Quel che nasce sulle rovine delle stragi – di Carlo Perazzo
QUEL CHE NASCE SULLE ROVINE DELLE STRAGI: LA NECESSITà DI POLITICIZZARE I DISASTRI
In solidarietà a Mario Sanna e alla rete “Noi 9 ottobre”
Carlo Perazzo
Mi rivolto, dunque siamo[2]
Più di un anno fa la rivista Altraparola pubblicò un articolo ( https://www.altraparolarivista.it/2022/01/14/se-la-vita-vale-paradossi-della-modernita-e-resistenze-umane-da-danilo-dolci-a-mario-sanna-di-carlo-perazzo/ ) che proponeva una riflessione sulla violenza del presente, esprimendo solidarietà alla lotta di un uomo, Mario Sanna, che nel terremoto di Amatrice del 2016 vide morire il figlio Filippo di 22 anni.
Al tempo Mario stava portando avanti il suo secondo sciopero della fame, strumento della sua lotta non-violenta per l’istituzione di un fondo per i familiari delle vittime del terremoto. Lo sciopero si concluse dopo 12 giorni, con la promessa da parte dell’allora governo Draghi che il fondo sarebbe stato istituito.
Se già quella promessa aveva tardato tanto ad arrivare, il cambio di governo ha di fatto azzerato i risultati ottenuti. Non dovrebbe servire, ma è utile eliminare subito ogni dubbi legato al (falso) problema della scarsità delle risorse, che quasi di riflesso fa dire a moltә che sì, un fondo per i familiari delle vittime sarebbe cosa buona e giusta, ma in tempi così critici lo Stato non può avere soldi per tutto: ribadiamo perciò che l’istituzione del fondo (40 milioni di euro, poi diventati 150 milioni includendo anche il terremoto dell’Aquila) avrebbe chiesto al governo italiano un impegno simile a quello dedicato l’anno scorso per il “bonus tv e decoder” (68 milioni di euro); molto inferiore rispetto alle spese militari, che hanno superato la cifra mostruosa dei 25 miliardi di euro, o ai sussidi che lo Stato continua a erogare alle attività inquinanti legate alle fonti fossili (41,8 miliardi di euro nel 2022)[3].
Ma, come si dice, spesso al danno si somma la beffa: non solo né lo scorso governo né quello attuale hanno istituito il fondo per i familiari delle vittime, ma anzi, negli ultimi mesi agli abitanti delle zone colpite sono arrivate cartelle esattoriali con tanto di interessi, commissioni e sanzioni, legate ai tributi che lo Stato aveva sospeso a causa dell’emergenza sisma. Per di più, la Protezione civile ha deciso di chiedere alle persone un affitto per le SAE (Soluzioni Abitative di Emergenza) dal 2020 al 2022 come “contributo ai costi sostenuti dallo Stato”.
Quando lo scorso 24 agosto, anniversario del terremoto, dopo le solite parole vuote e retoriche dei vari rappresentanti delle istituzioni – su tutti il ministro per la protezione civile Musumeci – Mario Sanna ha parlato a nome dei familiari delle vittime e a nome, se si può, anche delle vittime, qualcuno ha deciso di silenziare il microfono. Mario non è violento, non è offensivo, mantiene una calma che impressiona e si limita a dire quella semplice verità scomoda che lo Stato non vuole sentire e non vuole legittimare: i familiari sono stati abbandonati; le vittime sono state umiliate; lo Stato mette quotidianamente il profitto davanti alla tutela dei cittadini e poi, per gli anniversari, viene a piangere retoricamente e senza vergogna di fronte a chi piange dentro ogni giorno.
Questa è la violenza strutturale della nostra società: violenza gratuita che viene esercitata quasi in automatico; violenza burocratica, dove gli automatismi prevalgono sull’umanità; violenza politica, quando togliere tutto e anche di più, persino la voce, pone la cittadinanza in uno stato di disperazione e soggiogamento tale per cui nulla sembra davvero poter migliorare e allora è inutile combattere.
