LA GEOMETRIA E IL CAOS. SU LA VITA IN TEMPO DI PACE  DI FRANCESCO PECORARO – DI MARIO PEZZELLA

LA GEOMETRIA E IL CAOS. SU LA VITA IN TEMPO DI PACE DI FRANCESCO PECORARO – DI MARIO PEZZELLA

30 Aprile 2025 Off di Francesco Biagi

 

Ivo Brandani, il protagonista della Vita in tempo di pace[1], non si sente minacciato da un’apocalisse verticale, da un trauma improvviso e violento (anche se forse ha torto nell’escludere del tutto una simile possibilità): la guerra gli sembra un oggetto desueto della memoria, un racconto di Padre (sempre segnato con la maiuscola). Tempo di pace: espressione ironica per indicare una traumaticità sotterranea, continua, poco visibile, che corrode dall’interno l’ordine simbolico, preparando il suo intimo crollo, durata catastrofica protratta, dilazione indefinita ma certo non sempiterna, Reale dissolutivo che scardina le porte della coscienza: «Mi perderò l’Apocalisse, anche se probabilmente sarà un evento a sfumare, non traumatico, uno spegnimento lento, con anestesia… Come non vi fu un Inizio netto, così anche la Fine sarà probabilmente lunghissima…» (148). Come per il volo aereo, metafora dell’ipermodernità tutta in cui siamo, «esiste solo un disastro continuamente evitato in una sequenza di rinvii…» (493).

Eppure Brandani si ostina nel ricordo, quasi a riparazione di questo trauma cumulativo, nella lotta contro l’oblio e l’irreversibile desuetudine di ogni aspetto del mondo, della sua stessa giovinezza ed infanzia: nel romanzo ripercorre a ritroso il suo tempo perduto, rievoca il dolore e le speranze tradite, la mancanza che è al fondo della sua vita, salvandoli però dal nulla in cui sarebbero destinati a cadere. Memoria di molte miserie e di pochi trionfi, che al di là della sua biografia personale diviene storia interiore di una generazione e delle sue immagini collettive, ricordo che ha comunque un valore di riparazione, se ritrova le paure e le passioni ed anche i fallimenti di ciò che è scomparso.

Per Brandani gli oggetti hanno una durata d’uso brevissima, addirittura – nel caso di alcune merci – essa si consuma nell’attimo stesso del loro apparire. Nella nostra ipermodernità le discariche divengono il deposito archeologico dell’epoca, «veri e propri depositi culturali». Se analizzassimo le merci ora desuete degli anni Cinquanta potremmo farci un’idea molto attendibile di «com’era fatto quel mondo», ne saggeremmo lo stato d’animo, e le tonalità affettive dominanti. In realtà questi oggetti, come la loro epoca, sono dimenticati, destino che del resto è comune, «è così, è l’oblio di massa, ogni cosa, ogni persona, viene dimenticata, persa, è solo questione di tempo» (85). Brandani ha visione della storia dominata dal divenir nulla, dalla pulsione di morte, nichilismo radicale, che si esprime fin dalle prime righe del romanzo[2]:

 

«Ivo Brandani era perseguitato dal senso della catastrofe. La vedeva in ogni iniziativa di trasformazione della realtà, in ogni edificio (che può crollare), in un aereo in volo (che può precipitare), in un’automobile in corsa (che può sbandare), in una presa di corrente (che può andare in corto), in una pentola sui fornelli (rischio di incendio), in un bicchiere d’acqua (che può rovesciarsi), in un uovo fresco (che può rompersi): tutto ciò che sta in piedi può cadere, tutto ciò che funziona può smettere di farlo. Anzi, prima o poi avrebbe smesso di farlo, questo era sicuro» (9).

 

Un duplice lavoro memoriale e quasi una continua elaborazione del lutto è all’opera nel romanzo: da un lato la rievocazione della vita e di tutti gli oggetti da cui eravamo attorniati come fossero divenuti rifiuto: ma al medesimo tempo ciò che è scomparso viene sottratto all’oblio e diviene funzione simbolica, espressione di un’epoca, dei suoi stati d’animo, e sia pure nella forma della denegazione, che nell’atto stesso di negare e disprezzare carica l’oggetto perduto di una energia emotiva forse più intensa di quella che possedeva originariamente. Gli oggetti desueti possono essere molto umili e tuttavia divenire significanti, e sono spesso citati in lunghe serie enumerative:

 

«Che fine ha fatto la maggior parte degli oggetti che ho posseduto? Le forbici? E le matite? Tutte le mie matite, dove sono adesso?… Esiste forse un cimitero delle matite nascosto da qualche parte? Esistono forse sentieri segreti lungo i quali si incamminano gli oggetti stanchi di esistere, vergognosi della loro obsolescenza? Le forbici che si sentono superate lasciano il nostro mondo incamminandosi lungo questi sentieri? Che fine hanno fatto i martelli che hanno accompagnato la mia vita?» (309).

 

Lo stile enumerativo accentua la perdita di specificità e la mancanza di funzionalità degli oggetti desueti: che non sono solo quelli d’uso materiale, ma anche quelli interni, i sentimenti e i ricordi di Brandani, anche le differenti epoche della sua vita, come «l’Estate eterna e magnifica» nella Città di mare o nell’isola greca, ora dissolta dall’avvelenamento del mare, dall’iperturismo, dalla falsificazione artificiale della natura, eppure indelebile nella memoria.

