LA VITA CHE DURA (SECONDA PARTE) – di PIER NICOLA MARASCO 

LA VITA CHE DURA (SECONDA PARTE) – di PIER NICOLA MARASCO 

17 Febbraio 2021 Off di Francesco Biagi

di PIER NICOLA MARASCO

 

Conclusa la lettura del capitolo, le riflessioni che ho raccolto in proposito[1] mi impongono due considerazioni: la prima ha origine nella curiosa constatazione, che, dopo un breve cenno al mito di Titone, Hillman, pur così sempre interessato a “lavorare” i miti, non abbia “sfruttato” un mito che nella propria narrativa ha fatto delle vecchiaia il tema principale. La seconda nasce dall’avermi la lettura del capitolo fatto tornare alla mente cosa sulla vecchiaia ha lasciato scritto Amery nel suo “Rivolta e rassegnazione. Sull’invecchiare”. E grande è stato il mio interesse sia a indagare il mito, nell’intento di scoprirvi “spunti”, suggestioni utili a “lavorare” il tema della vecchiaia, sia a chiarire l’immediato e inatteso accostamento di Hillman a Amery.

Sviluppo la prima considerazione suggerita dalla figura di Titone.

Lo si appelli Titone o, in un modo più consono alla grafia greca, Titono, chiunque consulti un dizionario mitologico trova il suo nome citato nel mito di Eos, di cui Titone è il co-protagonista. La sua storia intreccia quella di Eos, la dea dell’alba, che i greci chiamavano anche emera, il giorno: la luce che giorno dopo giorno nasce e rinasce nella gioiosa veste d’una fanciulla fiorente e sorridente, la cui immagine è in Occidente inseparabile dalla nota locuzione di Omero che, per effetto della calda luminosità che l’alba regala al cielo, al mare e alla terra, l’appellò “dea dalle rosee dita“. A me è sempre riuscita gradita la felice espressione omerica che fa del giorno che nasce una delicata carezza: perché, col citare le dita della dea, evoca una sensorialità diffusa, che, oltre che tattile, si fa anche acustica e restituisce la dea del giorno che sorge nelle vesti di una suonatrice di arpa; col supporre che le dita si “ammantino” di rosa, Omero restituisce l’aurora nella specie di un’onda di profumo che inonda il giorno nascente. L’alba non è solo una sensazione cromatica, una luce dorata, è anche vibrazione sonora che si trascina appresso un’onda di profumo. Della stessa Eos, infatti, più del racconto mitico ricordavo Omero, le dita rosa della dea, le sensazioni di cui ho parlato; meno ancora ricordavo di Titono che, a stare alla mia memoria, era del mito una semplice comparsa. Ma, lo stesso mito riconsiderando in nome della vecchiaia, devo ravvedermi: Titono è un coprotagonista, una figura senza la quale la storia che il mito di Eos racconta non avrebbe senso.

La mattiniera fanciulla si tramanda fosse moglie di Astreo e sua infedele consorte, persa dietro a numerosi amanti, vuoi umani, vuoi “olimpici”: a partire dallo stesso Zeus- da cui avrebbe avuto Ersa, la figlia che, quale rugiada ogni mattina con la madre dà il saluto al sole -, per finire con Ares. Fu proprio la relazione col dio della guerra a imprimere alla vita di Eos una direzione obbligata e per niente facile. Infatti, Afrodite, indignata perché Eos aveva tentato Ares con successo, punì la rivale in amore col condannarla ad innamorarsi di continuo di comuni mortali e a sopportare le conseguenze, spesso tragiche che comporta ogni relazione asimmetrica, come naturalmente è quella tra gli umani e i “divini”. Rientra nel lungo elenco delle avventure amorose della dea con i mortali anche la relazione con Titone.

