DUE POESIE E UN POEMETTO – DI FRANCESCO SICILIANO MANGONE

DUE POESIE E UN POEMETTO – DI FRANCESCO SICILIANO MANGONE

31 Maggio 2024 Off di Mario Pezzella

IL GIARDINO DEL PADRE[1]

 

a Guglielmo

 

Si dice che Epicuro avesse comprato

un giardino al Dipylo, fuori la città di Atene

e là visse in una comunità di amici.

 

 

Nel crepuscolo,

prima di rientrare in casa s’attardava il padre

nell’orto, lo raggiunse il figlio.

Cercava l’aderenza perfetta tra la forma

e l’ombra; non altro

che il piacere di stare al mondo.

 

È tempo liminare il nostro” – disse.

 

Restarono nella sera incombente

in ascolto di divinità oscure, nodi irrelati

e dispersi, pieghe non più persistenti:

il gravame del tempo (un tetro cielo di

guerre)

dove a cercare è la luce nel fondo dell’ombra.

 

In tale latenza penombrale

il padre

spezzando le foglie del lauro lungo il muretto

avrebbe voluto che restasse sul greve odore:

disfacimento ch’è proprio

del giorno

nel mentre sviene il duale in transito

ciò che invece sarebbe da serbare.

 

Prima d’ogni stato utopico

d’una ebbrezza… ciò che il moderno ha smarrito

è la tragica scomposizione di sé;

l’incapacità di darsi una forma

così ch’ogni linea di margine è dissolta. Presto ne viene

l’inconsistenza dei corpi

il trauma della dissoluzione,

“Sarebbe la fine d’ogni giardino” – aggiunse il padre.

 

Parlando al figlio

le parole dell’amato ancestrale

rimasero in bilico sull’informe trascorrimento

della sera

lui stesso fu inerito agli odori dell’orto, e ancor

più urgente giunse al suo postulare

“E tu, e noi che senso avremmo, allora?”.

L’intenso contrappunto degli echi si spense

nell’immenso silenzio

che accoglie e tiene.

 

Mentre siamo conseguenti alla presenza dei corpi

si ripete il congiunto di forma e ombra

che non vuole trapassare, e insiste.

 

Il giardino è dove veniamo a essere

il piacere è la nostra stessa esistenza.

 

Resta

sull’intensità della presenza dell’essere al mondo

continuò-

…non è suprematismo bianco il giardino

che accoglie e tiene in amicizia

è stare di fronte al volto altro e condiviso; 

il misterio del giardino

tienilo con te… non barattarlo, ora e qui

attimo dopo attimo, vivendo”.

 

                                                                                     Costa di Platio, 07/04/2024

 

UNA FABBRICA DI  GASBETON

Frankfurt am Main, 1969

 

Dall’alto dei barbacani le massicce vetrate

per noi di sotto sfondava

in vele di segatura e polvere d’amianto

una luce malata.

 

Tutto un intreccio di pulegge e nastri dentati

a masticare rancori

macchine di macchine

mosse da un’unica e sola Gran Macchina

e là stava un-niente inserito

il corpo massa al lavoro “senza giudizio”.

 

Il caporeparto tedesco di sopra il maglio

in ripresa

prese a macinare in lingua germanese

“Ehilalà… giovinotti

state mica pensare di perché di percome.

Trattasi gesti solo

di scimmia eseguire volere di Macchina”.

 

Dei multipli stantuffi clangori di presse vibrava

il basamento ai forni infognati stavamo

frange e s’intoppa

l’immonda

miscela che ribolle e sversa

le vasche mute a far miglior lacca stanno

spalancate in attesa 

dei dannati per lor sola vergogna al maglio.

 

Di noi sulla linea

come niente s’andava su e giù a saldar gabbioni

di ferro mentre schizzi d’olio lagrimavano

riccioli dalle frese nervose.

Ai banchi

Orazio superbo lo vedi ancora danzava

trabalzando di sua multipla saldatrice elettrica a far

dei bei record di produzione.

D’intorno

corolle natalizie a mozzicarti le carni.

 

D’accanto, col solito grugno

l’anziano caronte c’incalza ci pressa

Ohei! Lasca la randa, cristo santissimo!

Vorrai mica darci il sangue nostro a ‘sti porci

padroni dell’ambaradan!”

 

In fine di turno stracchi di notte

alle prime luci dell’alba

l’era un tormento.

Da coprire a piedi

restavano i 4 e più km prima

d’infilarsi nel sacco a pelo.

