Se la vita vale. Paradossi della modernità e resistenze umane da Danilo Dolci a Mario Sanna – di Carlo Perazzo

Se la vita vale. Paradossi della modernità e resistenze umane da Danilo Dolci a Mario Sanna – di Carlo Perazzo

14 Gennaio 2022 Off di Francesco Biagi

(Questo articolo è dedicato a Mario Sanna, alla sua famiglia e suo figlio Filippo, morto a 22 anni nel terremoto di Amatrice. Mario da anni combatte in modo non-violento per le ingiustizie legate a quella storia, una tipica storia italiana, in cui i familiari vengono abbandonati da uno Stato colpevole. Se, a detta dello stesso Commissario Straordinario Farabollini, un terremoto di grado 6.2 non può far crollare così le case, significa che lo Stato non ha fatto ciò che sapeva e che doveva fare. L’anno scorso, con uno sciopero della fame, Mario ha ottenuto che la discriminazione tra “proprietari” e “inquilini” terremotati fosse superata, creando un precedente fondamentale e vincendo una battaglia di giustizia di cui tutti noi oggi e nel futuro potremo beneficiare. Oggi sta scioperando nuovamente perché nuovamente la politica è sorda alle richieste di giustizia di cui si fa portavoce. Invitando tutti a seguire i canali media di Mario Sanna per comprendere la sua battaglia e sostenerla ( https://www.facebook.com/ilsorrisodifilippo/ https://www.facebook.com/solocontrolostato https://www.youtube.com/channel/UCOSVg1tZRQTq9c2pHBn5B-Q ), queste pagine rappresentano il tentativo di dire che questa storia va ben oltre il terremoto di Amatrice e la tragedia di quei morti, e si inserisce in un processo di produzione di morte che l’ipermodernità capitalista porta avanti in modo sempre più violento. Mario ci apre gli occhi su tutti coloro che quotidianamente vengono sacrificati in nome di un profitto diventato più importante dei diritti che la nostra Costituzione sancisce).

 

Lucciole, malgrado tutto

Stanno scomparendo le lucciole.

L’intuizione tragica e poetica, ecologica e politica che Pasolini pubblicava il primo febbraio del 1975, viene confermata da uno studio pubblicato sulla rivista Bioscience il 2 febbraio 2020, esattamente 45 anni dopo. È interessante che, oltre ai pesticidi, all’inquinamento delle acque e all’urbanizzazione delle campagne, una delle cause principali di questa estinzione sia l’inquinamento luminoso: le luci, i riflettori onnipresenti del mondo moderno, confondono gli insetti che non riescono più a comunicare tra loro con quell’ incantevole “lucciolare”. Ecco un primo punto: i fari dell’ipermodernità abbagliano, confondendo e impedendo la comunicazione.

Pasolini stava avvertendo i suoi contemporanei del nuovo fascismo, subdolo eppure altrettanto  pericoloso: il totalitarismo del mercato, del consumo, dell’industrializzazione e della macchinizzazione della vita, dell’apparire, della perdita dei corpi e delle differenze culturali.

Oggi è difficile dire che Pasolini si sbagliava, che quello – e questo – è, effettivamente, il migliore dei mondi possibili. Le violenze e le ineguaglianze che lo percorrono aumentano dappertutto, nel “sud” come nel “nord” del mondo. Tuttavia è possibile fare un passo in più, come suggerisce Didi-Huberman nel suo Come le lucciole, cercando di delineare “una politica delle sopravvivenze”:

 

«un conto è puntare il dito contro la macchina totalitaria, un altro accordarle così rapidamente una vittoria definitiva e senza riserve. Il mondo è davvero così asservito come lo hanno sognato – come lo progettano, lo programmano o vogliono imporcelo – i nostri attuali “consiglieri fraudolenti”? Postulare una cosa del genere significa, appunto, dar credito a ciò che la loro macchina vuol farci credere. Significa vedere solo il buio fitto o la luce accecante dei riflettori. […] Significa vedere solo il tutto. Non vedere dunque lo spazio – magari interstiziale, intermittente, nomade, collocato in maniera improbabile – delle aperture, dei possibili, dei bagliori, dei malgrado tutto»[1].

 

Ecco un secondo punto: per non accordare questa vittoria alla “macchina” noi abbiamo il dovere di cercare e stare al fianco dei “malgrado tutto”, in carne e ossa.