Un giorno, nel quale passeggiava nei pressi di Troia la dea sorprese un fanciullo di straordinaria bellezza: non per nulla era di sangue reale, figlio di re Laomedonte e fratello di quel Podarce, che diverrà re di Troia e passerà alla storia col nome di Priamo. Vedere Titone e invaghirsi fu tutt’uno. Decisa a far suo il giovane,dopo averlo rapito, si adoperò a convincere padre Zeus a rendere immortale l’amato. Zeus concesse quanto gli era stato richiesto e la relazione con Titono prese all’inizio una piega favorevole e dagli amplessi dei due amanti nacquero due figli, che, nonostante l’immortalità concessa al padre, mortali erano nati e mortali restavano: Emazione e Memnone. Legandosi ad un uomo immortale Eos aveva sperato di salvaguardare da ogni genere di perdita e di sofferenza il proprio mondo affettivo. Si era sbagliata. Accadde, una prima volta, che il figlio Memnone, nel prendere parte alla guerra di Troia, incappasse nel “prode” Achille e che il Pelide lo uccidesse. Eos si ritrovò a piangere il figlio perduto: ad ogni alba le sue lacrime bagnano di rugiada il giorno che nasce (seconda versione delle origini della rugiada). In seguito, il destino del figlio non rimase l’unica fonte dei dolori della dea. Se il trascorrere del tempo non minacciava la vita dell’immortale Titone, di fatto il tempo che corre ne piegava e piagava il corpo, al quale giorno dopo giorno sottraeva forze ed energie. Eos era stata una “sprovveduta”, non c’è dubbio; tuttavia, riflettendo sulle decisioni che Eos aveva preso, credo di comprenderla e in qualche maniera  giustificarla: è veramente improbabile che coloro che vivono nelle nuvole dell’eternità, riescano a pensare ai cosiddetti “mortali” nella loro complessa e radicale diversità e non si lascino tentare dal ridurre la distanza che li distingue dai mortali ad una semplice e banale contrapposizione: eternità contro mortalità. Eos non era in grado di anticipare che i figli avuti da un uomo, per quanto reso immortale, avrebbero condiviso i geni paterni e sarebbero nati mortali; come le era impossibile rappresentarsi che del mondo umano, al quale l’amato apparteneva, non è peculiare il solo morire, ma anche quell’invecchiare, che alle divinità non è concesso. La morte è limite estremo che racchiude in sé, sintetizza ed esprime i tanti altri limiti che fanno mortale una vita: il non potere tutto quel che si vuole, il non aver chiaro nemmeno quel che si vuole, la necessità, per conoscere perfino i propri bisogni, dell’aiuto di altri, che a noi si accostano. Accadde così che l‘immortalità richiesta, che al tempo della sua concessione era apparsa un privilegio – il godimento dell’eternità -, col tempo si risolse nella condanna a un inarrestabile deperimento dell’amato.

A leggere Apollodoro (Bibliotheca), Titone, sempre più rugoso per l’eterna vecchiaia – un ossimoro: la vecchiaia eterna – una ruga oggi, una grinza domani si ritrovò trasformato in grillo. Secondo altre versioni, fu la stessa Eos, che, vedendo l’amato invecchiare oltre le misure che sono dei “mortali” – fosse impietosita o inquietata – implorò Zeus ed ottenne che Titone fosse mutato in cicala. Strano racconto da cui si esce con l’idea che morire è meglio che invecchiare “oltre misura”. A me ha fatto piacere rivisitare il mito e la figura di Titone, del cui apparentamento al testo di Hillman fatico a trovare ragione. Eppure, sono tanto convinto della loro eventuale consonanza e delle mie prime impressioni da non riuscire ad evitare di metterle per iscritto, anche se riesco solo a dire che mi attraggono la tragedia che il mito racconta e le metamorfosi che il tempo ha imposto a Titone. Queste ultime mi si associano ai ruoli che spesso i vecchi recitano: o di “grillo” – come non pensare alla figura di “grillo parlante” che i vecchi incarnano -, o a quello di “cicala”, di chi passa il tempo a frinire, “cicaleggiare”. Ma qualcosa di altro, ben più rilevante il mito mi significa: le metamorfosi alle quali va incontro il vecchio Titone mi sollecitano l’idea che nella vecchiaia la vita personale “si disimpersona”, per così se dire, si “disincarna” dall’io di questo o quel mortale e accosta quel genere di vita generale, indefinita e sprecisa – sorta di “nuda vita” -, che sempre vita è sia della cicala come del grillo, e che benefico è al vecchio ammettere e ad essa sintonizzarsi.