Emblema riassuntivo di tutti gli oggetti desueti è il Cesso Dismesso (411), in cima alle cataste di rifiuti, non solo perché esprime con estrema espressività il decadimento nel tempo, ma perché in generale gli oggetti desueti oltre che con la morte hanno relazione con le feci: «L’immagine del ca­davere appartiene sì ovviamente a un’esperienza umana uni­versale; ma non per questo necessariamente all’esperienza infantile…L’ambivalenza più anti­ca dal punto di vista dell’individuo è piuttosto quella svelata da Freud nel rapporto della prima infanzia con gli escremen­ti, il quale comincia dalla nascita»[3]. Dalla sua relazione terrificante col padre edipico, di cui diremo, Brandani è costantemente esposto a regredire verso questo stadio più arcaico, preedipico, che condiziona il suo modo di sentire.

È la sua stessa corporeità ad apparirgli come qualcosa di ripugnante, invasa da vermi e parassiti, irriducibile all’astratta incorporea e geometrica purezza che sarebbe per lui l’ideale dell’Io, la figura di una vita finalmente liberata dal nome del padre e dalla dipendenza da esso. Il corpo gli appare in effetti come un’incessante corruzione e produzione di melma: «L’odore, per lui orrido, della merda… sale fino alle sue narici spinto dall’alito caldo emesso dalle sue stesse feci» (453), lo schifo diventa nientemeno che un’accusa contro Dio, creatore di impure e improprie contaminazioni, in puro stile sadico-sadiano: «Bisognerebbe chiederlo al Roveto Ardente: Che bisogno c’era di creare la merda? Non si poteva farne a meno? Cos’è? Un effetto collaterale inevitabile? E di cosa? Della vita? Sei onnipotente, puoi creare qualsiasi cosa ti venga in mente e ti viene in mente la merda? Che razza di dio sei?» (453).

Del resto le feci sono il luogo di coltura dell’altra metafora ossessiva frequentissima nel romanzo, quella del parassita, in primo luogo quello biologico, ma che poi si dilata a figura storica, a indicare addirittura il senso riposto di un’epoca: «Che schifo, non sono io il responsabile, sono i batteri simbionti, quelli che mi vivono dentro, nella pancia… Miliardi di esistenze parassitarie, tranquille, senza problemi, che mi aiutano a trasformare in merda tutto quello che mangio. Sono loro che producono questo puzzo» (453).

La merda è per Brandani la prova maestra dell’inesistenza di Dio, la causa di una ribellione quasi superomistica contro la legge della natura, il retropensiero che lo spinge a esaltare per contrasto un ordine antinaturale, pur riconoscendosi un emulo molto più debole e fallimentare del marchese De Sade: «Il sapiens è tale solo se è faber, cioè solo in quanto fabbricatore di ciò che ci serve per vivere contro-natura» (299). Se questa è l’attitudine di Brandani, la sua “menzogna romantica”, il romanzo ci conduce passo dopo passo a scoprirne il fallimento, la hybris che si ritorce contro di lui, non del tutto consapevole del suo odio ribelle e della propria distruttività. Se nella regressione al sadismo regressivo sembra sfociare il trauma personale di Brandani, esso però diviene lo specchio dell’ipermodernità, la griglia con cui il protagonista non legge solo la sua vita, ma quella del collettivo in cui è stato immerso: dall’infanzia subito dopo la seconda guerra mondiale ai primi decenni del XXI secolo. Rivolta contro il Padre Dio, che si conclude non nell’elaborazione di un nuovo ordine simbolico, ma nel risentimento, nella regressione e nella scomposizione di sé. Le metafore ossessive del romanzo (gli oggetti desueti e intesi nel loro sottofondo più arcaico, nel loro nesso con la morte) si elevano nondimeno a rappresentazione di un ordine simbolico in disfacimento e che tuttavia si ostina a vivere: il capitale è una produzione di morte vivente, di esseri non vivi e non morti: l’insistenza sul desueto e sul decadimento è uno stato d’animo epocale, di cui Brandani è testimone e vittima.

La desuetudine e la ripulsa non investono soltanto le merci disusate o i parassiti sociali e biologici, ma anche il corpo e il nucleo più intimo dell’Io, che si scompone in una serie di membra dalla vitalità autonoma e inquietante.

 

«lo sfibrarsi degli sfinteri, l’ingarbugliarsi dei circuiti mentali, l’opacizzarsi delle cornee, il comparire di quei lampi e di quei grumi volanti di qualcosa, alcuni così neri che sembrano mosche, il disseccarsi delle retine sul fondo degli occhi, l’inaridimento della pelle…lo sfiancarsi degli intestini in innumerevoli diverticoli, l’indebolirsi della pompa, il rinsecchirsi dei polmoni, la stanchezza dello stomaco, del fegato, del pancreas, la flaccidità del sacco scrotale, l’inerzia irreversibile del pisello….» (465-466)[4].

 

Questo è solo un estratto di una lunghissima enumerazione di arti deteriorati, organi interni malandati, sessualità avvizzite, codice enumerativo che – come abbiamo visto – è tipico degli oggetti desueti qualora diventino tema letterario e che qui però si estende in modo perturbante al corpo, che soffre l’intollerabile per lui vecchiaia inaccettabile e il declino sessuale. Da questo punto di vista gli oggetti desueti esterni sono il correlativo oggettivo o la metafora ossessiva dello stesso essere di Brandani[5].