Eppure, malgrado questa violenza assurda, ci sono cittadinә che non abbassano la testa, che hanno la centratura e la forza per poter continuare a esigere la giustizia del buon senso e della nostra Costituzione, di un’etica minima senza cadere nel trabocchetto della violenza che replica violenza. Si rivoltano e nella loro rivolta ci siamo tuttә noi, volenti o nolenti, consapevoli o meno. Come diceva Camus, «nell’esperienza, assurda, la sofferenza è individuale. A principiare dal moto di rivolta, essa ha coscienza di essere collettiva, è avventura di tutti»[4]. Il nostro mondo è ormai dentro una palude di assurdità e se la società, la cultura, la politica nascevano anche per trovare un senso all’assurdo dell’esistenza, oggi sono prima di tutto queste dimensioni ad alienare l’umano ponendolo in un angosciante non-senso politico. Eppure, malgrado questo, esistono ancora esperienze che continuano a disegnare un orizzonte diverso, dove le idee di destino comune, di relazionalità, di insieme, rappresentano le fondamenta e non qualcosa di ormai perduto per sempre sotto i colpi dell’individualismo e dell’egocentrismo.
Questo 9 ottobre, a sessant’anni precisi dalla strage del Vajont – strage di “Stato-mercato” paradigmatica per tutte quelle che avverranno dopo – Mario ha ripreso lo sciopero della fame e andrà avanti a oltranza finché la sua richiesta non sarà accolta. Sarebbe sciocco pensare che questa sia la “sua” battaglia. Si tratta, piuttosto, di mettere in gioco la cosa più evidente e immediata che si ha – forse anche la più importante – ovvero la propria vita, per un senso di dignità, di limite, di giustizia basilare che riguarda tuttә. Si tratta di dire, ad un certo punto, no. Lo Stato non può fare quello che vuole, il mercato non può fare quello che vuole, c’è un limite, ed è il mio corpo, la mia vita. Se si vuole schiacciare anche questo limite, se si sceglie di andare avanti in questa ingordigia di potere arrogante, strafottente e violento, ci sia almeno la costrizione a dichiararsi assassini. Può uno Stato che si dice democratico lasciar morire i suoi cittadini e le sue cittadine? Si, lo può, perché lo fa quotidianamente, pur nascondendosi ogni volta. Bene: questa volta però non può nascondersi. Se sceglie di andare avanti nella sua violenza lo dovrà fare alla luce del sole convincendo tutti e tutte che si può lasciare che un uomo rischi la propria vita così, chiedendo la più piccola delle giustizie in nome di un figlio morto a 22 anni.
Fuori da ogni retorica, dovremmo stare accanto e ringraziare Mario e tutte le persone che come lui si ribellano, perché è anche grazie alle loro silenziose rivolte che noi continuiamo a essere parte di un mondo vivo, e non semplici e miseri ingranaggi di un meccanismo senza più senso. La lotta di Mario riguarda tuttә perché se vincesse cambierebbe il futuro di tuttә quellә che domani sarebbero nelle sue condizioni e nelle condizioni di suo figlio Filippo.
La sua storia, come quella di molti altrә familiari di vittime di stragi oggi riunitә nella rete “Noi 9 ottobre”[5], ci permette di alzare gli occhi al cielo, renderci conto di che consistenza è fatto il nostro mondo e lottare con forza affinché se ne possa costruire un altro migliore. Per seguire e raccontare la sua lotta https://www.facebook.com/ilsorrisodifilippo?locale=it_IT .
Lo strappo nel cielo di carta
Il fu Mattia Pascal offre un’immagine folgorante: cosa accadrebbe se, in un spettacolo di marionette, Oreste, sul punto di vendicare il padre, si accorgesse di uno strappo nel cielo di carta del teatrino in cui va in scena? Perderebbe improvvisamente ogni obiettivo e la sua azione si rivelerebbe senza senso. Gli cadrebbero le braccia: sarebbe la fine dello spettacolo e, forse, l’inizio di qualcos’altro.