D’altro canto, il mito m’induce a riflettere sul mondo degli “immortali” e a considerare che gli dei son detti “eterni” non per sopravvivere all’infinito al corso del tempo, ma per essere “fuori dal tempo”, come lo sono da ogni “luogo”: essi vivono – ma il genere di esistenza che conducono merita il nome di vita? – in una dimensione che non conosce che il presente, anzi, più esattamente, nemmeno l’attimo che segnala il transito dal passato al futuro: vivono in atto, per così dire. In ciò risiede la radicale e abissale distanza che rende incomprensibili tra loro le dimensioni degli “immortali” e quelle dei “mortali”, come i greci si denominavano; agli “uomini”, come oggi ci definiamo, caduti che sono nel tempo, il presente è sempre ambigua commistione tra quanto lo precede, un passato che è stato, e ciò che lo segue, il futuro che sarà.

Ora credo di capire il cenno che Hillman ha fatto a Titone (solo lamento, non avendolo esplicitato, d’avermi imposto la fatica di rintracciarlo). Il tempo, misurato per convenzione sulle scansioni temporali di passato, presente e futuro, e su di esse “oggettivato”, ha comunque per l’uomo inevitabili tonalità soggettive: quello presente, ad esempio, non è a lui, per la sua naturale costituzione, mai simile a se stesso. Per di più è diverso anche secondo le età della vita: un presente, che nell’infanzia è quel che è nella sua totale apertura verso il futuro; nella maturità è impastato e confuso tra i progetti posti in programma a sovrapporsi al passato, realizzati o meno che siano; nella vecchiaia, quando inaccessibili sono i progetti a lungo termine e difficile è addossare al futuro un qualche impegno, il domani resta “vuoto”. Si incarica di colmare quel vuoto la memoria. Da qui la domanda, che è poi quella a cui Hillman ha cercato di dare risposta: è possibile vivere la vecchiaia quale condizione di vita che, lasciandoci liberi da qual si voglia aspirazione o compito o progetto, permette di vivere i momenti del presente nella pienezza che ad essi restituiscono gli attimi trascorsi?

Ho già ricordato come alcune parole di Hillman mi abbiano riportato alla mente la figura di Amery – autore di “Rivolta e rassegnazione. Sull’invecchiare” – e suggerito una qualche prossimità tra le idee di vecchiaia dell’uno e dell’altro autore. Anche per Amèry la vecchiaia si connota per la percezione di un’assenza di futuro: Amery denomina perdita della speranza la limitazione delle esperienze che sono rese possibili da vivaci immagini di futuro, di quel tempo «che apre un mondo di possibilità».

Améry fu un intellettuale austriaco, che, nato a Vienna nel 1912 da famiglia ebrea, convinto dalla lettura che a 23 anni ne fece che le Leggi di Norimberga equivalessero ad una sentenza di morte estesa a tutti gli ebrei, non ebbe esitazione, quando i nazisti nel 1938 annessero l’Austria prendere la strada dell’esilio. La sua fu una scelta radicale: lasciò casa e patria, rinnegò la lingua natia (da allora scrisse in francese) e modificò il proprio cognome, per assumere quello con cui oggi è noto, che è l’anagramma francesizzato dell’originario Hans Mayer. In Rivolta e rassegnazione Améry pone al centro della propria riflessione sulla vecchiaia il ricordo d’un episodio, nel quale si scoprì coinvolto, quando trascinava la propria esistenza lungo il presente indefinito di chi vive esule, senza arte né parte: «Mi rivedo con in tasca quindici marchi e cinquanta pfennig, smarrito nella fila degli aspiranti al sussidio, accovacciato nel vagone della tradotta, mi rivedo mentre scucchiaio la zuppa da una lattina. Non ero in grado di definirmi con precisione, perché mi erano stati confiscati passato e origine, perché non vivevo in una casa, ma nella baracca numero tal dei tali, perché avevo anche un secondo nome, Israel, che non mi avevano dato i miei genitori ma un tale di nome Globke. Non era una buona cosa». Tuttavia, il giovane esule ebbe la forza di “tirare avanti”, rendendosi conto che la forza, che gli era stata necessaria per resistere, risiedeva nella possibilità di “guardare avanti”: «Io ero, se non un passato e un presente decifrabili, in ogni caso un futuro». Per guardare e “tirare avanti” fu indispensabile ad Améry disporre di un’idea di futuro, per quanto vaga e improbabile: fosse anche l’idea banale diun operaio a New York, un colono in Australia, uno scrittore di lingua francese a Parigi, un clochard che sul lungosenna se la spassa con una bottiglia di acquavite”.