È l’essere della merce che dopo essersi elevata ad effimero e seduttivo splendore, oggetto petit a del desiderio manipolato e feticista, ricade nella scomposizione dell’amorfo: il corpo umano, all’inizio dell’epoca moderna celebrato come specchio del macrocosmo, diviene esso stesso merce, destinato alla stessa riproducibilità e consunzione, e così può diventare il correlativo oggettivo di una automobile e non – si badi – l’inverso, che sarebbe più usuale: «Le commessure lesionate del teschio, come i giunti di una vecchia automobile, perderanno liquido, che uscirà dalle orecchie…» (500).

 

Nota sul Prologo

L’inizio è fatto per stupire. Cosa c’entra la caduta di Costantinopoli con quello che segue? Si tratta forse di un romanzo storico? Ma il dubbio si cancella presto. Siamo di fronte a un terribile conte philosophique, un Candide più feroce dell’originale. Il racconto scandisce una progressione precisa. Dapprima c’è la storia, la catastrofe dell’evento, la fine inspiegabile di una civiltà millenaria; ma questa non è che apparenza. Già gli invasori sono paragonati a parassiti, che invadono e distruggono il corpo della Città. Poi come al microcoscopio si procede ad esaminare il sempre più piccolo, fino all’invisibile, ed ecco che l’evento storico perde autonomo significato, il parassita invasore segue la stessa logica sopraffattoria di quello biologico, del microcorpo distruttivo che porta ogni uomo al disfacimento e alla morte. Dio non c’è, per Brandani: ma anche questa è solo una conclusione provvisoria. Esiste un cattivo demiurgo, un motore immobile spietato, un dio oscuro che governa il mondo, e contro cui lui si leva in una sadiana e sconfortata rivolta, di fronte a questo Male freddo e inesorabile, estraneo all’umano, indifferente al nostro esistere, un Dio criminale. Ma il male è opera degli dèi o dell’uomo? La devastazione del pianeta sembrerebbe il frutto di scelte devastanti, la corruzione della Città sembra dipendere più dai delegati del potere in terra, che dal trascendente. Brandani oscillerà in tutto il romanzo tra la tendenza a ricondurre il male della storia a natura e quella che vede la natura distorta dalla storia malfatta dagli uomini. Talora sembrano la stessa cosa; ma allora come spiegare la continua furiosa invettiva contro i responsabili del degrado e della falsificazione del mondo? Perché il nichilista Brandani pare anche rimpiangere che agli uomini non riesca di unirsi per fronteggiare il serpeggiare del Male. Non c’è soluzione per il suo enigma, c’è solo la sua esposizione. Ma a me sembra che nel romanzo il male storico occupi una parte importante ed autonoma di contro a quello antropologico, e che a differenza di questo sia soggetto a un durissimo sdegno morale. In fondo non dipende da un’ameba la caduta di Costantinopoli (metafora generale di una civiltà in declino e certo della nostra) ma da una porta lasciata aperta da un traditore, o dalla negligenza che non ha fatto rafforzare le mura. Gli eventi sono necessari o aperti a possibili diversi? Sono produttori di novità o ripetono il sempre uguale? Si può resistere a un destino epocale che porta a massacrare altri uomini, ci si può rifiutare di farlo? Quand’anche non servisse degli eventi ad alterare il corso.

Ci si può chiedere se il darwinismo nichilista di Brandani coincida con quello dell’autore, che pure ha sostenuto un modo di pensare analogo in una intervista[6], assumendoselo in proprio. Io credo che la logica narrativa abbia una sua autonomia, e sia – quando è valida – una intersezione complessa e talora conflittuale tra quella simmetrica dell’inconscio e quella asimmetrica dell’ideologia e del pensiero dell’autore, dove l’inconscio oltre che personale è quello del collettivo, captato e portato ad espressione. Si tratta di una logica mimetica superiore o quanto meno diversa rispetto a quella della coscienza intellettuale. Si può apprezzare il romanzo come espressione dello stato d’animo di un’epoca, senza necessariamente condividere l’ideologia dell’autore. Ad esempio Viaggio al termine della notte di Celine ci rivela la costellazione immaginaria dominante dopo la prima guerra mondiale: ma forse che Bardamu è Celine? O forse che ci identifichiamo senza riserve con lui? Nella Vita in tempo di pace il darwinismo biologico-sociale si rivela come parte ineliminabile del capitalismo e della modernità e questo comprendiamo. Dobbiamo per questo accettarlo? Questa domanda non riguarda il romanzo ma il pensiero dell’autore, che richiede se mai un discorso a parte.

L’ultimo lavoro ingegneristico di Brandani è la costruzione di una finta barriera corallina, per sostituire quella vera, distrutta dalle malattie dell’ecosistema e dallo spietato overtourism. Siamo nello stadio in cui la natura è sostituita da un Falso Vero, che «viene mantenuto in vita artificialmente non ostante sia già virtualmente morto ad ogni significato, come sta accadendo a questi luoghi…» (117); «Il mondo è oramai un parco a tema… una surrealtà globale, dove tutto è immagine di un originale scomparso» (142), immagine dello spettacolo, come aveva diagnosticato Debord, ornamento estetizzante del vuoto. Canali di Venezia, Battisteri di Firenze, cupole di Roma: in effetti già non esistono più, se non come copie di se stessi, l’ultima traccia del dolore o della speranza o anche dell’avidità che li fece nascere è svanita nel nulla. Ne resta il simulacro ridotto a esposizione museale morta[7].