 

Il paradosso del capitalismo democratico: vedere la violenza

Sin dalla sua origine, il capitalismo è paradossale. La dinamica è chiara: affinché questo tipo di economia (e politica) possa sussistere sono necessarie continue fasi di accumulazione di capitale[2] che diano carburante alla macchina; tuttavia queste sono caratterizzate da processi di una violenza inaudita. Le enclosures dell’Inghilterra del XVIII secolo che privarono i piccoli coltivatori delle terre a favore dei grandi proprietari e crearono quella grande massa di proletari necessaria a riempire le nuove fabbriche; l’enorme quantità di ricchezza razziata ai danni dei popoli indigeni sterminati durante le varie fasi coloniali; il surplus garantito dalla forza lavoro tenuta in condizioni di schiavitù; la stessa compravendita di schiavi; le varie forme attuali di espropriazione delle terre (landgrabbing) e di destabilizzazione politica nei paesi più fragili; lo smantellamento dello stato sociale anche nelle democrazie occidentali che si pensavano “salve” dai costi di funzionamento della macchina capitalista.

Il paradosso sta nell’aver promesso – ma soprattutto nel continuare a farlo – benessere, progresso, diritti, eguaglianza, dignità, mentre si produceva arbitrariamente – e si produce – morte. Purtroppo non si tratta di riflessioni teoriche, ma delle vite e di decine di migliaia di morti migranti nel Mediterraneo, di quelli nelle famose “guerre democratiche” a caccia di petrolio, dei morti quotidiani sul lavoro per il risparmio sulla sicurezza, di quelli per l’inquinamento che crea profitto, di quelli per la fame mentre l’1% più ricco detiene più del doppio della ricchezza del resto del mondo, di quei morti sotto le macerie di case costruite e non messe in sicurezza per risparmio che i terremoti italiani hanno sbriciolato come grissini. Il paradosso si fa tragedia e ci impone di guardare le migliaia di vittime del “profitto ad ogni costo”.

 

L’importanza (selettiva) della vita

Oggi il paradosso tragico è ancora più evidente: mentre portano avanti un’economia politica produttrice di morte, i maggiori Stati mondiali si narrano come condottieri di una guerra a difesa della vita. Ma la vita non è un “giochino” che si può chiamare in causa quando fa comodo, né qualcosa di ristretto a particolari gruppi.

La domanda tanto fondamentale quanto semplice è la seguente: è importante la vita di chi e, soprattutto, quando?

Era importante la vita degli abitanti di Longarone (1917 morti), il paese sotto la diga del Vajont, quando professionisti e abitanti ribadivano che quel monte franava (non a caso si chiama Toc) e che costruire lì sarebbe stato estremamente rischioso? Era importante la vita di chi passava sul ponte Morandi crollato per ridurre i costi di manutenzione e garantire più profitti? È importante la vita delle donne afgane che muoiono di freddo ai confini di un’Europa che non le accoglie mentre scappano da un paese devastato dall’Occidente? È importante la vita un ragazzo di 22 anni che muore, assieme ad altre centinaia di persone, sotto le macerie di una casa che non doveva essere – e poteva non essere – costruita così? Ed è importante la vita di suo padre, che per ottenere giustizia intraprende uno sciopero della fame a oltranza chiedendo “solo” che i familiari delle vittime di un terremoto devastante abbiano un minimo di aiuti statali, mentre i miliardi per una lentissima ricostruzione non li sfiora nemmeno e i politici si sprecano in passerelle e promesse tradite?

 

La legge di chi? Danilo Dolci 1952-1956

Nell’ottobre del 1952 il sociologo e poeta Danilo Dolci, in uno sperduto e poverissimo borgo della Sicilia, assiste un bambino che dopo poco muore di fame. Decide così di cominciare uno sciopero della fame affinché la politica esca dalla sua bolla di vetro e supporti quei cittadini, come a dire: “se lo Stato permette che dei bambini muoiano di fame, allora lasciate morire anche me”. Nella lettera di annuncio dello sciopero scrive: «Da oggi non mangerò più finché non ci saranno arrivati i trenta milioni necessari a provvedere subito il lavoro ai più bisognosi e l’assistenza più urgente agli inabili»[3]. Il gesto è forte e ha risonanza. Dolci firma la lettera scrivendo “vostro in Dio”, e per la Democrazia Cristiana di allora è difficile non intervenire. Dopo otto giorni di sciopero arriva la comunicazione dello stanziamento dei fondi.

Quella per Trappeto – così si chiamava il borgo siciliano – fu la prima di una serie di lotte non-violente di Dolci. Nonostante gli esiti alterni, persone di grande fama politica e morale lo appoggeranno (Carlo Levi, Norberto Bobbio, il padre costituente Piero Calamandrei) rendendo le sue battaglie delle questioni nazionali.

