi, Feltrinelli 2014, cit. in E. Pulcini, Tra cura e giustizia, Le passioni come risorsa sociale, Bollati Boringhieri 2020, p. 169 nota.

[34] La lingua tedesca distingue con chiarezza vissuto, Erlebnis, da esperienza, Erfahrung.

[35] S. Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza, Luiss 2019, p. 355.

[36] Benjamin, Angelus Novus, Einaudi 1981, Consideraz. sull’opera di Nicola Leskov, p.248, “Le azioni dell’esperienza sono cadute. E si direbbe che continuino a cadere senza fondo. … Con la guerra cominciò a manifestarsi un processo che da allora non si è più arrestato. Non si era visto alla fine della guerra che la gente tornava dal fronte ammutolita, non più ricca ma più povera di esperienza da comunicare?” .

[37] Si parla di algoritmi predittivi, il cui “obiettivo è comprendere che tipo di esperienza hanno avuto gli utenti circa un determinato prodotto, servizio o avvenimento, delineare la polarità delle loro opinioni e prevedere eventuali reazioni future”, da un articolo di F. Candido sul giornale ‘Il manifesto’, 30-12-2020.

[38] A. Tagliapietra, Esperienza. Filosofia e storia di un’idea, Raffaello Cortina 2017, p. 134.  

[39] G. Varchetta, Un andare pensando , Mimesis  2019, p.25

[40] S. Weil, Attente de Dieu, La colombe ed., Paris 1963, p. 76 (traduzione mia).

[41] E mi sembra interessante che l’economia digitale possa essere chiamata anche ‘economia dell’attenzione’, che vuol dire controllo e cattura della possibilità di fare esperienza, ad es. v. M. Hindman, La trappola di Internet, Einaudi 2019.

[42] M. Belpoliti citato in G. Varchetta, in Un andare pensando, Mimesis  2019, n. 5 p.103.

[43]Gaza è, secondo me, la manifestazione parossistica di queste forme di confinamento nel mondo contemporaneo: una zona d’abbandono in cui tutto, o quasi tutto, è permesso”, Achille Mbembe, Intervista citata al Manifesto.

[44] Franco “Bifo” Berardi, ‘Volontà, potenza, disperazione’, il manifesto 29-12-2020

 [45] Nel capitalismo “è l’ossessione della morte e la volontà di abolirla attraverso l’accumulazione, che diventa il motore fondamentale della razionalità dell’economia politica”. “Tutta la nostra cultura non è che un immenso sforzo per dissociare la vita dalla morte, scongiurare l’ambivalenza della morte al solo profitto della riproduzione della vita come valore, e del tempo come equivalente generale. Abolire la morte è il nostro fantasma, che si ramifica in tutte le direzioni: quello della sopravvivenza e dell’eternità per le religioni, quello di verità per la scienza, quello di accumulazione e produttività per l’economia”, Jean Baudrillard, ‘L’economia politica e la morte’ in Luoghi e oggetti della morte, Savelli 1979, c. di G. Caramore, p. 43 e 45.

[46] “Il processo storico è stato per gran parte della nostra umanità, un progressivo assuefarsi alla morte altrui”, Achille Mbembe, Critica della ragion negra, Ibis, 2016, p. 294.

[47] Metafisica della morte, SE 2012, pp. 9-12.

[48] Ancora un riferimeno a Heidegger che, sempre in Sein und Zeit, collega la cura con la morte come possibilità estrema dell’ente. Mi sembrano concettualmente più nitide le scarne riflessioni di Simmel e più utili nel contesto in cui cerco oggi di utilizzare sobriamente le mie letture di una vita, nella misura in cui vengono da esso richiamate. Non avrebbe senso ovviamente approfondire qui, né francamente m’interessa oggi, per quanto ribadisca l’importanza di quest’opera. Voglio però aggiungere che Heidegger ignora la nascita, il venire al mondo, che nasconde sotto il concetto di Geworfenheit, l’essere gettati nell’esistenza. Credo che questa rimozione abbia avuto un peso nella sua meditazione sull’essere per la morte, nelle sue vicende degli anni Trenta e anche nel seguito del suo pensiero, che trovo, in genere, meno stimolante del precedente.

[49] Scrive Achille Mbembe  che“per far nascere una nuova persona umana e dare una certa consistenza alla propria vita [il Negro] doveva autoprodursi non come ripetizione, ma come differenza insolubile e singolarità assoluta, (A. Mbembe, Critica della ragion negra, op. cit., p. 251).Ciò implica quindi la capacità di far nascere anche un nuovo tipo di collettività.

[50] Fra cui emerge la scrittura. È questa la potenza della scrittura, che si può leggere nella maniera più intensa nelle ultime lettere di condannati a morte per consapevoli scelte etico-politiche o, in forma particolarmente straziante, negli scritti sepolti sotto terra e casualmente ritrovati molto più tardi da persone svanite nelle camere a gas…

[51] Con ‘esistenza’ indico la vita dell’animale culturale.

[52] Qui si aprirebbe il discorso sulla matrice androcentrica dell’individualismo…

[53] Nella modernità capitalistica la morte è delegata all’apparato sanitario. Ricordo tempi in cui questo tema veniva in qualche modo considerato, ad esempio dall’importante riflessione di Ivan Illich ne La nemesi medica del 1976, più volte riedito.