Di fronte al destino storico, che gli sottrae i luoghi che ha amato e distrugge perfino i ricordi della sua infanzia e della sua giovinezza, con un soprassalto di adirato nichilismo Brandani prefigura uno stadio di artificializzazione ancora più estrema, «transitando dal naturale al post-naturale» (140-141), in cui il desiderio erotico è ormai stimolato solo da protesi, dall’ipertetta e dall’iperculo, «che mettono fuori mercato, assieme a ogni curvatura spontanea della carne, l’idea stessa di donna naturale… E già questo è post-natura…» (144). Questa radicale postnaturalità sostituirà il Falso Vero con il Falso Falso, in cui si perderà qualsiasi nozione residua di verità e tutto sarà glacialmente perfetto e arbitrario: «Il falso-falso è onestamente l’unica strada…» (117). L’annientamento antropologico deve tuttavia ancora compiere il suo lavoro, il Capitale ha bisogno di durare per ridurre interamente il vivente a immagine della sua astrazione reale: «Non farò in tempo a vedere il mondo uscire da questo stadio di verità inautentica per rigenerarsi nella finzione completa, nell’artificio totale: mi è toccato di vivere nell’era intermedia della degradazione…» (148).

L’antinatura è anche un’antistoria, perché l’ideale di un essere immoto è un’utopia di negazione totalitaria del mutamento e del divenire, un delirio parmenideo che congela il piano trascorrente della vita. Vorrebbe sottrarla alla morte: ma così irrigidita diventa una non vita non meno che una non morte, un’entità intermedia e fantasmatica. Si gela per paura del fuoco che corrode. Assistiamo in queste pagine a una reversione negativa del mito della tecnica, della vocazione che ha portato Brandani all’ingegneria, all’elogio dei ponti[8], alla esaltazione geometrica contrapposta al caos della natura: la postnatura che segue all’antinatura, sembra infatti un incubo peggiore della crudeltà darwiniana della natura. Insorge così l’altro polo che domina la mente di Brandani, l’irrazionale puro, il rimpianto e la nostalgia della preistoria, di una violenza primordiale, in cui almeno ritornare all’osso delle cose, come se qui ci fosse la cosa stessa, il nucleo incorrotto, benché spietato. È un’illusione anche questa, naturalmente, un mito, come già aveva fatto notare Hegel nella Fenomenologia[9]:

 

«Se tutto ciò che esiste viene distrutto oppure si riduce a messa in scena di se stesso oppure si degrada a rifiuto e monnezza, allora meglio tornare alla preistoria (124)… Scendendo giù all’infinito nel Pozzo del Tempo, dove si aprono sprazzi luminosi di ere immensamente lunghe, silenziose, spietate, completamente dimenticate e cancellate… Lì, a quel tempo, avrei voluto vivere! È questo bisogno di preistoria… Una voglia di semplificazione primordiale del mondo… Vivere nel presente, niente passato, niente futuro…» (500).

 

L’alternativa tra flusso caotico e geometria ordinatrice è in realtà complementarità ed esprime la polarità incessante del capitalismo: da un lato dominio del più astratto e delle sue leggi, che mirano a una completa decorporeizzazione, dall’altro l’impossibilità del controllo razionale e l’esplodere di una competizione violenta e caotica. L’odio per il corpo e l’erezione di una sfera astratta di perfetta purezza rivelano qualcosa dello stato d’animo profondo del collettivo in cui viviamo[10]. Il vivente stesso appare a Brandani come una massa o un flusso che tende al disordine, nato dalla confusione e dall’indecisione, escludendo ogni piano creativo: opporre alla vita una geometria ordinatrice è una disperata utopia, «come pretendiamo che ci sia ordine se viviamo, anzi siamo, cioè che resta di un’esplosione?» (81)

Brandani si dibatte fra gli estremi di contraddizioni per lui irrisolvibili a cui non riuscirà a dare risposta. La prima: è innamorato della natura e del mare, addirittura nei suoi aspetti più preistorici e selvatici, incontaminati dall’uomo, come le profondità marine, ma questa preistoria che lo attrae come vita primordiale lo terrorizza anche come caos onniavvolgente e dissolvente a cui si deve opporre un artificio integrale: che però distrugge proprio quella natura, quel mare, quelle belle estati che lui vorrebbe salvare e rimpiange. D’altra parte la tecnica, la pura geometria, l’ordine sferico e cristallino, la nettezza ingegneristica opposta alla fumosità filosofica, tutto ciò conduce al contrario di ciò che desidererebbe Brandani, e cioè prima al Falso Vero e poi al Falso Falso come unica condizione di vita, all’inautentico artificiale più desolato e antiumano, e l’elogio sarcastico della falsificazione non è che un atto disperato, ben lontano dal risolvere l’antinomia tra caos e forma per lui insuperabile, attratto com’è in pari grado, e lacerato, fra entrambi i poli. Che sofferenza per Brandani «vivere nella privazione dell’ordine geometrico» (403) e nel rimpianto di una genuina, forse belluina “autentica” preistoria, opposta all’inautenticità dell’artificiale!  E non è questa contraddizione lo stigma non solo suo, ma di tutta la modernità?