Una cameretta per tre di noi

anche qui

a rispettare il turno e dormire

(tutto un vibrato di echi un tanfo di grassi di oli

rullanti ingranaggi)

dentro quell’unico letto di dolori.

 

 

UN SONNO PIENO DI SOGNI

monologo di voci

 

 

                                                                                   al calavrise Giovacchino da Fiore profeta

                                                                                   e visionario di cieli ulteriori

 

 

 

Dovrei dire dei tanti “orologi stellari”

corpi dottrinali ineguali

nel fluire storico in transizione

-inudibili asimmetrici slittamenti

del dio.

 

Ora li scorgo… sì!

Immani costellazioni in cerchi

dal tribordo di mare Jonio

nello sprofondo complessi generazionali

ancor meno

decifrabili d’una nave che affonda

abbandonata alla deriva. Allora come ora

l’approdo necessario sarà alla Storia.

 

1

Sin dall’inizio fu un intenso

profluvio di immagini del tutto slegate

dal reale (eran queste ad assegnare

verità alle cose).

Colto da letargia da ipnosi di merci

l’urobòro magico mi teneva felice

al suo identico. Cieco restavo

del mio corpo.

 

I giornali della sera mi rassicuravano

sulle variazioni del tempo sulle oscillazioni

favorevoli che si fanno in Borsa.

 

2

Vedi:

confidavo in un percetto falsato

(non saprei dirne la natura la

consistenza). Sovrano

mi sentivo d’una smisurata potestà…

Nomade signoreggiavo rovine

ruderi nella notte distretti d’antiche regioni.

Da rare

tracce di bivacchi immaginavo carovane

per sotto cieli stellati

presto mutati di segno il comando.

 

3

Solo alla corte normanna a Palermo

seppi d’un mondo plurale. Ascoltai

voci:

“Ci fu il tempo della violenza del Padre

poi della Speranza del Figlio

presto a noi viene quello dell’azione…

l’incarnato dello Spirito”. Queste e altre

cose d’amore udii e ancora:

“A voi… destinato il tempo d’agire”.

 

Così mi venne di dire:

“Son dunqu’io Lazzaro il redivivo

tornato dal regno del Sonno e tutto vidi vedendomi

è accaduto. Inviato fui comandato ad annunciarvi

se solo voleste ascoltarmi…

di sirene che cantano da presso melodie false

cortigiane deferenti

creature feroci divoratrici d’umani”.

… in questo modo qua conclusi.

 

4

Giunsi a capire ch’ero io il mio problema.

 

“…viaggiando per tutta Palestina

fui a Gerusalemme così per terre di Siria

a Decapoli infine sostai al monte Tabor”.

 

Fu a metà della notte

mentre una nebbia bruna flottava

ai vetri della stanza che il volto di lei in accordo

con le mani mi disvelò

le pieghe le increspature della pelle.

 

“Sapessi amico mio… tante le vie d’accesso.

L’arcano è sciolto

in ogni gesto atto che sia

là trovi il sociale ch’ognuno di noi è

creatura terrestre fragile intrico

di lontane famiglie costellazioni di sangue

di Storia pietà”.

 

5

Dunque, non solo cose che scorrono via

come grani d’un rosario spezzato

aggregato di vuote scene il reale ma

 

quel garbato e offerente gesto delle mani

che incarna l’azione dei possibili che

attende una prossima soluzione (a noi

 

viene propriamente da lontane cause)

a render scrivibile i dettagli vecchi

cippi di smarrite stagioni storie d’antiche

 

rivolte che ci salvano. I Re e i Papi

i signori le negano come no! Non danno

credito a queste forme di vite andate.

 

6

Al risveglio fu uno

zaffiro nel celeste usurpato dal sangue

nell’alba… Un’idea

di ori lontani mi spinse a cercare ancora e

ancora come una volta.

 

“Ma quando… quando, ancora?” chiese al padre.

“Lenta impazienza, la speranza nostra” rispose.

 

Quella tremula-fuggitiva-presenza del noi

in lotta mi rese composito. Avrei

dovuto gioirne… ma

è della pertinenza del dolore che parlo

deterso e ignudo fui solenne al giorno!

 

7

Il solenne del giorno nell’aperto della luce.

Questo stare l’uno presso l’altro

in panteico canto corale.

Un noi sublime che accetta la morte.

 

Gli uccelli nell’aria i pesci del mare

gli alberi del bosco… ad esempio

pur essendo gli ospiti più antichi della

terra ne neghiamo l’evidenza la grazia.

