Poesie di Francesco Nappo e Clio Pizzingrilli

Poesie di Francesco Nappo e Clio Pizzingrilli

15 Aprile 2024 Off di Francesco Biagi

 

FRANCESCO NAPPO

 

A CLAUDIO *

                                    “parlar cantando, non cantar parlando”

un altro Claudio disse

*

Nei laschi silvani un riparo

è il diradare degli alberi.

Il quieto mancarsi protegge e

promette l’aperto alle fratte.

Sopra quel monte vicino ad Ascoli

avevi ospizio di tavelle e

tavolame, secondo il ricordo

che del passato in noi si compie al modo

che il volto d’un altro smemora,

misericorde, il nome suo e delle

cose per cui il suo vivere fu uno

ed indimenticabile per noi.

E con Francesca vidi il Tronto che

annotta tra sue ripe ascolane

balenare per le frasche declivi.

Era lo stesso fiume che avevo

nominato, bambino, alla colonia

adriatica presso San Benedetto,

ma non lo sapevo e non lo dissi

a Francesca quando parlai al telefono

con lei che stava lontano da me,

a Napoli, in quella lunga sera

del nostro amorevole patire.

 

**

Quello che tu consegni, anche a chi resta

sordo al tuo bilenco poetare

di mesta e gaia apocalisse,

ribelle solitudine filiale,

quasi accecante discernimento,

è ciò per cui mi sei tra i giusti

umiliata ed offesa vittoria.

Mentre per acque estuarie le imagini

degli alberi al vento della foce si

confondono, giunge il respiro salso

dell’onde reduci del mare,

a salvamento di perdute cose.

Confido non abbia altro nitore

l’imaginare mio di sé liberto,

di nulla per figure allegoria,

ch’ultimo suoni e giovevole sia.

Accettalo come offerente dono

che allo straniero ospite d’eguale

sorte mortale e gloria incognita

solo può offrire l’ospite più povero,

colui che accoglie nella sua dimora,

che sia modesta o magnificente,

benevolente e pia pur sempre.

 

***

Ti sia conforto l’arcade dolore

della mia infanzia, vela che strapoggia

alla riviera intatta dallo sguardo,

pace e luce di arresi pensieri,

meditare ideale e sensibile,

dacchè il perdono precede il giudizio

pur se mai lo rifugge per superbia,

Dio concedendo a noi, a noi che siamo

veste del corpo suo intangibile,

inapparente sé nell’apparire

che schiude scevra di morte l’anima

come la sera l’amor del glicine sui muri.

 

****

Posso lasciarti il dove non il quando

mi fu salute la parola giunta

per specchi d’un lùcere paràclito:

del supremo filare l’uva vaia

al sol postremo sui terrazzamenti

che folgorando andava per le viti

in aspèrgine di folgori purpuree

alla vangata terra bruna intrise,

m’è grato il novellare e lieto.

E, verbi gratia, ancora confessando:

in me parlò diurno quel boschivo

padule di risorgenze, estasi ria

del Bussento svenato in brade luci

dove incestiva il querceto tra

le sodaglie d’annegati fiori,

questo ancora ti voglio narrare

mito triste al cuore che intende.

 

*  Claudio è il nome completo di Clio Pizzingrilli. Il Claudio che si nomina nell’epigrafe è Claudio Monteverdi.

 

***

 

CLIO PIZZINGRILLI – DA PENSIERO CRUDO

 

 

d’un tratto è apparso uno la cui apparsione tra noi era i

mpensata non sto adesso a precisare da qual lato

apparì anche se la precisazione gioverebbe a determinar

e di che formato fosse tempra

al momento invece più urgente è avanzare

che l’impensato corridore ha occhi internati  come il gu

ardo di Klee che dele cose indaga il drento più che il fuori

e sensa cuore è ’l corpo né ombra sua figura aduggia

quando infatti accosto l’orecchio al petto posi

non ascoltai sbattimenti né di cardiaco fervore i sentimenti

quegli è dalla periferia dell’impé      rialì      zzamènto

una rimanenza un umano secondario un robespierrolâtre

ancora sempre in apparsione

viene ora qui imprevisto qual seguitatore di rivoluzione

sicché fececisi ’ncontro e oscuramente

d’un’acqua ci discorse di durata etterna

un’acqua ai uomini straniera che da’ profondi

traesi affondamenti la qual più fa non venir

ogn’altra sete

 

 

questo è il mio parnasetto – il nullum-alibi della rivoluz

ïone, la vampa ingiuriosa del rogo che Lenìn appiccò,

quandoche dalla grande uerra snudò il proletariato a

rovesciamento dello stato e dei padroni – e che felicità

che intelletto d’amore viene da quella sovversïone e tra

vasa nei mie’ vasi e si mescola a mie arie e penètra ne’

secreti mie’ pertusi e sabòta ogni vita solitaria e monta

appetiti immemorati     se non che tutto omai è scorso ma

unqua requie m’ave e priego che nel’età a venire udire po

ssi il mondo un altro empito d’incendî e di rivolte che fia

materia a nuovo vivere e soavissimi parlari et ingegnosi

inchiostri e disputate stanze e beatissime testure ammèn 

 