Celebre divenne il processo a Dolci del 1956, arrestato per aver organizzato una sorta di “sciopero al contrario”: dato che lo Stato non interveniva per contrastare la disoccupazione e la povertà degli abitanti della zona, nonostante l’evidente necessità di lavori pubblici sul territorio, Dolci guida una squadra di “operai” per ricostruire volontariamente una strada comunale degradata; le forze dell’ordine intervengono e lo arrestano insieme ad alcuni suoi compagni per “istigazione a disobbedire alle leggi”, “invasione dei terreni” e “oltraggio a pubblico ufficiale”. Nell’intervento in tribunale in difesa degli accusati, Calamandrei pone l’accento su una questione che chiama nuovamente in causa la paradossalità:

 

«La nostra Costituzione è piena di queste grandi parole preannunziatrici del futuro: “pari dignità sociale”; “rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana”; “Repubblica fondata sul lavoro”; “Diritto al lavoro”; “condizioni che rendano effettivo questo diritto; assicurata ad ogni lavoratore e alla sua famiglia “un’esistenza libera e dignitosa”… Grandi promesse che penetrano nei cuori e li allargano, e che una volta intese non si possono più ritirare. Come potete voi pensare che i derelitti che hanno avuto queste promesse, e che vi hanno creduto e che chi si sono attaccati come naufraghi alla tavola di salvezza, possono ora essere condannati come delinquenti solo perché chiedono, civilmente senza far male nessuno, che queste promesse siano adempiute come la legge comanda? Signori Giudici, che cosa vuol dire libertà, che cosa vuol dire democrazia? Vuol dire prima di tutto fiducia del popolo nelle sue leggi: che il popolo senta le leggi dello Stato come le sue leggi, come scaturite dalla sua coscienza, non come imposte dall’alto»[4].

 

L’importanza della vita, della giustizia, della dignità, non può essere proclamata come valore costituente e poi essere applicata o sospesa arbitrariamente. Si dirà che era il 1956, che di strada ne è stata fatta e che le cose sono cambiate. Ma purtroppo non è così.

 

Mario e Filippo Sanna 2016-2022

Da diversi giorni c’è un uomo, padre di tre figli, che nella sua casa, con i mezzi di comunicazione a sua disposizione, ha cominciato uno sciopero della fame ad oltranza, proprio come Dolci settanta anni fa. Il contesto è diverso, ma la dinamiche sono le stesse: uno dei figli di Mario, Filippo, è morto a 22 anni, nel 2016, schiacciato dalle macerie di una casa che non era a norma antisismica, a seguito del terremoto di Amatrice. Nonostante gli innumerevoli terremoti italiani, nonostante le vittime, lo Stato non ha ancora stabilito che la messa in sicurezza del Paese sia un intervento necessario per “un’esistenza libera e dignitosa”, come da Costituzione. Ma purtroppo non è tutto qui, non è solo la mancata prevenzione (ormai un miraggio nell’epoca della “resilienza di programma”: impara a sopravvivere perché nessuno lavora per ridurre i rischi!). Sono l’umiliazione del dopo e l’abbandono, paradossali di fronte alle passerelle, ai cordogli di Stato e alle parole di vicinanza ai familiari delle vittime cantate da tutti i governi uno dietro l’altro.

Oggi Mario sciopera, mettendo a rischio se stesso, con l’unica cosa che gli rimane per farsi ascoltare: la propria vita e il proprio corpo. I riflettori di questo mondo abbagliano e rompono la comunicazione, come per le lucciole: i cittadini parlano, provano a farsi ascoltare, fanno proposte ragionevoli, proteste pacifiche, ma i decisori non recepiscono, non ascoltano, non sostengono nessun dialogo. Siamo nell’epoca dei decreti emergenziali a pioggia e senza discussione, degli “esperti” e dei “competenti”, figuriamoci se è possibile ascoltare i cittadini, le vittime. Mario sciopera perché per l’ennesima volta la promessa di istituzione di un fondo economico statale per i familiari delle vittime dei terremoti de L’Aquila (2009) e Amatrice (2016) non è stata mantenuta. Anche il celebratissimo Draghi, nonostante l’impegno pubblico preso stingendogli la mano, l’ha tradita. Sono passati più di cinque anni e ai familiari delle vittime di tutti i miliardi stanziati – tra l’altro per una ricostruzione che ha ritardi mostruosi – non è arrivato nulla. La deduzione è semplice e inevitabile: le cose valgono più delle persone.

Il punto è lo stesso della storia di Dolci: queste tragedie non devono essere perché c’è, concreta ed evidente, la possibilità affinché non siano. E se questa possibilità sussiste, se la Costituzione vale qualcosa e non è un pezzo di carta, allora la priorità è intervenire. Qualcuno chiamerà in causa la famosa “scarsità”: “non ci sono le risorse per tutto”. E invece no, non c’è nemmeno bisogno di nascondersi dietro la scarsità ormai: lo stesso governo che ha bocciato la richiesta di un fondo per i terremotati (40 milioni di euro) ha inserito nella stessa legge un bonus tv e decoder da 68 milioni di euro, ha raggiunto il record di spese militari superando i 25 miliardi di euro (+20% rispetto agli ultimi tre anni)[5] e non ha intaccato i 19 miliardi di sostegno alle attività inquinanti. Dunque? L’importanza (selettiva) della vita.

