DUE POESIE E UN POEMETTO – DI FRANCESCO SICILIANO MANGONE
IL GIARDINO DEL PADRE[1]
a Guglielmo
Si dice che Epicuro avesse comprato
un giardino al Dipylo, fuori la città di Atene
e là visse in una comunità di amici.
Nel crepuscolo,
prima di rientrare in casa s’attardava il padre
nell’orto, lo raggiunse il figlio.
Cercava l’aderenza perfetta tra la forma
e l’ombra; non altro
che il piacere di stare al mondo.
“È tempo liminare il nostro” – disse.
Restarono nella sera incombente
in ascolto di divinità oscure, nodi irrelati
e dispersi, pieghe non più persistenti:
il gravame del tempo (un tetro cielo di
guerre)
dove a cercare è la luce nel fondo dell’ombra.
In tale latenza penombrale
il padre
spezzando le foglie del lauro lungo il muretto
avrebbe voluto che restasse sul greve odore:
disfacimento ch’è proprio
del giorno
nel mentre sviene il duale in transito
ciò che invece sarebbe da serbare.
Prima d’ogni stato utopico
d’una ebbrezza… ciò che il moderno ha smarrito
è la tragica scomposizione di sé;
l’incapacità di darsi una forma
così ch’ogni linea di margine è dissolta. Presto ne viene
l’inconsistenza dei corpi
il trauma della dissoluzione,
“Sarebbe la fine d’ogni giardino” – aggiunse il padre.
Parlando al figlio
le parole dell’amato ancestrale
rimasero in bilico sull’informe trascorrimento
della sera
lui stesso fu inerito agli odori dell’orto, e ancor
più urgente giunse al suo postulare
“E tu, e noi che senso avremmo, allora?”.
L’intenso contrappunto degli echi si spense
nell’immenso silenzio
che accoglie e tiene.
Mentre siamo conseguenti alla presenza dei corpi
si ripete il congiunto di forma e ombra
che non vuole trapassare, e insiste.
Il giardino è dove veniamo a essere
il piacere è la nostra stessa esistenza.
“Resta
sull’intensità della presenza dell’essere al mondo
–continuò-
…non è suprematismo bianco il giardino
che accoglie e tiene in amicizia
è stare di fronte al volto altro e condiviso;
il misterio del giardino
tienilo con te… non barattarlo, ora e qui
attimo dopo attimo, vivendo”.
Costa di Platio, 07/04/2024
UNA FABBRICA DI GASBETON
Frankfurt am Main, 1969
Dall’alto dei barbacani le massicce vetrate
per noi di sotto sfondava
in vele di segatura e polvere d’amianto
una luce malata.
Tutto un intreccio di pulegge e nastri dentati
a masticare rancori
macchine di macchine
mosse da un’unica e sola Gran Macchina
e là stava un-niente inserito
il corpo massa al lavoro “senza giudizio”.
Il caporeparto tedesco di sopra il maglio
in ripresa
prese a macinare in lingua germanese
“Ehilalà… giovinotti
state mica pensare di perché di percome.
Trattasi gesti solo
di scimmia eseguire volere di Macchina”.
Dei multipli stantuffi clangori di presse vibrava
il basamento ai forni infognati stavamo
frange e s’intoppa
l’immonda
miscela che ribolle e sversa
le vasche mute a far miglior lacca stanno
spalancate in attesa
dei dannati per lor sola vergogna al maglio.
Di noi sulla linea
come niente s’andava su e giù a saldar gabbioni
di ferro mentre schizzi d’olio lagrimavano
riccioli dalle frese nervose.
Ai banchi
Orazio superbo lo vedi ancora danzava
trabalzando di sua multipla saldatrice elettrica a far
dei bei record di produzione.
D’intorno
corolle natalizie a mozzicarti le carni.
D’accanto, col solito grugno
l’anziano caronte c’incalza ci pressa
“Ohei! Lasca la randa, cristo santissimo!
Vorrai mica darci il sangue nostro a ‘sti porci
padroni dell’ambaradan!”
In fine di turno stracchi di notte
alle prime luci dell’alba
l’era un tormento.
Da coprire a piedi
restavano i 4 e più km prima
d’infilarsi nel sacco a pelo.
Una cameretta per tre di noi
anche qui
a rispettare il turno e dormire
(tutto un vibrato di echi un tanfo di grassi di oli
rullanti ingranaggi)
dentro quell’unico letto di dolori.