Amery chiama in giuoco la identità propria, e suppone che essa, per come si dà negli attimi del presente, non solo scaturisce da un intreccio tra il presente, che il soggetto attraversa, e il passato che è stato, ma che in questo intreccio si incunei un’idea di futuro. Il sentimento di identità prende spessore da come tra loro si innestano motivi che si radicano in quel che sono, motivi che traggono origine in quel che sono stato e altri che appartengono alla dimensione della speranza: a quel che sarò. L’identità personale, in altre parole, si nutre sempre degli obiettivi che il soggetto persegue, di quel tanto che, sovrapponendosi a quel che è stato ed è, potrà ancora essere. A queste considerazioni Améry approda grazie al ripensamento di vari episodi della propria vita e, riflettendovi su, anticipa cosa ne sarà di lui in tarda età, immagina lo stato d’animo che in lui prevarrà.

Al contrario di quanto avviene nella giovinezza, nel vecchio «… i domani e dopodomani non posseggono più né forza né certezza. È solo ciò che è. L’avvenire non lo circonda più e quindi non è più nemmeno in lui». Il pensiero di Améry è riassunto in due frasi: «La vecchiaia ci rende in misura crescente dipendenti dal ricordare. Se ripenso ai primi anni dell’esilio, mi rendo conto che già allora sentivo nostalgia di casa e del passato, ma ricordo anche che la nostalgia era in una certa misura annullata dalla speranza. Chi è giovane concede a se stesso quel credito illimitato che di norma gli è concesso anche dall’ambiente. Egli non è solo quello che è, ma anche quello che sarà ….(e) chi invecchia esaurisce il proprio credito». Perduta la possibilità di «richiamarsi a un divenire», quando quel che “sono ora” non subirà l’influenza di un “sarò domani”, il vecchio si trova esposto al mondo come quel “nudo Essereche è!

Una nudità d’essere, quella che l’età avanzata restituisce al vecchio, che, considerata in se stessa, appare condizione insopportabile, motivo di esclusiva e sconfinata tristezza. Se non fosse – Améry aggiunge a conforto – che il vecchio può «tuttavia … sussistere se, equilibrato in questo Essere nudo [orfano di futuro e a malapena rivestito da un presente indefinito], esiste un “Essere stato”». Ovvero, se tra le mani del vecchio, «il cui Essere è privo di futuro», rimane la possibilità di «un Essere stato non sconfessato socialmente».

In questa affermazione riscontro una seconda ragione di vicinanza al pensiero di Hillman: non di identità, certo, ma di prossimità, sì. L’equilibrio, in cui Améry spera, il vecchio lo raggiunge e mantiene se si riconosce in un passato svincolato da ogni qualificazione sociale. Non in un passato, dunque, che trae valore da quel che ognuno ha realizzato di quanto di buono e di efficace vien detto che debba essere fatto; non in una rievocazione di quel che è stato, sorretta da motivi di rimpianto personale o di disdoro sociale per quel che non si è riusciti a realizzare. Ma in un’identità che si riconosce in quello che, realizzato o meno, trova comunque comprensione. Améry, ad esempio, dopo essersi calato nella parte di un vecchio, finge di rivolgere ad un interlocutore le seguenti parole: «Accetti la dimensione del mio passato, altrimenti sarei fortemente incompleto. Non è vero, o non è del tutto vero, che l’uomo è solo ciò che ha realizzato … E’ stata un’esistenza meschina? Forse …(ma) le mie potenzialità di allora sono parte di me quanto il mio successivo fallimento».