L’odio di Ivo per il padre coesiste con l’identificazione, crescente con l’età. Brandani non sa nulla dell’evaporazione del padre[11], che caratterizzerebbe le nostre famiglie ipermoderne. È decisamente e, se vogliamo, arcaicamente edipico. Vive certo il momento di transizione degli anni 60, in cui l’autorità del padre viene rifiutata, ma è ancora incombente, eredità del fascismo e del cattolicesimo integralista degli anni Cinquanta[12]. Oltre lo sgretolamento di questa autorità nulla si crea quanto a nuova forma e nuovo ordine simbolico e la ribellione resta confinata nell’ambito di una fantasia immaginaria, «Padre è qui dentro, sotto la mia faccia… Sono solo Maschera di Padre…» (311)[13]. Per descrivere questo osceno ritorno del nome e del volto del padre, non a caso Brandani ricorre al sistema metaforico della contaminazione e del contagio, lo stesso che usa per l’opera disgustosa dei parassiti all’interno del corpo, e in cui culmina pure il racconto della caduta di Costantinopoli, infiltrazione che decompone e rende vano qualsiasi sforzo di ordine e di resistenza al caos; e del resto la morte stessa giunge a Brandani da un germe che si è insinuato sotto la sua pelle:

 

«I padri ritornano sempre, essudano dai nostri pori, si riformano come una pellicola sottile, uno strato sulla pelle, una specie di ologramma fantasmatico che si sovrappone alla nostra persona, che pensavamo autonoma e distinta…contava più l’osmosi quotidiana del contatto, per quanto tu volessi evitarlo, per quanto lo rifuggissi… Era una penetrazione silenziosa, sottile, tremendamente efficace nel modificarti, sempre che ce ne fosse bisogno, sempre che non fosse già tutto scritto nel sangue…» (461-462).

 

Brandani  appartiene alla generazione che diviene giovane negli anni Sessanta, sente non a torto l’autorità dei padri usciti dalla guerra e dal fascismo come istericamente accentuata, in realtà arbitraria, priva di un ordine simbolico di valori che non sia appunto ancora quello larvale del fascismo, con la sua esaltazione della salute fisica, della guerra, della gerarchia geometrica, e però anche sotteso da una caotica violenza inconscia, stato d’animo reso al meglio dal futurismo, che esprime l’impulso autentico del fascismo più dello stile monumentale o del funzionalismo: un passato decomposto di recente, che pretende purtuttavia ancor sempre di imporsi in una sfera mediocrizzata, familiare e privata. Padre è «colui-che-dà-lo-Schiaffo-Forte-Senza-Motivo» (470), schiaffo in cui c’è qualcosa del risentimento e del livore inesplicato del reduce sconfitto, di colui che si è nutrito di fantasmi di potenza ora desueti, degni della discarica in cui finiscono gli oggetti elencati di cui è ricco il romanzo di Pecoraro.  Brandani si sente scisso tra «l’Ivo che ascolta Padre da quello proteso verso Madre» (477). La madre è debolezza accogliente, oggetto di una nostalgia incessante, «Saggezza, Ragionevolezza, Moderazione, Affetto, Protezione» (457).

L’immaginario di Brandani, la sua immagine della felicità e del successo è non molto dissimile da quello del Padre, addirittura il suo amore per il mare, per l’estate, per le isole gli sembra un’eredità del passato, «Brandani figlio sognava, senza saperlo, il già sognato dai padri fascistici, sognava la luce mediterranea delle spiagge… buttarsi in un’Estate eterna e magnifica» (432). Ma più ancora che la passione per il mare, non gli proviene forse da Padre quella per l’ordine geometrico, per la regolarità, il fastidio per la confusione ed il caos, per il pressappoco e l’indeterminato? La lontana e fredda volontà del genitore non è forse trasmigrata nell’Io ideale di Brandani, sia pure mitigata dal suo rifugiarsi nell’accudimento materno? Volontà, che «emanava da un Ente del tutto autonomo, non incline al patteggiamento, duro e freddo, chiuso, impermeabile» (435): o almeno, più esattamente, questa è l’imago, questo il fantasma immaginario, che il figlio porta con sé, poco corrispondente al nevrotico e fragile padre reale, rigido per nascondere la sua debolezza.

La rivolta contro le autorità postfasciste del Sessantotto non ha condotto a buon esito e si è risolta per Brandani nel rientro nell’universo borghese, che si traduce in un rapporto servo-padrone col direttore della sua impresa. «Chi siamo, cosa cazzo siamo diventati? Cosa ci resta da vivere? Quale avventura? Quale vita è possibile senza l’idea di rivoluzione?» (158), si lamenta il del resto poco eroico Brandani, «era diventato esattamente ciò che il Capitale voleva che diventasse» (163)[14]. La sua sudditanza nei confronti di De Klerk non deriva da un dominio ottenuto con la coercizione, tanto meno con la forza: è piuttosto una fascinazione, una manipolazione del desiderio, un trasporto emotivo verso la servitù volontaria. De Klerk incarna e incorpora il suo ideale dell’Io, più astratto e remoto di quello paterno, mentre il dirigente è in realtà un masochista impotente agitato da vergognose pulsioni. Si direbbe che la sua psiche rifletta come uno specchio l’essere universale del capitale, che egli sia una maschera di capitale, oscillante tra freddezza impenetrabile di una legge più che umana, e un caos pulsionale autodistruttivo e incontrollabile.