UN SONNO PIENO DI SOGNI
monologo di voci
al calavrise Giovacchino da Fiore profeta
e visionario di cieli ulteriori
Dovrei dire dei tanti “orologi stellari”
corpi dottrinali ineguali
nel fluire storico in transizione
-inudibili asimmetrici slittamenti
del dio.
Ora li scorgo… sì!
Immani costellazioni in cerchi
dal tribordo di mare Jonio
nello sprofondo complessi generazionali
ancor meno
decifrabili d’una nave che affonda
abbandonata alla deriva. Allora come ora
l’approdo necessario sarà alla Storia.
1
Sin dall’inizio fu un intenso
profluvio di immagini del tutto slegate
dal reale (eran queste ad assegnare
verità alle cose).
Colto da letargia da ipnosi di merci
l’urobòro magico mi teneva felice
al suo identico. Cieco restavo
del mio corpo.
I giornali della sera mi rassicuravano
sulle variazioni del tempo sulle oscillazioni
favorevoli che si fanno in Borsa.
2
Vedi:
confidavo in un percetto falsato
(non saprei dirne la natura la
consistenza). Sovrano
mi sentivo d’una smisurata potestà…
Nomade signoreggiavo rovine
ruderi nella notte distretti d’antiche regioni.
Da rare
tracce di bivacchi immaginavo carovane
per sotto cieli stellati
presto mutati di segno il comando.
3
Solo alla corte normanna a Palermo
seppi d’un mondo plurale. Ascoltai
voci:
“Ci fu il tempo della violenza del Padre
poi della Speranza del Figlio
presto a noi viene quello dell’azione…
l’incarnato dello Spirito”. Queste e altre
cose d’amore udii e ancora:
“A voi… destinato il tempo d’agire”.
Così mi venne di dire:
“Son dunqu’io Lazzaro il redivivo
tornato dal regno del Sonno e tutto vidi vedendomi
è accaduto. Inviato fui comandato ad annunciarvi
se solo voleste ascoltarmi…
di sirene che cantano da presso melodie false
cortigiane deferenti
creature feroci divoratrici d’umani”.
… in questo modo qua conclusi.
4
Giunsi a capire ch’ero io il mio problema.
“…viaggiando per tutta Palestina
fui a Gerusalemme così per terre di Siria
a Decapoli infine sostai al monte Tabor”.
Fu a metà della notte
mentre una nebbia bruna flottava
ai vetri della stanza che il volto di lei in accordo
con le mani mi disvelò
le pieghe le increspature della pelle.
“Sapessi amico mio… tante le vie d’accesso.
L’arcano è sciolto
in ogni gesto atto che sia
là trovi il sociale ch’ognuno di noi è
creatura terrestre fragile intrico
di lontane famiglie costellazioni di sangue
di Storia pietà”.
5
Dunque, non solo cose che scorrono via
come grani d’un rosario spezzato
aggregato di vuote scene il reale ma
quel garbato e offerente gesto delle mani
che incarna l’azione dei possibili che
attende una prossima soluzione (a noi
viene propriamente da lontane cause)
a render scrivibile i dettagli vecchi
cippi di smarrite stagioni storie d’antiche
rivolte che ci salvano. I Re e i Papi
i signori le negano come no! Non danno
credito a queste forme di vite andate.
6
Al risveglio fu uno
zaffiro nel celeste usurpato dal sangue
nell’alba… Un’idea
di ori lontani mi spinse a cercare ancora e
ancora come una volta.
“Ma quando… quando, ancora?” chiese al padre.
“Lenta impazienza, la speranza nostra” rispose.
Quella tremula-fuggitiva-presenza del noi
in lotta mi rese composito. Avrei
dovuto gioirne… ma
è della pertinenza del dolore che parlo
deterso e ignudo fui solenne al giorno!
7
Il solenne del giorno nell’aperto della luce.
Questo stare l’uno presso l’altro
in panteico canto corale.
Un noi sublime che accetta la morte.
Gli uccelli nell’aria i pesci del mare
gli alberi del bosco… ad esempio
pur essendo gli ospiti più antichi della
terra ne neghiamo l’evidenza la grazia.
Il loro adunarsi perenne come avrebbe senso?