Il loro adunarsi perenne come avrebbe senso?

 

Trebisacce, 29/04/24

 

 

[1] In via Principe Umberto

 

(immagine di copertina: Agostino Scilla, Epicuro)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il giardino del padre[1]

 

 

a Guglielmo

 

 

 

Si dice che Epicuro avesse comprato

un giardino al Dipylo, fuori la città di Atene

e là visse in una comunità di amici.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nel crepuscolo,

prima di rientrare in casa s’attardava il padre

nell’orto, lo raggiunse il figlio.

Cercava l’aderenza perfetta tra la forma

e l’ombra; non altro

che il piacere di stare al mondo.

 

È tempo liminare il nostro” – disse.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Restarono nella sera incombente

in ascolto di divinità oscure, nodi irrelati

e dispersi, pieghe non più persistenti:

il gravame del tempo (un tetro cielo di

guerre)

dove a cercare è la luce nel fondo dell’ombra.

 

In tale latenza penombrale

il padre

spezzando le foglie del lauro lungo il muretto

avrebbe voluto che restasse sul greve odore:

disfacimento ch’è proprio

del giorno

nel mentre sviene il duale in transito

ciò che invece sarebbe da serbare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Prima d’ogni stato utopico

d’una ebbrezza… ciò che il moderno ha smarrito

è la tragica scomposizione di sé;

l’incapacità di darsi una forma

così ch’ogni linea di margine è dissolta. Presto ne viene

l’inconsistenza dei corpi

il trauma della dissoluzione,

“Sarebbe la fine d’ogni giardino” – aggiunse il padre.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Parlando al figlio

le parole dell’amato ancestrale

rimasero in bilico sull’informe trascorrimento

della sera

lui stesso fu inerito agli odori dell’orto, e ancor

più urgente giunse al suo postulare

“E tu, e noi che senso avremmo, allora?”.

L’intenso contrappunto degli echi si spense

nell’immenso silenzio

che accoglie e tiene.

 

Mentre siamo conseguenti alla presenza dei corpi

si ripete il congiunto di forma e ombra

che non vuole trapassare, e insiste.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il giardino è dove veniamo a essere

il piacere è la nostra stessa esistenza.

 

Resta

sull’intensità della presenza dell’essere al mondo

continuò-

…non è suprematismo bianco il giardino

che accoglie e tiene in amicizia

è stare di fronte al volto altro e condiviso; 

il misterio del giardino

tienilo con te… non barattarlo, ora e qui

attimo dopo attimo, vivendo”.

 

 

 

 

 

Costa di Platio, 07/04/2024

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Una fabbrica di Gasbeton

 

Frankfurt am Main, 1969

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dall’alto dei barbacani le massicce vetrate

per noi di sotto sfondava

in vele di segatura e polvere d’amianto

una luce malata.

 

Tutto un intreccio di pulegge e nastri dentati

a masticare rancori

macchine di macchine

mosse da un’unica e sola Gran Macchina

e là stava un-niente inserito

il corpo massa al lavoro “senza giudizio”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il caporeparto tedesco di sopra il maglio

in ripresa

prese a macinare in lingua germanese

“Ehilalà… giovinotti

state mica pensare di perché di percome.

Trattasi gesti solo

di scimmia eseguire volere di Macchina”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dei multipli stantuffi clangori di presse vibrava

il basamento ai forni infognati stavamo

frange e s’intoppa

l’immonda

miscela che ribolle e sversa

le vasche mute a far miglior lacca stanno

spalancate in attesa 

dei dannati per lor sola vergogna al maglio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Di noi sulla linea

come niente s’andava su e giù a saldar gabbioni

di ferro mentre schizzi d’olio lagrimavano

riccioli dalle frese nervose.

Ai banchi

Orazio superbo lo vedi ancora danzava

trabalzando di sua multipla saldatrice elettrica a far

dei bei record di produzione.

D’intorno

corolle natalizie a mozzicarti le carni.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

D’accanto, col solito grugno

l’anziano caronte c’incalza ci pressa

Ohei! Lasca la randa, cristo santissimo!

Vorrai mica darci il sangue nostro a ‘sti porci

padroni dell’ambaradan!”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

In fine di turno stracchi di notte

alle prime luci dell’alba

l’era un tormento.

Da coprire a piedi

restavano i 4 e più km prima

d’infilarsi nel sacco a pelo.