A Brandani «era bastato incontrare un esempio reale di tutto ciò contro cui gli pareva di aver lottato, il contrario di tutto ciò che gli pareva di essere, per restarne affascinato» (172). Il ’68 si è spento in nuovi target di mercato, nella creazione di un nuovo consumismo, nell’«accettazione piena, senza riserve, dello stato delle cose… Eccoci nel capitalismo compiuto» (230), entro la rivoluzione passiva del berlusconismo: fino all’«inerzia invincibile» a cui Brandani si consegna, amplificando il suo fallimento a dimensione cosmica. La macchina del capitale finisce per coincidere con il motore immobile di Aristotele, studiato da Brandani per la maturità classica, perdendo così ogni specificità storica e concreta e divenendo esso stesso storia naturale, lacerto minerale, statica ripetizione di una materia immodificabile: «Lontanissima, annidata nelle profondità dell’Universo, la Causa Prima, il nero gigantesco Motore Immobile, coperto di grasso, romba sommessamente come fa dall’inizio dei tempi» (372). Sappiamo d’altra parte che per Brandani la natura è piuttosto caos indecifrabile, ed egli deifica e trasfigura il capitale nel dio oscuro degli gnostici, privo di ogni utopia di redenzione. La teologia del capitale gli impone i suoi riti e la sua assolutezza.

Tutte le idiosincrasie, gli odi e gli sdegni di Brandani trovano per così dire una incarnazione metrica, un correlativo oggettivo, nelle forme architettoniche che compaiono nel romanzo, soprattutto quelle di Roma, detestate perché rivelatrici di un sostrato «affamato, torvo, utilitario, base prima del successivo impero… sino all’ultima burinissima ripresa fascistica» (394).

Il barocco romano è quanto di più lontano dall’esigenza di ordine, geometria e funzionalità predilette da Brandani, e ne è emblema il Bernini, tra i principali responsabili della declinazione caotica dello spazio urbano, con la sua «volontà di stupire con la deformazione, quel velo fatto di inimitabile furbizia tecnica a nascondere un vuoto» (420), proprio l’opposto del “ponte” che invece il vuoto dovrebbe superarlo con slancio funzionale; l’estetica del ponte si coniuga infatti all’imperativo etico di congiungere ciò che è separato, mentre l’architettura “romanesca” si diletta di ornamentare la separazione in una divagazione senza costrutto, segnata dal Kitsch.

Gli strati di tempo che i resti di epoche sovrapposte rivelano a Roma, e che sono stati la fonte di uno dei più straordinari passi di Freud sull’inconscio del collettivo addensato nella città, suscitano in Brandani un incontenibile fastidio: «si arrivava ai tessuti morti, alle ossa delle città precedenti, disposte una sopra all’altra, ciascuna a marcare di sé la successiva, senza possibilità di liberazione e riscatto da ciò che era già stato». Il passato pesa come un incubo sul cervello dei viventi, ma ormai alla fine più che pesare è divenuto un evanescente carnevale di «neri feticci a cuocersi sotto lo sguardo inebetito delle masse turistiche» (427).

Nell’odio di Brandani, va detto, c’è ben poco di oggettivo, se la prima guida odiata ai monumenti e le cupole di Roma è il Padre, e dunque l’impero, il potere ecclesiastico, il barocco tutto, si confondono in una espansione materica del detestato o per meglio dire malamato genitore. E proprio come il padre anche la Città è una forza torpida, «una zampaccia» sul cuore, che determina l’anima senza che nemmeno uno se ne accorga. E come per il padre ritorna qui la metafora ossessiva dominante in tutto il romanzo, quella del parassita che si installa in un corpo estraneo per nutrirsene surrettiziamente, impedendogli una vita propria o addirittura provocandone la morte: «La città dove siamo nati, o dove viviamo sin da piccoli, è lei ad abitarci, è lei che ci usa come organismo-ospite per riprodursi, da individuo a individuo, una generazione dopo l’altra, per centinaia e centinaia di anni» (397).

La religione, a sua volta, si è impadronita della città pagana snaturandola, anch’essa agendo come un parassita a propagazione subdola e continua, «con una lunga sequenza di atti chirurgici, espiantandone lentamente gli antichi organi vitali pagani, assoggettandola a un potere insidioso che ti si installa nella coscienza, ne pretende il consenso e si impossessa della tua mente fin da piccolo, come farebbe un ultra-corpo» (398). A questa generale contaminazione si oppone, come abbiamo visto, il sogno accecante di Brandani, destinato al fallimento: «pensare che l’unico vero compito che avremmo, in quanto umani, sarebbe la lotta al caos, la separazione di ciò che indebitamente si mescola, la distinzione di una cosa dall’altra, la ri-formulazione del mondo, la delimitazione, la chiarezza, la geometria, la pulizia, la lucentezza… Insomma l’Ordine…» (497). Brandani è il primo a passare però al polo opposto, fin quasi a considerare l’alterazione tecnica della natura come una distopia angosciosa, che distrugge le sue immagini più care, le estati, il mare, le isole, a cui è legato indissolubilmente il suo sogno di felicità. Esponendo la sua oscillazione tra questi estremi, il romanzo supera il punto di vista che di volta in volta assume il suo protagonista, e ci descrive a nudo lo stato d’animo collettivo nel nostro tardo capitalismo, il suo traumatico vagare tra preistoria e astrazione.