Nel cielo di carta della nostra società non c’è uno strappo, ma decine di squarci tali da far crollare il teatrino intero. Cosa accadrebbe se moltә, ad un certo punto, se ne accorgessero? Case e ponti che non dovrebbero crollare; treni che non dovrebbero deragliare; acque che non dovrebbero essere inquinate; dighe che non dovrebbero essere costruite… Queste storie, queste stragi, sono gli strappi della nostra democrazia: impossibili in uno Stato di diritto, eppure inevitabili quando questo risulta assoggettato alle dinamiche del profitto.
Il paradosso è spiegato bene dal sociologo Antonello Petrillo in una ricerca sull’amianto:
«la storia dell’Isochimica appare […] incredibile, ossia incompatibile con la visione strutturata della realtà propria del nostro mondo, del nostro percepirci cittadini di un paese democratico ed economicamente progredito, dotato di un sistema giuridico evoluto e di poteri opportunamente bilanciati, pronti a intervenire nel caso di violazioni della norma e ad assicurare a ciascun individuo – se non il benessere – almeno il rispetto dei principi fondamentali di libertà e dignità della vita umana. […] appare difficile ipotizzare che un giovane cittadino italiano possa uscire di casa al mattino, alla ricerca di un lavoro, aspettandosi di incontrare […] un luogo da incubo come Isochimica…Eppure»[6].
Isochimica fu la ditta che negli anni ’80 si occupò di togliere l’amianto da gran parte dei treni italiani. Nell’Irpinia post-terremoto si presentò come la possibilità del riscatto lavorativo, assumendo 400 operai, molti appena maggiorenni, e facendoli lavorare senza protezioni, controlli e garanzie. Dovevano ritenersi fortunati di avere almeno un lavoro. Moltissimi si ammalarono e tutt’oggi si ammalano a causa dell’amianto respirato e l’inquinamento ambientale a seguito del processo di smaltimento illegale dei rifiuti tossici (interramento e abbandono) sta avendo un enorme impatto sul territorio e la cittadinanza.
Affinché “democrazia” non diventi una parola vuota, un teatrino di carta, è necessario osservare gli strappi, raccontarli, portarli in piazza, nelle scuole, dappertutto. Anche onorarli, insieme a chi lotta per non perderne la memoria, perché essi sono il termometro che indica la salute della nostra società.
Politicizzare i disastri
Sul finire degli anni ’70 una certa socio-antropologia cominciò ad interessarsi allo studio dei disastri, da quelli ambientali a quelli industriali[7]. L’obiettivo era di superare l’analisi tecno-centrica di questi fenomeni, legata alle scienze naturali e ingegneristiche. Si trattava di evidenziare la natura profondamente sociale e politica di tutti i disastri, di studiare il tipo di sviluppo economico e di società che avevano creato le condizioni della loro possibilità. Tutt’oggi è evidente una sorta di coazione a spostare l’attenzione sulle questioni tecniche o “naturali”: il ponte era progettato male; il monte è franato; il terremoto non può essere previsto. Affermazioni nette e apparentemente indiscutibili, che provano a chiudere il discorso appellandosi ad una certa neutralità dei fatti. Ma, nel mondo umano, nulla è esclusivamente “naturale” e i fatti sono letteralmente “fatti”, cioè costruiti, frutto di dinamiche complesse in cui l’interazione umana è fondamentale. Si tratta di cambiare prospettiva e porre domande diverse: perché urbanizzare lì e proprio in quel modo? A che bisogno risponde la tale industria, la tale produzione, quel tipo di infrastruttura? Perché non dare priorità a quell’intervento di messa in sicurezza? Il terremoto – forse – è della Terra; i danni che esso produce sono inevitabilmente legati alle scelte fatte dalla società colpita.
Oggi la questione ecologica impone di superare quella forma mentis obsoleta che concepisce la “natura” come qualcosa di separato dall’umano: noi siamo la natura e l’antropocene[8] ci mostra che la “natura” è in realtà piena di scelte sociali.
C’è una storia raccontata da Didier Fassin, noto esponente dell’antropologia medica, che ci aiuta a comprendere bene questa dinamica; la storia politica e sociale di una patologia, il “saturnismo infantile”.
