Quel vivente che dice “io” – di Luca Lupo

Quel vivente che dice “io” – di Luca Lupo

27 Marzo 2024 Off di Francesco Biagi

 

L’etica è rischio, l’estremo azzardo del narcisismo, la sua più sublime impudenza, la sua avventura esemplare, l’esplosione ultima del suo coraggio e della sua tracotanza nei confronti della vita.

(Lou Andreas Salomé, “Il narcisismo come duplice tendenza” (1921) in «Anal und Sexual» e altri scritti psicoanalitici, Guaraldi Editore, Rimini-Firenze 1977, p. 93)

Qualunque si affacci alla vita presumendo occupare di sé solo la scena turpissima dell’agorà e istrioneggiarvi per lungo e per largo da gran ciuco, e di pelosissima orecchia, a tanta burbanza sospinto da ismodata autoerotia, quello, da ultimo, torna di danno a’ suoi e talora a sé medesimo. E se Dio voglia, finisce appeso come Cola, con rivoltate coglia (coi ball per aria, dialetti lombardi). Devo concedere, è vero, che l’impulso narcissico è «molla prima» dell’agire: che senza carica narcissica senza «amor proprio», te una aggregazione civica, una società di buoni omini e nemmeno un destino individuo tu non te li puoi nemmanco figurare.   

(Carlo Emilio Gadda, Eros e Priapo, Adelphi, Milano 2016, p. 157).

 

 

“Cattivi che poi così cattivi non sono mai”

Lo spazio digitale pullula di figure che si presentano e si definiscono come più o meno esperte di qualcosa. Il loro ruolo deriva da una qualche investitura istituzionale o da qualche auto investitura in base alla quale si sentono autorizzate a consigliare, orientare, insegnare, aiutare, rivelando rimedi più o meno segreti: altruisti della coscienza morale, psichiatri, psicoterapeuti, psicoanalisti, counselor, maghi, sciamani, docenti universitari o semplicemente ben intenzionati laureati all’università della vita impazienti di dare buoni consigli. In una parola: un esercito di psicoinfluencer. È incoraggiante constatare quanto grande sia, soprattutto, e forse non a caso, nello spazio virtuale, cioè a debita distanza, il numero di persone disposte a venire in soccorso degli altri. Su quello che poi accade nello spazio reale meglio sorvolare. E meglio tenersene alla larga.

Da una parte ci sono loro e i loro monologhi rigorosamente unidirezionali e senza contradditorio, dall’altra la moltitudine anonima che li segue in una sorta di surfing virtuale e ne ascolta i videomessaggi la cui durata oscilla tra il breve intervento e il monologo fluviale.

Gli psicoinfluencer dispensano consigli, strategie e rimedi praticamente su tutto, anche se in prevalenza su depressione, angosce esistenziali e disturbi alimentari. Il ventaglio dei quadri teorici a cui fanno riferimento queste figure, in misura più o meno consapevole, oscilla, secondo diverse gradazioni e non senza contaminazioni spesso confuse, tra i paradigmi normalizzanti, ortoprassici e ultrariduzionisti degli orientamenti cognitivo comportamentali prevalenti e più o meno edificanti derive new age di ogni tipo. Nel primo caso è d’obbligo un qualche appello a una incontrovertibile scientificità evidence based delle loro posizioni.

Tutti però incontrano nel “narcisista patologico” un nemico comune su cui convergere e che, nelle diversità dei loro approcci, li rende più simili tra loro di quanto non siano. Contro questo nemico sono coalizzati; sono pronti ad attaccarlo e a stigmatizzarlo non senza prima aver fornito una descrizione, la più dettagliata e accurata possibile, delle sue caratteristiche; una sorta di identikit, di psicofoto segnaletica che lo renda riconoscibile e in questo modo evitabile. “Se lo conosci lo eviti, se lo conosci non ti uccide”, recitava ormai molto tempo fa, un infelice slogan di pubblicità progresso entrato nel linguaggio comune. Lo scopo degli psicoinfluencer è metterci in guardia contro la sua estrema pericolosità. La sua presenza è così pervasiva da eclissare del tutto quella del narcisista semplice.

La figura del “narcisista patologico” è così universalmente deprecata e stigmatizzata da spingere a nutrire qualche sospetto sulla fondatezza di questa unanime ostilità e sulla legittimità etica dei motivi che spingono gli stigmatizzatori a stigmatizzare.