D’altra parte, a differenza degli antichi templi, le forme architettoniche moderne non riescono a diventare rovine dopo la loro distruzione, non conoscono questa sopravvivenza postuma e malinconica, vivono al confine tra la funzionalità e l’annullamento senza residui, non riescono neppure a diventare desuete. Così è accaduto ai grattacieli dell’11 settembre: «Quando collassa un edificio moderno è il massimo della forma che precipita nel massimo dell’informe, nel caos, nello sfasciume più triste e senza vie di mezzo» (78).

 

Commentario

Il romanzo si conclude e la vita di Brandani comincia in prossimità della buca scavata da una bomba vicino alla sua prima casa: è un memento mori, un monito sordo, una desueta memoria d’un inconscio disastro.

Noi ora sappiamo, 2025, che quelle buche possono ridiventare cruente e vicine, di nuovo, che il dimesso trauma cumulativo a cui ci siamo abituati può anche ritrasformarsi abbastanza rapidamente in trauma verticale, «quanto alla guerra, Brandani probabilmente esiste a causa di essa» (464), concepito com’è per un impeto di passione sessuale postbellica.

Certo ci sono stati quelli che hanno creduto di poterla fare la guerra, Brandani li rispetta, ma non ha nulla in comune con loro, quando faceva politica stava nelle retrovie, non si menava non sparava e forse non era solo vigliaccheria, era che sentiva il tasso onirico dell’insurrezione: sogno fin dall’inizio immaginario fuori tempo e misura, anche se sanguinario e violento. «Bastò un solo decennio e su tutto finì per prevalere la coltre unificante» (227),

 

forse il romanzo stesso è utopia

cercando comunque di rappresentare il Reale

contro ogni forma di oblio e negligenza

l’immaginario che ci illude e consuma,

e l’ordine simbolico che si sgretola

e i segni di quello che ancora ci manca.

Giustamente si è paragonato l’uso dei tre punti in Pecoraro a quello di Celine[15]. Certo, ma con qualche importante differenza. I tre punti di Celine spezzano il discorso in contrapposizioni laceranti, un termine si capovolge nell’opposto, e in sostanza esprimono un rabbioso trauma verticale che irrompe nella continuità della sintassi. I tre punti di Pecoraro scandiscono una enumerazione trainata di equivalenti, una durata che si protrae “in tempo di pace”, e cioè strascica una amorfa e sempre uguale continuità di detriti. Il trauma di Celine rimane legato alla guerra e al trauma di guerra, vissuto in prima persona, quello di Brandani è una durata di cancellazione, un’apocalisse dilatata, una catastrofe dilazionata. La bomba di Celine gli è esplosa vicino, quella di Brandani è una buca-ricordo in cui cade tra rifiuti e detriti, e che residua dai tempi del Padre.

Celine ha paura che il proprio corpo esploda in frammenti, e vuole impedire a tutti i costi, finanche col delirio antisemita, che ciò avvenga. La metafora ossessiva di Brandani è invece lo schifo a priori che gli suscita il corpo, come flusso di liquami, il corpo come opaca compattezza da cui non si può fuggire, nausea primordiale, che nulla riesce a calmare, un in-sé che vieta di essere per sé, distrugge ogni confine di discontinuità in un amorfo essere. Gli si vorrebbe opporre un ordine geometrico, che assume però le caratteristiche di una rigida inalterabilità, e che sul piano astratto è altrettanto impenetrabile, privo di divenire, assente di dimensioni temporali. «Volevo essere una sfera perfetta, di cristallo» (467) confessa Brandani la sua hybris. Da un lato un amorfo scorrere di sangue e di terra, dall’altro una tecnica impersonale ed esatta e – si direbbe – sanamente disumana. Cosa si può infatti immaginare di più esatto e preciso del disumano? E di una tecnica che ne sia espressione? Ci aggiriamo così tra un polo e l’altro, tra la disumanità di una lotta preistorica e caotica e quella di una astrazione insensibile. Sono i due poli tra cui si muove lo spirito del capitale. Quando Brandani si lamenta della caoticità amorfa che gli sembra tipica del paese Italia e di Roma in particolare (bisognerebbe «che si dedicassero alla distinzione invece che alla mescolanza degli opposti» (507)), si potrebbe obiettargli che il trapasso dall’astrazione tecnica al caos pulsionale è una caratteristica generale della modernità in cui viviamo, che convive al suo fondo con uno strato di preistoria presente. Il romanzo ci conduce passo dopo passo a scoprire che la distinzione rigida fra i due estremi fa parte della patologia del protagonista.

Il romanzo è uno specchio anamorfico che ci porta fino al punto di intuire quanto Brandani, vittima di ideologie e di illusioni, non riesce a vedere.

La verità romanzesca della Vita in tempo di pace si rivela nella sua struttura geometrica, in due movimenti ritmici contrastanti e complementari; nei resoconti in prima persona dell’ultima giornata di vita di Brandani, il tempo scorre progressivo e lentamente in avanti, ma sappiamo già da subito che questo avanzare del tempo conduce alla morte, causata dal parassita, certo, il quale è simbolo della pulsione di autodistruzione che agisce all’interno stesso di Brandani; come un contromovimento, le altre parti del romanzo regrediscono dal presente al passato, fin quasi al momento del concepimento, in desiderio infinito di pace nel grembo materno. I due tempi, il movimento ritmico in avanti e quello che scorre all’indietro, danno visione figurale della profonda antinomia che costituisce il contenuto simbolico di verità, e la percezione di una stasi della storia che ne consegue, la vita di un soggetto nel tempo sospeso.