Nel 1981 alcuni pediatri di Lione raccontarono di un bambino di cinque anni con gravi e incomprensibili disturbi neurologici; dopo vari interventi notarono che il tasso di piombo nel sangue era più alto della norma e individuarono la causa nell’assorbimento di scaglie di vernice al piombo, presente nei vecchi condomini. Quattro anni dopo ci fu a Parigi un caso simile, con la differenza che un’assistente sociale si preoccupò di andare a vedere di persona le condizioni dell’appartamento in cui viveva la bimba malata, scoprendo che moltissime famiglie, povere e perlopiù provenienti dall’Africa subsahariana, abitavano in strutture terribili, a stretto contatto con le vernici al piombo incriminate, per altro fuori legge dal ’48. Dopo le prime ricerche nella zona di Parigi, il 99% dei casi gravi di questa patologia riguardava bimbә di origini africane. Esperti e specialisti della sanità francese, inizialmente scettici rispetto alla “causa vernici”, formularono ipotesi culturaliste: forse il problema era il tipo di inchiostro usato dai marabutti nello scrivere le formule coraniche, o forse il trucco delle madri. Quando non ci fu più dubbio sulle vernici al piombo, continuarono a ingegnarsi per trovare risposte culturali al problema, domandandosi come mai bimbә africanә avessero questo istinto di mangiare gli intonaci dei muri. Arrivarono persino a sostenere che si trattasse di “geofagia”, derivante dall’usanza delle madri in gravidanza di succhiare l’argilla. Questa storia emblematica evidenzia con chiarezza che quella malattia, che nel 1999 in Francia riguardava – seppur con conseguenze molto meno gravi – il 2% dei e delle bambinә, è frutto «dell’evoluzione delle politiche dell’immigrazione e della chiusura delle politiche immobiliari sociali […], un problema di sanità pubblica le cui cause sono sociali più che culturali e le cui soluzioni riguardano le questioni urbane più che quelle mediche»[9]. Non c’entra la natura e tantomeno la cultura; il problema è politico e sociale.
Oggi ad esempio, grazie alla battaglia di alcunә cittadinә, conosciamo il disastro sanitario legato al PFAS nel Veneto. Bimbә, ragazzә, con un alto tasso di sostanze tossiche nel sangue fortemente legate a problemi cardiovascolari, endocrini e tumorali. Non c’è nulla di naturale o di accidentale: è il frutto di uno sviluppo industriale incontrollato, di scelte politiche ed economiche precise. L’unica differenza che c’è tra la tragedia del PFAS e il saturnismo infantile in Francia, è che quest’ultimo evidenziava una profonda questione di classe: erano solo gli e le ultimissimә ad essere colpitә. Oggi il livello di nocività che il mondo capitalista produce è così alto, complesso e diffuso che tuttә, più o meno benestanti e aventi diritto, siamo colpitә.
Non sono “gli ultimi” a vivere nel Veneto degli sversamenti tossici, in una casa non a norma in zona sismica, o ad attraversare un ponte autostradale non manutentato, bensì potenzialmente tuttә. Solo l’1% può permettersi di vivere nelle enclave lontano da tutto e di viaggiare in jet privati.
Dal ’63, anno del Vajont, ad oggi, sono moltissime le stragi di natura politica e sociale, frutto di scelte di Stato e di mercato. Migliaia di persone innocenti ci indicano lo strappo nel cielo di una democrazia sempre più di carta.
Le stragi sono una lente di ingrandimento: amplificano i comportamenti impliciti delle strutture statali, delle aziende, della cittadinanza; sono fratture che permettono di svelare le contraddizioni della “normalità”. Un’antropologia delle stragi[10] è uno sguardo in (almeno) due direzioni: da una parte lo “Stato-mercato” nudo, che sacrifica chi dovrebbe tutelare per gonfiare poche tasche già piene e poi si difende senza ritegno, forte della sua violenza, o fa proclami vuoti; dall’altra tutto ciò che nasce dopo, la forza di chi sa vivere tra le rovine e lotta affinché possano non esserci nuove, evitabili, macerie.