È evidente come Améry, nel tentativo di descrivere l’impercettibile e spietato processo di decadimento che è l’invecchiare e di individuarne l’eventuale specificità, vi riesca sorretto dall’intuizione di ripensare termini come “spazio” e “tempo” entro una rinnovata prospettiva: ovvero, abbandonata l’idea di uno spazio definito sia da quanto mi è stato consegnato dalle relazioni sociali in cui sono nato e cresciuto, sia da quanto mi è stato assegnato in nome dei valori dominanti, considera lo spazio in termini di spazio di vita. Mi spiego: spazio da intendere nel senso di complesso dei singoli ambiti nei quali la vita si è dispiegata, e immaginando che la vita trovi la propria affermazione, giustificazione e gratificazione in un’unica constatazione: nel solo fatto di essere stata e d’essere stata vissuta nei “qui” e nei “là”, dove si è svolta, in maniera indipendente dal grado di risonanza ricevuto e di affermazione sociale acquisita.

Parimenti, per quanto riguarda il tempo, si ha da cessare di intenderlo quale successione continua di frammenti temporali che l’orologio registra – linea alla cui continuità provvedono singoli istanti di tempo, uno dietro l’altro -, e cessare di fare di questo tempo lo “strumento di misura” dell’arco della vita, col quale “misurare” quanto rimane a disposizione per la realizzazione di un progetto o di un compito e “contare” quel poco che all’anziano resta. E’ necessario, al contrario, dare al tempo il volto del tempo speso a vivere. Parlare di “nuda vita” significa considerare la vita svincolata da ogni valore aggiunto e in essa riconoscere, prima di ogni altro, il valore che le è originariamente proprio. Allora in ogni spazio in cui la vita è scivolata ha messo propaggini, e ogni tempo speso a conservarla sono spazi e tempi benedetti, e poco senso ha chiedersi se si poteva fare di più e di meglio. Tanto meno senso ha ogni confronto tra la propria e la vita altrui, e poco anche interrogarsi su quale delle due appaia più benevola dell’altra, fortunata, realizzata o meno. Comparazioni del genere mantengono in sé un minimo di senso solo se approdano al riconoscimento del carattere peculiare che l’esistenza ha trovato in ognuno di noi.

Questo di significativo trovo in Améry e questo ho premura di sottolineare: se è sconsiderato ritenere che l’uomo sia “solo ciò che ha realizzato” e prendiamo in considerazione, come giusto e opportuno, quello di cui un vecchio ha bisogno, osserviamo che il riconoscimento delle tante e belle cose compiute è meno importante dell’accettazione, sia da parte sua che dell’ambiente che lo circonda, dell’intero proprio passato, come Améry ha supposto che un vecchio richieda a chi lo incontri: “Accetti la dimensione del mio passato, altrimenti sarei fortemente incompleto”. Sono parte di me le mie potenzialità sia che siano state trascurate, addirittura negate, sia che, messe in luce, siano rimaste bruciate in eventuali fallimenti. La “compiutezza umana” non è più identificata con una piena realizzazione di ogni potenzialità personale – ho realizzato tutto quello che ero in grado di fare -, ma assunta nel significato di avere espresso e in me riconosciuto – positivo e negativo che sia – “quanto” è entrato a far parte della mia esistenza, quel “tanto quanto” del quale dire con Améry: «In lui ho trovato un rifugio, vivo in pace».

Più chiara mi si rende la supposta prossimità al discorso di Hillman, largamente confermata tra l’altro dalle seguenti parole di Amery: «Nella vita di ogni essere umano esiste un punto del tempo ….. in cui egli scopre di essere solo ciò che è. D’un tratto si rende conto che il mondo non gli fa più credito di un futuro, non accetta più di considerarlo per ciò che potrebbe essere. All’immagine che si fa di lui, neppure la società sovrappone più le possibilità che egli credeva gli fossero ancora concesse. Scopre di essere – non per giudizio proprio, ma come immagine speculare dello sguardo degli altri – un individuo senza possibilità»

Nel metter per iscritto i suddetti ragionamenti – siano di Hillman o di Améry, o siano miei – vengo tuttavia preso alle spalle da un altro procedimento di pensieri che accosta ulteriormente Hillman ad Améry, della cui biografia, a render conto delle nuove riflessioni, si rende necessario un approfondimento.