Una cameretta per tre di noi

anche qui

a rispettare il turno e dormire

(tutto un vibrato di echi un tanfo di grassi di oli

rullanti ingranaggi)

dentro quell’unico letto di dolori.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Un sonno pieno di sogni

 

monologo di voci

 

 

al calavrise Giovacchino da Fiore profeta

e visionario di cieli ulteriori

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dovrei dire dei tanti “orologi stellari”

corpi dottrinali ineguali

nel fluire storico in transizione

-inudibili asimmetrici slittamenti

del dio.

 

Ora li scorgo… sì!

Immani costellazioni in cerchi

dal tribordo di mare Jonio

nello sprofondo complessi generazionali

ancor meno

decifrabili d’una nave che affonda

abbandonata alla deriva. Allora come ora

l’approdo necessario sarà alla Storia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1

Sin dall’inizio fu un intenso

profluvio di immagini del tutto slegate

dal reale (eran queste ad assegnare

verità alle cose).

Colto da letargia da ipnosi di merci

l’urobòro magico mi teneva felice

al suo identico. Cieco restavo

del mio corpo.

 

I giornali della sera mi rassicuravano

sulle variazioni del tempo sulle oscillazioni

favorevoli che si fanno in Borsa.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Vedi:

confidavo in un percetto falsato

(non saprei dirne la natura la

consistenza). Sovrano

mi sentivo d’una smisurata potestà…

Nomade signoreggiavo rovine

ruderi nella notte distretti d’antiche regioni.

Da rare

tracce di bivacchi immaginavo carovane

per sotto cieli stellati

presto mutati di segno il comando.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

3

Solo alla corte normanna a Palermo

seppi d’un mondo plurale. Ascoltai

voci:

“Ci fu il tempo della violenza del Padre

poi della Speranza del Figlio

presto a noi viene quello dell’azione…

l’incarnato dello Spirito”. Queste e altre

cose d’amore udii e ancora:

“A voi… destinato il tempo d’agire”.

 

Così mi venne di dire:

“Son dunqu’io Lazzaro il redivivo

tornato dal regno del Sonno e tutto vidi vedendomi

è accaduto. Inviato fui comandato ad annunciarvi

se solo voleste ascoltarmi…

di sirene che cantano da presso melodie false

cortigiane deferenti

creature feroci divoratrici d’umani”.

… in questo modo qua conclusi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

4

Giunsi a capire ch’ero io il mio problema.

 

“…viaggiando per tutta Palestina

fui a Gerusalemme così per terre di Siria

a Decapoli infine sostai al monte Tabor”.

 

Fu a metà della notte

mentre una nebbia bruna flottava

ai vetri della stanza che il volto di lei in accordo

con le mani mi disvelò

le pieghe le increspature della pelle.

 

“Sapessi amico mio… tante le vie d’accesso.

L’arcano è sciolto

in ogni gesto atto che sia

là trovi il sociale ch’ognuno di noi è

creatura terrestre fragile intrico

di lontane famiglie costellazioni di sangue

di Storia pietà”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

5

Dunque, non solo cose che scorrono via

come grani d’un rosario spezzato

aggregato di vuote scene il reale ma

 

quel garbato e offerente gesto delle mani

che incarna l’azione dei possibili che

attende una prossima soluzione (a noi

 

viene propriamente da lontane cause)

a render scrivibile i dettagli vecchi

cippi di smarrite stagioni storie d’antiche

 

rivolte che ci salvano. I Re e i Papi

i signori le negano come no! Non danno

credito a queste forme di vite andate.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

6

Al risveglio fu uno

zaffiro nel celeste usurpato dal sangue

nell’alba… Un’idea

di ori lontani mi spinse a cercare ancora e

ancora come una volta.

 

“Ma quando… quando, ancora?” chiese al padre.

“Lenta impazienza, la speranza nostra” rispose.

 

Quella tremula-fuggitiva-presenza del noi

in lotta mi rese composito. Avrei

dovuto gioirne… ma

è della pertinenza del dolore che parlo

deterso e ignudo fui solenne al giorno!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

7

Il solenne del giorno nell’aperto della luce.

Questo stare l’uno presso l’altro

in panteico canto corale.

Un noi sublime che accetta la morte.

 

Gli uccelli nell’aria i pesci del mare

gli alberi del bosco… ad esempio

pur essendo gli ospiti più antichi della

terra ne neghiamo l’evidenza la grazia.

Il loro adunarsi perenne come avrebbe senso?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Trebisacce, 29/04/24

 

 

[1] In via Principe Umberto