 

al’ora che mi vennero a carcerare io languiv

a a terra in un laberinto di tormenti per le m

olte patite ingiurie ché subito cadei in loro

forze e quei senza meno m’incepparno men

andomi a carcerazione e già prigioniero di

miei prigionatori mi sopravenne la santa i

cona d’un garzone analfabeto di nome prop

rio Alëša ma chiamato cuccumella e che pre

gava a gesti e un giorno scivolò dala tettoia

mentre esseguiva l’incombenza di spalare la

neve e dopo poco morse e io apparecchiato g

ià a partir per la prigione io non mi partiva e

’l guardo o ver la mente aguzzava per ogni p

arte a cercar di una poesia che maravigliato a

veva un giorno di lontano appreso ma che pe

rò non mi veniva in seno e io l’addomandava

ma nessunamente essa mi arrispondeva e io m

i lamentava ma solo la mia voce si riproducev

a imperciocché i’ m’attacei e seguitamente m

’ammorzai e lasso grandini pel struggimento

stillai dagl’occhi da tanto grave smarrimento

 

 

immobile come un soprammobile stava una catta

ianca dinanti a un dumo in estesissimo dumeto

lì beato buono si pose a passare e venne a agguatalla

ma la catta non gli badò nessunamente incantata

a spettare avanti che l’oggetto uscisse di ricetto

 

frattanto molti dei fiori che prima non s’erano apriti

ora schiudevan le corolle e apparirô assaissimi colori

che il in magno bello morto der Reiter Macke più ha

saputo doppiare nel candente campo di Champagne

 

poi il sole s’è spostato a mezzo il cielo ed è venuto caldo

e dal’erba saglie un umidore che dai piedi del camminatore

s’effondeva sino al viso traverso tutto il corpo e beato buono

si strinse nele spalle al pensiero d’un’isoletta amena e leta

 

poi il sole s’è posato sopra la violata milizia dei monti

le erbe s’aveano accoperte di bistro e l’aque ingrigite

del torrente e de’ più brevi rivi e lì beato buono riprese

la via di casa e passando davanti al dumo vide la catta

 

immobile come soprammobile la catta ianca dinanti

inanti al dumo a vigilar l’oggetto a farlo catto

 

 

or che qui discorro vosco mi chiedo

che faccia stiate vedendo voi altri mei collocutori

però che non raccordo qual mi sia faccia

in passato non me l’ebbi mai chieduto

il chiedimento m’era affatto sconosciuto

già che m’ero conficcato non potersi avere faccia altra

altra nessuna per stanziarsi in questo mondo

il mondo ero io e lui conosceva me soltanto

quale suo beato e buono guardatore

tuttutti erano quanti erano soggetti overo oggetti

parti di mondo in attesa di mio conoscimento

compresi la mia fattrice e il mio fattore

compresa la mia druda compresi la penna

et il pennello con cui scrivo e pingo

compreso meus amicus ch’è nei cieli

or invece che discorro vosco mi vorrei

essere Briareo figlio di Urano e Gea

ekatoncheires e di cinquanta teste fatto

e di cambiarne una a inanti a ogni locutore

e con le cento mani lavar le macchie

e farmi mondi il corpo e l’alma e ’l core

o cancellare incerta lor disegnatura

 

 

ehi tu l’ombre m’ingombrano gl’interni alberghi né

mai se ne disgombrano libente torrei d’appresentar

mi in cielo e più migrar per piagge ostili ove vuotar

del’aque acri i rivi ma ’desso posso fermare il moto

e volgermi a quei in cui mi cogito ’desso che di lon

tano sono appena pena visibile e da presso nulla di

me si scorge ehi tu vorresti spingermi verso quell’a

mmasso di rottami mi basta una piccola spinta poi m

e la vedo io ehi tu correvo a perdifiato a ’bbracciarla

m’era ormai a due passi e finalmente l’ho ’bbraccia

ta essa però non una parola non un gesto frattanto s’

era smutata in torace d’alboro allora senti mi faresti

un po’ di posto qui drento questo tronco qual fossi d

riade me faceres remigrare almeno durante questo in

verno soltanto non c’è risposta ai mie’ omei non è il

caso d’insistere devo riprendere a dare albergo agl’e

mpii signoreggiatori a mormorare in eremitico ricetto

a mai fornir amare lasse ad aspreggiar quale Timone

il mondo ehi tu precipitàmi giù sotto come masso da

l’alte cime fin al’affonda valle tal ch’i’ possa a termi

ne di suo precipitamento scancellare mia assembranz

a e subita aver semblanza di Lieo è a dire il liberatore

 

 

Renato delle Carte afferma che qualora uno scritto

re concepisca un pensiero certo ed evidente eo ips

o cura cura di non esporlo senza l’envilupper de plusieu

rs obscurités* già che indubbiamente teme espone

ndolo in maniera semplice che la sua dignità possa

esserne inficiata così si legge nella Règle III conten

uta in una aspreggiata d’orgoglio raccolta di regole

per la direzione dello spirito e la ricerca della verità

 

 

*sensa di che la specie dei glossatori si sarebbe estinta

 

 

immagine: A. Macke, Zoologischer Garten, 1912