Forse la compulsione antinarcisista che sfiora il fanatismo da parte della pletora sempre più affollata di moralizzatori del web è un tentativo di scaricare all’esterno, di proiettare lontano da sé una preoccupazione che li riguarda in prima persona. In questo senso, il narcisismo degli intellettuali che parlano e scrivono di narcisismo raggiunge vette ineguagliabili[1]. O ancora, la personificazione di una pluralità di vizi capitali, la condensazione di tale pluralità in un’unica figura, la trasformazione di questa in un mostro risponde all’esigenza diffusa, di natura squisitamente narcisistica, di scaricare completamente su “un altro”, su un capro espiatorio la propria parte di responsabilità per il fatto di essersi lasciati illudere, manipolare, sedurre, strumentalizzare, sfruttare dal narcisista di turno; per il fatto che non si è voluto, o non si è stati capaci di farsi carico delle proprie fragilità, delle propria insicurezze, forse non tutte inevitabili, di fronte alla Not des Lebens. Sarebbe il caso di riprendere la vecchia, mai abbastanza meditata lezione di La Boétie e ricordarsi della radicata tendenza umana alla servitù volontaria. Beninteso: qui non si tratta di negare che ci siano umani capaci di ogni nefandezza, e non si tratta certamente di prenderne le difese.

Si tratta invece, di preservare la complessità e la sostanziale provvisorietà, inafferrabilità e ricchezza del fenomeno psichico indicato con il termine narcisismo, continuamente in via di ridefinizione e riformulazione da quando Freud se ne è occupato per la prima volta[2] e cercare di coglierne qualche aspetto. Si tratta, ancora, di mettere in guardia dalle semplificazioni e dalle manipolazioni linguistiche che – come ha dimostrato Laurence Kahn – portano dritte all’inferno del totalitarismo (e della psicoterapia), soprattutto quando si effettuano su un terreno sempre così incerto come quello del sapere intorno all’anima[3]. Si tratta, infine, in linea con tale cautela, di introdurre una moratoria su quella che si potrebbe definire, con un neologismo, “tagflazione”, cioè un’inflazione nella (de)generazione di etichette e classificazioni, spesso anticamera del razzismo.

In tagflazione eccelle il DSM V[4], vademecum della diagnostica psichiatrica e suprema, sublime espressione catechistica e dottrinaria della ortodossia di tale “scienza”. Nelle sue versioni incruente, il tiro al bersaglio può essere divertente e istruttivo; ma quando il bersaglio è il DSM, lo diventa più che mai[5].

Nonostante la sua inarrivabile eccellenza nella smania nosografica, il linguaggio del DSM non riconosce al narcisismo nemmeno i crismi della ufficialità di una “patologia” a pieno titolo e lo degrada, ancorché con una tipica, altisonante locuzione, a “Disordine narcisistico della personalità”[6]. Così, la grandezza tragica della figura di Narciso resa immortale da Ovidio è ridotta a una caricatura pseudonosografica per punti; per certi aspetti parodistica e semicomica[7] (non certo per gli sventurati che subiscono le conseguenze delle diagnosi). Pseudonosografica perché il DSM V fornisce un profilo in cui sono descritti tratti che sarebbe davvero forzato ricondurre alla sfera della patologia medica, mentre trovano, piuttosto, la loro piena collocazione in un ambito etico e antropologico, dal momento che forniscono un elenco di quelli che nei vecchi trattati di morale sarebbero stati definiti, forse banalmente ma più correttamente e con più onestà intellettuale, come “vizi”.  Ma allora, forse, c’è qualcosa di eticamente e deontologicamente discutibile nel curare “malattie” morali come se fossero malattie fisiche, e ancora più discutibile sarebbe farlo, per esempio, con dei farmaci.

Il soggetto “narcisistico” si distinguerebbe per il fatto che nutre verso sé stesso «(1) un senso grandioso di autostima (ad esempio, esagera i propri risultati e le proprie capacità  e si aspetta di essere riconosciuto come superiore senza che questo riconoscimento sia giustificato da proporzionati riscontri); (2) è preoccupato da fantasie di successo illimitato, potere, brillantezza, bellezza o amore ideale; (3) crede di essere “speciale” e unico e di poter essere compreso solo da, o di dover frequentare, altre persone (o istituzioni) speciali o di alto livello; (4) pretende un’ammirazione eccessiva; (5) nutre aspettative irragionevoli di essere trattato in modo particolarmente favorevole o che le sue aspettative debbano essere automaticamente soddisfatte; (6) sfrutta i rapporti interpersonali (cioè approfitta degli altri per raggiungere i propri scopi); (7) manca di empatia: non è disposto a riconoscere o a identificarsi con i sentimenti e i bisogni degli altri (8) è spesso invidioso degli altri o crede che gli altri siano invidiosi di lui o lei; e, infine, (9) mostra comportamenti o atteggiamenti arroganti e altezzosi»[8].