Trebisacce, 29/04/24
[1] In via Principe Umberto
(immagine di copertina: Agostino Scilla, Epicuro)
Il giardino del padre[1]
a Guglielmo
Si dice che Epicuro avesse comprato
un giardino al Dipylo, fuori la città di Atene
e là visse in una comunità di amici.
Nel crepuscolo,
prima di rientrare in casa s’attardava il padre
nell’orto, lo raggiunse il figlio.
Cercava l’aderenza perfetta tra la forma
e l’ombra; non altro
che il piacere di stare al mondo.
“È tempo liminare il nostro” – disse.
Restarono nella sera incombente
in ascolto di divinità oscure, nodi irrelati
e dispersi, pieghe non più persistenti:
il gravame del tempo (un tetro cielo di
guerre)
dove a cercare è la luce nel fondo dell’ombra.
In tale latenza penombrale
il padre
spezzando le foglie del lauro lungo il muretto
avrebbe voluto che restasse sul greve odore:
disfacimento ch’è proprio
del giorno
nel mentre sviene il duale in transito
ciò che invece sarebbe da serbare.
Prima d’ogni stato utopico
d’una ebbrezza… ciò che il moderno ha smarrito
è la tragica scomposizione di sé;
l’incapacità di darsi una forma
così ch’ogni linea di margine è dissolta. Presto ne viene
l’inconsistenza dei corpi
il trauma della dissoluzione,
“Sarebbe la fine d’ogni giardino” – aggiunse il padre.
Parlando al figlio
le parole dell’amato ancestrale
rimasero in bilico sull’informe trascorrimento
della sera
lui stesso fu inerito agli odori dell’orto, e ancor
più urgente giunse al suo postulare
“E tu, e noi che senso avremmo, allora?”.
L’intenso contrappunto degli echi si spense
nell’immenso silenzio
che accoglie e tiene.
Mentre siamo conseguenti alla presenza dei corpi
si ripete il congiunto di forma e ombra
che non vuole trapassare, e insiste.
Il giardino è dove veniamo a essere
il piacere è la nostra stessa esistenza.
“Resta
sull’intensità della presenza dell’essere al mondo
–continuò-
…non è suprematismo bianco il giardino
che accoglie e tiene in amicizia
è stare di fronte al volto altro e condiviso;
il misterio del giardino
tienilo con te… non barattarlo, ora e qui
attimo dopo attimo, vivendo”.
Costa di Platio, 07/04/2024
Una fabbrica di Gasbeton
Frankfurt am Main, 1969
Dall’alto dei barbacani le massicce vetrate
per noi di sotto sfondava
in vele di segatura e polvere d’amianto
una luce malata.
Tutto un intreccio di pulegge e nastri dentati
a masticare rancori
macchine di macchine
mosse da un’unica e sola Gran Macchina
e là stava un-niente inserito
il corpo massa al lavoro “senza giudizio”.
Il caporeparto tedesco di sopra il maglio
in ripresa
prese a macinare in lingua germanese
“Ehilalà… giovinotti
state mica pensare di perché di percome.
Trattasi gesti solo
di scimmia eseguire volere di Macchina”.
Dei multipli stantuffi clangori di presse vibrava
il basamento ai forni infognati stavamo
frange e s’intoppa
l’immonda
miscela che ribolle e sversa
le vasche mute a far miglior lacca stanno
spalancate in attesa
dei dannati per lor sola vergogna al maglio.
Di noi sulla linea
come niente s’andava su e giù a saldar gabbioni
di ferro mentre schizzi d’olio lagrimavano
riccioli dalle frese nervose.
Ai banchi
Orazio superbo lo vedi ancora danzava
trabalzando di sua multipla saldatrice elettrica a far
dei bei record di produzione.
D’intorno
corolle natalizie a mozzicarti le carni.
D’accanto, col solito grugno
l’anziano caronte c’incalza ci pressa
“Ohei! Lasca la randa, cristo santissimo!
Vorrai mica darci il sangue nostro a ‘sti porci
padroni dell’ambaradan!”
In fine di turno stracchi di notte
alle prime luci dell’alba
l’era un tormento.
Da coprire a piedi
restavano i 4 e più km prima
d’infilarsi nel sacco a pelo.
Una cameretta per tre di noi
anche qui
a rispettare il turno e dormire
(tutto un vibrato di echi un tanfo di grassi di oli
rullanti ingranaggi)
dentro quell’unico letto di dolori.