Nello specchio delle stragi: rischio, resilienza o prevenzione?
Se dagli anni ’80 si è affermata l’idea che globalizzazione, modernizzazione industriale e tecnologica comportassero anche l’affermarsi di una “società del rischio”[11], le stragi offrono la possibilità di riflettere criticamente sulla risposta pubblica a tale trasformazione.
Il concetto di resilienza è ormai di moda: nelle scienze fisiche il termine indica la proprietà di un materiale di resistere ad una forza senza spezzarsi; in quelle sociali e psicologiche la capacità di resistere e reagire a eventi traumatici o di grande intensità. Oggi è al centro delle politiche della Commissione Europea e di quelle italiane del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). La resilienza, per sua natura, entra in gioco dopo lo strappo; al lato opposto, prima di esso, c’è un altro concetto importante che però non è più di moda: la prevenzione. Se la risposta pubblica al rischio non si traduce nei termini della prevenzione, dovrebbe suonare un campanello d’allarme. La resilienza è molto importante di fronte ad eventi eccezionali e imprevedibili; ma se diventa programmatica e strumento di governo, rivela che ormai l’eccezione è diventata la norma e nulla è più prevedibile. Dietro questa lettura si cela una grossa deresponsabilizzazione della politica pubblica a spese dei singoli e delle comunità: come a dire, “imparate a essere forti e a reagire agli imprevisti da cui ormai, con questo mercato, questa crisi ecologica, questi virus, noi Stati non possiamo più tutelarvi”. La differenza è sostanziale: se la prevenzione è per tuttә, la resilienza come programma politico invece ammette che si salvi solo chi ha una certa forza.
Non è un caso che il rischio e la capacità di rilanciare siano temi di mercato: un po’ come se tuttә fossimo imprenditori di noi stessә non solo economicamente, ma esistenzialmente. È l’esistenza a essere un investimento rischioso, senza tutele.
La sociologia dei disastri ci mostra come, in un mondo in cui il più importante indicatore di benessere è ancora il PIL, un terremoto che rade al suolo interi paesi è positivo; anche le malattie sono produttive: «Pfizer, Johnson & Johnson e AstraZeneca nell’ultimo anno hanno corrisposto ai propri azionisti 26 miliardi di dollari»[12].
Nello specchio delle stragi che società vediamo? Indubbiamente vediamo creparsi il patto implicito che dovrebbe garantire tutela, diritti, giustizia. L’ossessione per la “sicurezza” che negli ultimi anni è diventata perno delle politiche di tutti i governi, non si oppone al rischio ma, puntando l’attenzione su pericoli relativi e superficiali, rappresenta l’altra faccia della stessa medaglia: a fronte di decreti, investimenti in sorveglianza, inasprimento del paradigma poliziesco, viene a mancare la sicurezza più importante, quella dei diritti. Come notano alcuni giuristi, il “diritto alla sicurezza” è una perversione (propagandistica) della “sicurezza dei diritti”[13]: se il diritto alla salute è garantito (art. 32), se lo sono la tutela rispetto all’iniziava economica privata (art. 41) o il diritto ad un giusto processo (art. 111), siamo già al sicuro.
Le stragi raccontano “insicurezze ignorate”[14] deliberatamente, che espongono la vita e la salute di migliaia di persone al rischio più radicale. In nome di cosa? È di fronte a questa domanda che nello specchio delle stragi emerge una triste costante: il profitto. Le stragi sono sconvolgenti perché ci dicono che nuove forme di accumulazione di capitale avvengono anche in casa nostra, non solo nel “sud” del mondo: per garantire dividendi maggiori si può permettere che crollino i ponti, esplodano i treni, si inquinino le acque e quindi che muoiano e si ammalino le persone, noi, i nostri figli e le nostre figlie.