 

E se domani…

Cosa chiede Mario Sanna? Forse molte cose. Certamente giustizia per il proprio figlio morto ingiustamente a 22 anni; e poi che i familiari delle vittime non vengano abbandonati dallo Stato, che lo Stato rispetti la Costituzione. Ma forse anche qualcos’altro. Forse chiede, tra le righe del suo gesto, che ci si renda conto del “divenire negro del mondo”. Questa espressione, coniata dal filosofo camerunense Achille Mbembe

 

«sintetizza il fatto che la globalizzazione neoliberale produce l’effetto di estendere progressivamente la “condizione negra a chi negro non è”. […] Del resto, la “produzione di Negri” ha accompagnato l’intero corso della civiltà capitalistica»[6].

 

Non si tratta solo di produrre sempre nuovi “schiavi” con la precarizzazione del lavoro o il movimento dei flussi migratori, ma di produrre anche continuamente nuovi “sacrificabili”: chi si ammala per gli sversamenti tossici di un’azienda nel Veneto; chi muore nel mare per scappare dalla fame; chi muore su un ponte non manutentato; chi rimane schiacciato da un tetto che doveva essere reso sicuro.

 

Ieri Dolci, oggi Sanna, sono quelle lucciole che noi cittadini, incontrandone la storia, non possiamo non provare a sostenere in ogni modo, finanche, per chi ha il coraggio, accompagnandoli nel loro gesto di sciopero. Quando, per dirla con Calamandrei, il “popolo sente le leggi esclusivamente scaturite dall’alto”, quando non esiste dialogo e restano solo la retorica e le passerelle, e quando chi non ascolta parallelamente si vanta di lavorare a difesa della vita e della democrazia, forse il gesto più rivoluzionario è mettere veramente la propria vita nelle mani di questi “decisori politici”: spetta a loro, nel 2022, di assumersi la responsabilità di sacrificare un uomo che chiede una cosa di una ovvietà e di una giustizia così evidenti da essere disarmanti; spetta a loro scegliere di continuare a calpestare il dolore di chi chiede “solo” buon senso e dignità. Certo, se Mario non fosse solo, se esistessero ancora i Calamandrei, se la comunicazione non fosse un caos dietro al mercato del click…

Eppure la lucciola di Mario sta brillando proprio adesso ed è quasi ovvio che se domani non fosse solo lui a brillare, ma fossimo in 20, in 40, in 100 a far lo sciopero della fame al suo fianco, forse il “decisore” dall’alto della sua torre d’avorio non potrebbe continuare a far finta di nulla. Scriveva Dolci in Banditi a Partinico: «Tra noi c’è un mondo di condannati a morte da noi»[7].

Mandela non aveva dubbi, come Dolci, come Gandhi, come Mario forse: “un ideale (concreto) per cui vale la pena morire”. Esiste ancora questa possibilità di essere umani?

 

Note: 

[1]Georges Didi-Huberman, Come le lucciole. Per una politica delle sopravvivenze, Bollati Boringhieri, Torino, 2010, pp. 27-28.

[2]Si veda Karl Marx, Il capitale, libro I (1867), Torino, Einaudi, 1975 e Sandro Mezzadra, Attualità della preistoria. Per una rilettura del capitolo 24 del primo libro del Capitale, «La cosiddetta accumulazione originaria», in La condizione postcoloniale. Storia e politica nel presente globale, Verona, ombre corte, 2008.

 

[3] In  Antonio Vigilante, Digiunare contro la fame: Danilo Dolci a Trappeto, in Parolechiave, 1/2011, p. 139.

[4]Piero Calamandrei, In difesa di Danilo Dolci, in “Quaderni di “Nuova Repubblica””, 4, 1956, p. 15, anche in “Il Ponte”,XII, 4, aprile 1956, pp. 529-544 e in Processo all’art. 4,”Testimonianze”, 8, pp. 291-316. Testo stenografico dell’arringa pronunciata il 30 marzo 1956 dinanzi al Tribunale penale di Palermo.

[5]Si veda https://www.milex.org/2021/11/19/nel-2022-spese-militari-oltre-i-25-miliardi-piu-di-82-per-nuove-armi/

[6]Alessandro Simoncini, Sul «divenire negro del mondo». Nanorazzismo, ragione negra ed etica del passante nel pensiero di Achille Mbembe, in Altraparola, Noi e l’altro, 5/2021, p. 9.

[7]Danilo Dolci, Banditi a Partinico, Laterza, Bari 1955, p. 20, in Antonio Vigilante, Digiunare contro la fame: Danilo Dolci a Trappeto, in Parolechiave, 1/2011.