Améry rimase a soli quattro anni orfano del padre, un ebreo deceduto durante la Grande Guerra, e crebbe nella fede della madre che era di credo cattolico. Turbato dal testo delle cosiddette Leggi di Norimberga, delle quali non gli erano sfuggiti i significati e gli esiti futuri, l’anno in cui Germania nazista annesse l’Austria, abbandonò la patria e le strade dell’esilio lo portarono in Francia e in Belgio. Avvertì traumatico sia ritrovarsi, per quanto non fosse un ebreo praticante, condannato solo per le sue origini familiari ebraiche – si definirà “ebreo contro sua volontà” -, sia essere destinato all’esilio dalla condotta dei suoi compatrioti austriaci. “Volevo essere anti-nazista, sicuramente, ma di mia libera scelta” fu il suo commento, a segnalare che le deliberazioni prese erano state meno il frutto di un libera scelta quanto imposizioni di cui era stato vittima da parte sia dell’ideologia nazista, sia della condotta di coloro, che, senza opposizione, subirono l’annessione della patria al nazismo. Ma questo fu solo l’inizio di vicende ancora più drammatiche: costretto ad entrare nel ruolo di perenne ricercato e a schierarsi nelle file della resistenza antinazista, in entrambi i paesi in cui aveva trovato riparo, nel 1943 fu catturato dai nazisti. La Gestapo lo torturò in maniera brutale prima di spedirlo in quanto ebreo ad Auschwitz, dove ebbe inizio un periodo di internamento di quasi due anni. Riuscì a sopravvivere ad Auschwitz, dove, privo di abilità professionali, venne utilizzato in lavori pesanti, prima di esser trasferito da Buchenwald l’anno successivo a Bergen-Belsen, dove l’esercito britannico gli rese la libertà nell’aprile del 1945.