Queste stragi sono il corpo dei concetti critici che da anni riempiono i libri: sono la carne della postdemocrazia, del finanzcapitalismo, della necropolitica. Sono la torcia che illumina uno Stato colluso con un modello che si presentava come economico (il capitalismo), diventato invece di governo, di visione e costruzione del mondo, eretto su una violenza strutturale continuamente occultata.
E perciò esse sono la grande occasione: sono i fatti dai quali partire per rileggere il mondo in cui crediamo di vivere. Possono essere la fine dello spettacolo di marionette e l’inizio di qualcos’altro.
Vita tra le rovine
C’è un fungo divenuto famoso perché in grado di nascere nei territori più devastati della terra. È stato la prima forma di vita a emergere sulle macerie di Hiroshima e a Fukushima, dopo il disastro nucleare. L’antropologa Anna Tsing[15] ne racconta la storia ponendo una domanda semplice e centrale: come riesce a vivere tra le rovine che abbiamo generato? La stessa domanda sorge inevitabilmente incontrando la storia di Mario Sanna e di tutte le associazioni che sono nate sulle macerie di queste stragi italiane, molte delle quali oggi raccolte nella rete Noi 9 ottobre. Nonostante le perdite violente e ingiuste, nonostante le umiliazioni di una giustizia zoppa e di una politica arrogante, lottano da anni, chi da decenni, per chiedere una società diversa. Ciò che emerge con più forza non è la richiesta di giustizia per il passato, ma quella per il futuro, il motto “mai più” che non riguarda loro, ma noi che abbiamo avuto la fortuna di non trovarci al loro posto. Se moltә di loro hanno perso tutto ciò che di più importante avevano, non hanno perso la forza di lottare affinché altrә, sconosciutә eppure simili, non perdano a loro volta tutto. Testimonianza di umanità e vitalità preziosa: un esserci per l’altrә, e per di più sconosciutә. È qui che queste lotte sono forse più radicali di molte altre.
Esse sono osservabili come richieste di democrazia partecipativa[16], che pretende che le strutture pubbliche lavorino rispettando i mandati costituzionali, includendo la cittadinanza nei processi decisionali e garantendo quella “sicurezza dei diritti” di cui sopra. In quest’ottica, queste associazioni stanno lottando per la democratizzazione della democrazia. E noi, qui, dalla parte fortunata – per ora – del paese, dovremmo sentire la pelle d’oca e una profonda gratitudine per questa tenacia al servizio di tuttә.
Senza l’inclusione della cittadinanza nei processi decisionali e programmatici non può esistere una società sostenibile. La democrazia rappresentativa, di fronte allo strapotere del mercato, fa acqua da tutte le parti. È in questo snodo che la rete “Noi 9 ottobre” e tutte le realtà che ne fanno parte, consapevoli della brutalità e della violenza di una democrazia fittizia, aprono un sentiero da percorrere. Nel loro lavoro non c’è solo una critica, una denuncia, ma lo studio, la propositività, la richiesta di partecipare alla “cosa pubblica” con i loro corpi segnati dalla violenza di Stato.
Mentre alcunә aspettano con timore il collasso della società industriale e finanziaria, queste storie, esattamente come quelle di altri popoli violentati lontano dai nostri occhi, ci dicono che il collasso è già in corso e che però è possibile fare vita sulle macerie e lottare affinché si sottraggano spazi alla barbarie.
L’importanza sociale della “verità condivisa”
John Galtung, uno dei più importanti studiosi sui temi della pace e della violenza, propone di tripartire la violenza in diretta, strutturale e culturale. La prima è evidente, la seconda è frutto di strutture sociali che permettono il suo replicarsi, la terza è però la più pericolosa, perché subdola giustifica e legittima la violenza stessa, crea le condizioni di possibilità per le altre due.
Da anni queste associazioni si battono contro due forme di violenza culturale importantissime: la desocializzazione[17] dei fatti e la costruzione selettiva e strumentale della memoria. Desocializzare una strage significa relegarla all’ambito privato, generare nella società un atteggiamento di generico dispiacere per quelle famiglie, come se il fatto riguardasse solo loro. È un problema dei singoli, non una questione sociale. Spesso politica e media puntano l’attenzione su questo piano “intimista”. Conviene, non mette in discussione un intero sistema, non spaventa troppo il resto della cittadinanza, non implica cambiamenti: la giustizia poi metterà il punto finale alle vicende, si dice. Nel frattempo il dramma viene ridotto al familiare.