 

NOTE:

[1] F. Pecoraro, La vita in tempo di pace, Ponte alle Grazie, Milano, 2013. Pagine delle citazioni tra parentesi in corpo testo.

[2] «La sua nevrosi, il panico che gli lacera le viscere, come aveva capito Winnicott, non ha rimedio perché la catastrofe che teme è già avvenuta. E quel che resta della vita di Ivo, ormai, non è altro che un avvitarsi a ritroso, un risalire a «prima e prima»; scavando sempre più, alla radice di se stesso, l’origine di quella ferita che lo uccide» ((A. Cortellessa, “Spitfire”, in Nazione indiana: https://www.nazioneindiana.com/2013/11/13/spitfire/ )

[3] F. Orlando, Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura, Einaudi, Torino, 1994, p. 16.

[4] E ancora: «Vivo come il mio colon infiammato, come le anse del mio intestino pieno di diverticoli, ricetti vitali di merda, di batteri che non hanno mai visto la luce del sole, che non hanno mai conosciuto altro che merda… Vivo, con questa spalla che mi duole, vivo non ostante l’ernia del disco… Sei qui vivo, non ostante tutto questo ti sia negato dal tuo aspetto senile, dalla collocazione terminale nel mondo, come soggetto residuale fuori del ciclo riproduttivo… È lo scheletro che si sfascia per primo…»(454-455);

[5] E in questo modo egli vede il proprio stomaco nel corso di una endoscopia: «Laggiù in basso ecco quella che sembra un’enorme discarica. Un’area vasta circondata da strade sterrate, che sembra coperta da una sterminata distesa di materiale biancastro» (499)

[6] Cfr. https://www.leparoleelecose.it/?p=22484

[7] «Ma oggi il processo di modificazione totale ancora è molto lontano dal suo compimento: ci vorrà qualche centinaio di anni, forse più di mille, prima di riuscire a costruire una natura completamente artificiale, ma talmente ben fatta da risultare più vera del vero, arci-vera, un’iper-natura turgida e feconda e vitale come una tetta rifatta a regola d’arte… Pochi esseri umani finto-veri, in un mondo finto-vero, dediti ad attività oggi non immaginabili, ma probabilmente del tutto inutili» (146)

[8] Un saggio di Simmel sul significato archetipico del ponte è una lettura decisiva per Brandani.

[9] «Quando dello spirito vengono predicati l’essere come tale o l’esser-cosa, allora l’espressione a ciò più adatta resta questa: lo spirito è qualcosa di equivalente a un osso» (G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, vol. I, La Nuova Italia, Firenze 1976, p. 287).

[10] Non a caso una fantasia del genere si trova nel Futuro del fascismo, fantasia distopica di Pecoraro. https://antinomie.it/index.php/2022/05/19/il-futuro-del-fascismo/.

[11] Lacan parla di «evaporation du père» in una nota del 1968. «Ne La vita in tempo di pace le relazioni con il pater familias e in generale con l’autorità sono ancora altonovecentesche: vale a dire, nella sostanza, edipiche» (G. Pedullà, in https://www.leparoleelecose.it/?p=13823).

[12] Brandani è «l’antieroe di un libro perciò pensato al pari di un bilancio generazionale e che scorgeva, negli anni Sessanta dello scorso secolo, la più netta “frattura culturale” fin qui mai consumatasi fra genitori e figli» (A. Tricomi, “Quel rudere, in fondo allo stradone”, in Macerie borghesi, Rogas Edizioni, Roma, 2023, p. 72.

[13] «Mi insegue, mi viene dietro, non mi lascia in pace…» (458), Lo riconosco, è lui che preme per farsi spazio. Io non sono lui, ma ciò che affiora dalla sabbia della mia faccia, gli appartiene / mi appartiene, come se adesso fossimo una cosa sola, come se lui volesse ri-vivere in me, usandomi come portatore sano della sua faccia da cazzo» (459).

[14]«Doveva andare diversamente. Non poteva andare diversamente. Nella tensione tra i due assunti, contraddittori eppure entrambi veri, si dibatte Ivo Brandani, esponente terminale di un secolo, il Novecento, che con la politica ha creduto di tagliare il nodo di Gordio risolvendo la natura in storia. Ora è il tempo del contrappasso: non vincono che i batteri e il capitale, forze mutanti che realizzano in forma d’incubo il suo sogno di un presente eterno». (D. Giglioli, in https://www.leparoleelecose.it/?p=13823).

[15] Un riferimento «sembra essere il Céline di Morte a credito, per il risentimento monumentale del protagonista, espresso da un flusso di continua, magnifica bile. Flusso che sbocca per puntini di sospensione e imprecazioni trattenute di un furente alter ego del suo autore, e che occupa soprattutto i capitoli “al presente” di VTP, la porzione di tempo del racconto in cui Brandani viaggia in aereo e trasporta il verme che lo ucciderà» (L. Marchese, Contro La vita in tempo di pace. Prima parte, in

https://quattrocentoquattro.wordpress.com/2014/03/20/contro-la-vita-in-tempo-di-pace-di-francesco-pecoraro-prima-parte/#9