Esilio, latitanza, tortura e internamento furono le esperienze attorno alle quali ruotò non solo la sua esistenza, che si concluse a 66 anni con un suicidio (1978), ma la sua stessa sua attività intellettuale, la quale ha preso forma e corpo attorno all’idea che le sue personali esperienze fossero solo le punte di un iceberg, l’esito scontato di una condizione storica sociale, culturale e politica. Questo è il motivo centrale dell’altro famoso scritto di Améry, Intellettuale a Auschwitz. Completò l’elenco delle tristi drammatiche sue vicende la tortura, che Amery subì e durante la quale toccò con mano, nei dolori sofferti e nelle piaghe inflitte, «la violazione del confine del mio Io da parte dell’altro, violazione che non può essere neutralizzata dalla speranza di soccorso, né corretta difendendosi». Non sei in grado di difenderti da solo, né puoi sperare in alcuno aiuto che un altro ti porga, e ti trovi esposto a una volontà estranea e senza volto. Ma questa condizione è solo caratteristica della tortura? Non è la stessa che pesa sui corpi di chi sopravvive in un lager? Ma sopita, negata, il più delle volte appena sussurrata, la percezione della violazione del confine del mio Io da parte dell’altro e i sentimenti che le sono compagni affiora di continuo in alcune nelle circostanze della vita di tutti. In Intellettuale ad Auschwitz Améry, infatti, dopo aver messo in evidenza la peculiare inferiorità nella quale si sono venuti a trovare gli intellettuali – per la loro inadeguatezza alla dimensione fisica alla quale è stata ridotta la vita, e non meno per la formazione culturale, che li ha indotti a porre in primo piano nell’esperienza vissuta l’aspetto di “annientamento della morale” –, espone i propri dubbi riguardo ai «valori che non hanno saputo dominare il bruto corso degli eventi», e si interroga «sulla debolezza della morale stessa dinanzi alla realtà». Il suo libro non è solo la descrizione dettagliata di cosa sia la vita in un lager, restituita da un testimone diretto; è qualcosa di più, è una sorta di catasto delle mille e cento sconfitte dell’umanità, la testimonianza di quella che Améry definisce precarietà dello spirito, ovvero, dell’insufficienza di quella dimensione alla quale si danno i nomi di coscienza, di capacità di capire e comprendere, di cui siamo così fieri, di cultura – di quella cultura di cui meniamo vanto, ma che si è liquefatta di fronte al nazismo -, della stessa moralità. L’etica, in nome della quale il nazismo era stato ed è ancora criticato, di fatto, non solo non è stata in grado di batterlo – e la storia sta lì a dimostrarlo –, ma non è stato capace nemmeno di combatterlo. Améry si viene così a situare tra coloro che di fronte a tanto strazio, si sono posti, oltre la più immediata e frequente domanda di dove mai fosse Dio e oltre le riflessioni che una domanda del genere suscita, tra coloro che hanno preferito la domanda: “Ma dov’era l’Uomo?” Scelto di interrogarsi dove mai fosse, cosa restasse di quell’immagine di Uomo su cui da tanto tempo tanto si era discusso e argomentato, Améry riflette e giunge a convincersi che nessuno può ritenersi del tutto estraneo a vicende la cui sequenza ha portato al lager e del lager ha scandito la vita, né a tutte quelle che ne anticiparono l’istituzione. Di tali vicende tutti, in qualche modo, sono stati e sono partecipi e, pur in diverso grado, ne portano le responsabilità. Lo è chi, pur non avendovi preso direttamente parte, ha ideato e sorretto siffatte mostruosità. Né sono estranei quei tedeschi che col loro voto permisero a Hitler di vincere un turno elettorale, né i compatrioti austriaci che non hanno opposto resistenza all’annessione della loro patria; non possono negare la loro responsabilità coloro che di fronte al dilagare dell’ideologia nazista, per ignoranza, pigrizia o “quieto vivere” non ne hanno previsto i più che prevedibili esiti; non è meno responsabile quel variegato universo di persone, che, alcune con disinvoltura, altri con disinteresse, altri per obbedienza a ordini superiori (nel senso di disposizioni dettate da superiori) hanno contribuito allo sterminio; e sono responsabili i «semplici e sereni soldati nazisti» che sottoposero Améry alla tortura, e coloro che hanno guardato e ascoltato – quanti e per quanto tempo lo hanno fatto – le parole di Hitler, senza vedere ed udire; come dimenticare «quei tedeschi che, dai carri bestiame della nostra tradotta, avevano visto scaricare e accatastare su una stretta banchina innumerevoli cadaveri, senza che sui loro volti impietriti fosse apparsa una sola espressione di orrore». Ma a questa negazione dell’Umanità hanno a loro modo partecipato – pare assurdo, ma non ad Améry, e a qualcuno sembrerà forse impietoso e crudele sottolinearlo , – coloro che si erano ritrovati ammassati nel lager: tra chi si era arreso e ad altro non pensava se non ad uscire dall’inferno morendo prima possibile e coloro che cercavano di sopravvivere ignorando o negando quanto accadeva non solo a loro dintorno e ai compagni di sventura, ma anche a loro stessi, subendo in silenzio l’essere trattati da schiavi, prestandosi da mano d’opera gratuita utilizzata per sostenere lo sforzo bellico nazista. Chi in circostanze simili ha trovato, mostrato le capacità di mantenersi all’altezza del tanto decantato “Homo sapiens”? Cosa è rimasto in piedi dell’autodeterminazione, ad esempio, del “libero arbitrio” e dei tanti valori morali ai quali ognuno di loro era stato “educato” e che ancora oggi ad ognuno di noi vengono impartiti? Le risposte che si danno a tali interrogativi giustificano la posizione che Améry prenderà di fronte a quel costume che oggi passa sotto il nome di “giorno della memoria”. Sembra ai più, di fronte ad atteggiamenti negazionisti, che basti “ricordare”. Ma ricordare espone al rischio di limitarsi a “commemorare” e a rendere il giorno della memoria un accadimento retorico, in cui e con cui si riaffermano principi civili e morali che in ogni lager sono stati violati e che – questo, invece, va ricordato – non sono stati capaci di far argine al nazismo. Per Améry il riuscire a non dimenticare cosa sia successo non è garanzia che quanto accaduto non si ripeta.