La costruzione selettiva della memoria risponde soprattutto alla necessità politica di creare una storia comune del paese. Il passato è sempre ricostruito dal presente che sceglie cosa e come ricordare. L’Italia è un paese dalla memoria contraddittoria, piena di “fratture”[18], di strappi appunto, e la storia del cimitero del Vajont[19], di fatto strappato alle famiglie e spersonalizzato, è un emblema di quanto violenta possa essere questa dinamica.
La verità giudiziaria è indubbiamente importante, anche per la memoria, ma, oltre al fatto che spesso non arriva a causa delle prescrizioni e delle ostruzioni, non è tutto. Laddove la verità giudiziaria mette un punto e chiude le vicende, quella sociale apre, serve a ripartire cambiando. Pensiamo al caso della “Commissione per la verità e la riconciliazione” in Sud Africa: per superare il trauma e le violenze dell’apartheid non bastava una giustizia punitiva, ma occorreva che le vittime fossero al centro dei processi e della ricostruzione della verità; non la voce del giudice ma delle persone. Al di là della complessità e dei risultati di quell’esperienza di giustizia riparativa[20], la cosa qui importante è che lo Stato, in un meccanismo del genere, è disposto a cedere parte del suo potere sovrano affinché sia la società a stabilire una “verità condivisa” essenziale per ripartire. Come ricordano le esperienze delle stragi italiani, le condanne dei singoli non sono tutto, perché “le persone passano, ma il meccanismo resta”, come dicono le associazioni dei familiari delle vittime.
La lotta di queste associazioni diventa ancora più significativa perché non si ferma alla “punizione dei colpevoli”, bensì punta allo svelamento di un sistema che produce morte e alla necessità di un cambiamento dei suoi presupposti, affinché domani non si producano gli stessi effetti.
Cosa succederebbe se domani lo Stato ammettesse realmente che Amatrice, Viareggio, Genova, Vajont, Livorno, Casalecchio di Reno, l’amianto, il PFAS e tutte le altre storie rispondono ad una stessa logica politicamente consentita, quando non stabilita? Non si tratta di banalizzare e appiattire differenze e complessità, piuttosto di essere in grado di far emergere le somiglianze strutturali di queste esperienze.
Una società sostenibile è una società inclusiva, e per includere c’è bisogno di un minimo sfondo di “verità comune”. La storia dell’Italia contemporanea è anche quella del “capitalismo dei disastri”[21] e quella di queste stragi: la loro verità, lungi dall’essere un verdetto giudiziario, può essere il punto di partenza per una società diversa. Le stragi di “Stato-mercato” non rappresentano il passato, bensì il futuro: così come il Vajont era in qualche modo il futuro di Viareggio e questo il futuro del ponte Morandi, e così via. Cominciare a dare loro il giusto peso sociale, politico e culturale, significa cominciare a lavorare per un futuro radicalmente diverso.
Mario Sanna col suo sciopero della fame non sta chiedendo una giustizia personale che punti a risarcire il danno non risarcibile che può essere la morte di un figlio. Mario fa luce sulla verità che la maggior parte di noi non vuole vedere e mette in gioco la sua vita per qualcosa che riguarda tuttә. Si rivolta affinché tuttә noi possiamo essere.
Note:
[2] Si veda Albert Camus, Mi rivolto, dunque siamo. Scritti politici, Elèuthera, 2008 e Albert Camus, L’uomo in rivolta, Bompiani, 1994.
[3] Si veda il report annuale di Legambiente Stop sussidi ambientalmente dannosi, sul sito dell’associazione. Questi sussidi non solo rallentano la necessaria transizione all’utilizzo di fonti energetiche rinnovabili e meno inquinanti, ma continuano a sostenere attività obsolete e inutili, oltre a supportare aziende che continuano, incredibilmente, ad aumentare i loro profitti.