Un sonno pieno di sogni
monologo di voci
al calavrise Giovacchino da Fiore profeta
e visionario di cieli ulteriori
Dovrei dire dei tanti “orologi stellari”
corpi dottrinali ineguali
nel fluire storico in transizione
-inudibili asimmetrici slittamenti
del dio.
Ora li scorgo… sì!
Immani costellazioni in cerchi
dal tribordo di mare Jonio
nello sprofondo complessi generazionali
ancor meno
decifrabili d’una nave che affonda
abbandonata alla deriva. Allora come ora
l’approdo necessario sarà alla Storia.
1
Sin dall’inizio fu un intenso
profluvio di immagini del tutto slegate
dal reale (eran queste ad assegnare
verità alle cose).
Colto da letargia da ipnosi di merci
l’urobòro magico mi teneva felice
al suo identico. Cieco restavo
del mio corpo.
I giornali della sera mi rassicuravano
sulle variazioni del tempo sulle oscillazioni
favorevoli che si fanno in Borsa.
2
Vedi:
confidavo in un percetto falsato
(non saprei dirne la natura la
consistenza). Sovrano
mi sentivo d’una smisurata potestà…
Nomade signoreggiavo rovine
ruderi nella notte distretti d’antiche regioni.
Da rare
tracce di bivacchi immaginavo carovane
per sotto cieli stellati
presto mutati di segno il comando.
3
Solo alla corte normanna a Palermo
seppi d’un mondo plurale. Ascoltai
voci:
“Ci fu il tempo della violenza del Padre
poi della Speranza del Figlio
presto a noi viene quello dell’azione…
l’incarnato dello Spirito”. Queste e altre
cose d’amore udii e ancora:
“A voi… destinato il tempo d’agire”.
Così mi venne di dire:
“Son dunqu’io Lazzaro il redivivo
tornato dal regno del Sonno e tutto vidi vedendomi
è accaduto. Inviato fui comandato ad annunciarvi
se solo voleste ascoltarmi…
di sirene che cantano da presso melodie false
cortigiane deferenti
creature feroci divoratrici d’umani”.
… in questo modo qua conclusi.
4
Giunsi a capire ch’ero io il mio problema.
“…viaggiando per tutta Palestina
fui a Gerusalemme così per terre di Siria
a Decapoli infine sostai al monte Tabor”.
Fu a metà della notte
mentre una nebbia bruna flottava
ai vetri della stanza che il volto di lei in accordo
con le mani mi disvelò
le pieghe le increspature della pelle.
“Sapessi amico mio… tante le vie d’accesso.
L’arcano è sciolto
in ogni gesto atto che sia
là trovi il sociale ch’ognuno di noi è
creatura terrestre fragile intrico
di lontane famiglie costellazioni di sangue
di Storia pietà”.
5
Dunque, non solo cose che scorrono via
come grani d’un rosario spezzato
aggregato di vuote scene il reale ma
quel garbato e offerente gesto delle mani
che incarna l’azione dei possibili che
attende una prossima soluzione (a noi
viene propriamente da lontane cause)
a render scrivibile i dettagli vecchi
cippi di smarrite stagioni storie d’antiche
rivolte che ci salvano. I Re e i Papi
i signori le negano come no! Non danno
credito a queste forme di vite andate.
6
Al risveglio fu uno
zaffiro nel celeste usurpato dal sangue
nell’alba… Un’idea
di ori lontani mi spinse a cercare ancora e
ancora come una volta.
“Ma quando… quando, ancora?” chiese al padre.
“Lenta impazienza, la speranza nostra” rispose.
Quella tremula-fuggitiva-presenza del noi
in lotta mi rese composito. Avrei
dovuto gioirne… ma
è della pertinenza del dolore che parlo
deterso e ignudo fui solenne al giorno!
7
Il solenne del giorno nell’aperto della luce.
Questo stare l’uno presso l’altro
in panteico canto corale.
Un noi sublime che accetta la morte.
Gli uccelli nell’aria i pesci del mare
gli alberi del bosco… ad esempio
pur essendo gli ospiti più antichi della
terra ne neghiamo l’evidenza la grazia.
Il loro adunarsi perenne come avrebbe senso?
Trebisacce, 29/04/24
[1] In via Principe Umberto