Sintetizzo in questa maniera il suo pensiero: è necessario fare del giorno della memoria il giorno del risentimento, accedere a quella tipologia di memoria che Améry chiamerà risentimento: memoria che non si limita a ri/memorare i fatti trascorsi, ma – assieme a sé trascinando gli stati d’animo e le sensazioni che necessariamente accompagnarono i “fatti” e che ancora ne accompagnano il ricordo – di “ri/sentire” (ecco la proposta di Améry!) sentire di nuovo cosa può aver provato chi è stato internato, cosa è restato del suo corpo e del suo spirito. Dunque, il risentimento che Améry propone non è da intendersi rappresentato dalla voce di chi vittima un tempo, oggi esige vendetta; non è nemmeno la manifestazione di uno stato di animo astioso, che da altri si attende una riparazione di esperienze subite in quanto vittima: in esperienze del genere chi vittima è stato di prepotenze altrui vittima rimane ancora del proprio stato di animo rancoroso e vendicativo. Il risentimento, di cui parla Améry, è una disposizione d’animo ambivalente e alla cui costituzione concorre più di un’istanza, certamente le due in sé contrapposte che contribuiscono al titolo del libro: “rivolta” e “rassegnazione”. Certo, ha a che vedere con qualcosa che “si risente”, di cui si riavverte il dolore. Memoria non tanto dolorosa, quanto “dolente”; nella quale quanto si ri/prova è così intenso da indurre il soggetto a intraprendere un’attività reattiva che non si esprime nella voce di una generica protesta o di rivalsa, tanto meno di vendetta, ma di rivolta, piuttosto, quale “legittimo moto di rivolta contro l’ingiustizia”, che nel lessico di Améry significa protesta contro la condizione di disumanità vissuta. La vittima si misura non solo e non tanto con l’avvenimento che lo ha “disumanizzato”, ma con la propria disumanità, di cui si assume l’intera responsabilità, e, per quanto faticoso e doloroso sia, il suo riconoscimento sradica il soggetto dal ruolo di vittima. Né la invocata rassegnazione ha più il significato che abitualmente le riconosciamo di disposizione ad accettare senza reagire una avvenimento sventurato e doloroso: non può esser questo il suo significato, una volta ammesso che faccia seguito alla “rivolta”. Quel che si tratta di accettare non è il fatto accaduto – e, caso mai ammesso come frammento di un più largo contesto di atti antecedenti e susseguenti -, ma l’esperienza personale stessa dell’accadimento, e non perché sia giusto o meno accettarla, o perché l’accettazione sia necessaria al fine di un adattamento, ma in quanto costitutiva della propria esistenza.

Interessante trovo l’intuizione che, attraversato il complicato intreccio delle nozioni di “rivolta” e di “rassegnazione”, intravede nell’ambivalenza del risentimento il segno della natura di “legno torto” dell’uomo e nella «stortura», opportunamente rivendicata, la «impalcatura di una revisione morale dell’uomo»: l‘orizzonte di un’etica non più esclusivamente «modellata a misura della Nobiltà e del Decoro dell’Uomo».

 

Note: 

[1] Ci si riferisce alla prima parte di questo saggio, pubblicata nel sito di Altraparola. E’ possibile leggerla cliccando qui.

 

Bibliografia

Améry, Intellettuale a Auschwitz, Bollati Boringhieri, 2008.
Améry ,Rivolta e rassegnazione. Sull’invecchiare, Bollati Boringhieri, 2013.
Apollodoro, Bibliotheca, III, 12, 3–4, Adelphi, 1995.
Esiodo, Teogonia, 225, BUR Biblioteca Univ. Rizzoli, 1986.
Igino, Miti, Prologo, Adelphi, 2000.
Hillman, La forza del carattere, Adelphi, 1999.
C. G. Jung, Lettere in Esperienza e mistero, Bollati Boringhieri, 2019.