[4] Albert Camus, L’uomo in rivolta, Bompiani, 1994, p. 26.
[5] Si veda https://comune-info.net/morire-di-profitto-n9i-ottobre/
[6] Antonello Petrillo, a cura di, Il silenzio della polvere. Capitale, verità e morte in una storia meridionale di amianto, Mimesis, Milano-Udine, 2015, pp. 161-162.
[7] Si veda Mara Benadusi, Antropologia dei disastri. Ricerca, attivismo, applicazione, Antropologia pubblica, 1 (1/2), 2015 e Pietro Saitta, a cura di, Fukushima, Concordia e altri disastri, Editpress, Firenze, 2015
[8] Il termine intende definire la nostra epoca, in cui l’essere umano, con le sue attività successive alla rivoluzione industriale, è riuscito a modificare i processi climatici e geologici. Nel dibattito si propongono anche i termini di Capitalocene (usato da Moore per indicare che non tutte le società hanno questa responsabilità, ma solo quelle a funzionamento industriale-economico capitalista) o Piantagionocene (avanzato da Haraway per indicare il modello economico-politico coloniale e schiavista come elemento centrale del processo di sfruttamento estrattivista).
[9] Didier Fassin, Cinque tesi per un’antropologia medica critica, Rivista della Società italiana si antropologia medica / 37, aprile 2014
[10] L’antropologia ha spesso studiato le comunità umane e le dinamiche sociali a partire da uno spaesamento iniziale del ricercatore. Classicamente questo spaesamento era rappresentato dallo stretto rapporto con mondi e società molto diverse da quella di appartenenza, che richiedevano un’osservazione in grado di non dare nulla per scontato. In questo senso, le stragi rappresentano uno sconvolgimento radicale di ciò che pensiamo essere la nostra società e perciò sono in grado di far emergere dinamiche importanti – spesso nascoste – del funzionamento sociale e politico del nostro mondo.
[11] Ulrich Beck (1986), La società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci, Roma, 2000
[12] Si veda https://www.oxfamitalia.org/guadagni-azionisti-big-pharma-bastano-a-vaccinare-africa/ consultato il 5/12/2021
[13] Marco Ruotolo, Diritto alla sicurezza e sicurezza dei diritti, intervento al convegno “Costituzione e sicurezza tra diritto e società, Roma, 2013
[14] Salvatore Palidda, a cura di, Resistenze ai disastri sanitari, ambientali ed economici nel Mediterraneo, DeriveApprodi, Roma, 2018
[15] Anna L. Tsing (2015), Il fungo alla fine del mondo. La possibilità di vivere nelle rovine del capitalismo, Keller, Rovereto, 2021
[16] Umberto Allegretti, a cura di, Democrazia partecipativa: esperienze e prospettive in Italia e in Europa, Firenze University press, Firenze, 2010
[17] Paul Farmer, An anthropology of structural violence, “Current Anthropology”, University of Chicago press, 2004
[18] John Foot, Fratture d’Italia, Rizzoli, Milano, 2009
[19] Si veda il documentario di Lucia Vastano e Maura Crudeli “I Vajont”, 2016.
[20] Marta Vignola, Processare la Storia. Diritto alla memoria e narrazione nella giustizia di transizione, Funes. Journal of narratives and social sciences, Vol.1 / n. 2, anno 2017
[21] Naomi Klein, Shock economy. L’ascesa del capitalismo dei disastri, Rizzoli, Milano, 2007.
Carlo Perazzo è antropologo, insegna storia e filosofia e lavora nelle cure palliative. Si occupa di violenza strutturale, ecologia e antropologia della morte. Ha scritto Quale rifugio? Razzismo di Stato e accoglienza in Italia, Sensibili alle foglie 2022 e In comune. Nessi per un’antropologia ecologica, Castelvecchi, 2023. Questo articolo riprende spunti e temi già esposti nella postfazione al libro di Lucia Vastano, Papaveri rossi. Noi, vittime del profitto, di prossima ripubblicazione.