Secondo il DSM V, ci si può fregiare del titolo di “narcisista disturbato” se occorrono almeno cinque di questi deprecabili tratti a cui ne va aggiunto, per fortuna, almeno uno che intenerisce un po’: l’autostima di questo sfortunato soggetto è infatti, «pressoché invariabilmente, molto fragile»[9]. Di qui la sua aggressività reattiva, per debolezza.

Ora, ciascun lettore saprebbe di mentire a sé stesso se non riconoscesse in gran parte dei tratti elencati, se non in tutti, atteggiamenti o sentimenti propri, di cui ha fatto esperienza, se non di frequente, almeno qualche volta. Se non lo facesse, ci sarebbe da dubitare che sia un lettore umano.

Soprattutto nella nostra microquotidianità, in fila negli uffici, nelle scuole e negli ospedali, nei vagoni dei treni, nelle cabine degli aerei al momento dell’imbarco, nei bagni pubblici, durante gli esami universitari e i concorsi, durante le riunioni di lavoro e nelle fabbriche, nelle cene con colleghi, amici e conoscenti, facciamo continuamente esperienza di questi tratti in noi e nei nostri simili.

 

I confini dell’anima

“Conosci te stesso” e “ama il tuo prossimo come te stesso”. Con la formula delfica e la massima evangelica la tradizione occidentale pone idealmente conoscenza di sé e amore del prossimo sui gradini più alti della propria scala di valori. La parola evangelica rinvia a una apertura all’altro la misura della quale è comunque in quel vivente che dice “io” che ciascuno di noi umani è, o meglio, dice di essere. Nell’atto di conoscersi e nell’atto di amarsi il “soggetto” – uso questo termine scivoloso per brevità e debitamente virgolettato– si rivolge a sé stesso e prende sé stesso come oggetto. Un movimento riflessivo sta dunque alla base di entrambi gli imperativi.

Tuttavia si tratta pur sempre di conoscere e amare qualcosa che resta fondamentalmente ignoto. Per quanto infatti lontano il soggetto possa spingersi nella ricerca, l’atto di conoscere sé stessi comporta l’esplorazione di uno spazio dall’estensione illimitata, tanto più che non si tratta di uno spazio fisico, come era già chiaro a Eraclito: «I confini dell’anima, nel tuo andare, non potrai scoprirli, neppure se percorrerai tutte le strade: così profonda è l’espressione [logos] che le appartiene»[10].

Non è affatto chiara, dunque, non è mai abbastanza chiara la risposta alla domanda “chi sono io?” che un soggetto rivolge a sé stesso, e, conseguentemente, è difficile che esista un narcisismo in senso proprio: si dovrebbe amare sé stessi, ma si dovrebbe conoscere chi si ama. In realtà non lo si conosce mai veramente, e dunque quello che si ama, che si crede di amare di sé è sempre un simulacro, una immagine provvisoria e sempre cangiante; un fantasma. D’altra parte, forse è proprio in questo che consiste il narcisismo nella forma che generalmente si depreca come patologica. «Raramente» infatti «il termine “narcisistico” presenta una significazione sprovvista di qualche valore peggiorativo»[11].

L’unica cosa che resta salda, forse, dall’inizio alla fine della sua esistenza in ogni umano che dice “io” è la coscienza di esserci, di essere in vita, “the feeling of what happens”.

Comunque sia, nelle parole di Eraclito sono presenti gli elementi che più di due millenni dopo spingeranno Freud a prendere atto del carattere interminabile[12]  della psico-analisi; termine che non significa niente altro che “scomposizione dell’anima”. Non si riflette mai abbastanza su quanto sia prodigiosa e felice la semplicità, l’eleganza e l’audacia dell’invenzione di questo termine composto da due parole arcaiche. Con esso Freud si volge a ritroso, si orienta al mondo greco gettando verso questo mondo un ponte dal quale egli lascia cadere i condizionamenti e le rigidità di un’idea malintesa e asfittica del rigore scientifico, un’idea divenuta dogmatica e paralizzante (e sempre ritornante, più nel senso di un abbacchio maldigerito che nel senso sublime dell’eterno ritorno di Nietzsche: si pensi al DSM V). Freud permette così a sé stesso e a noi di tornare a esercitare «uno sguardo umano libero» [freien menschlichen Blick][13], e di assegnare a sé stesso e lasciare in eredità a noi il compito impossibile della psico-analisi.

La scomposizione dell’anima implica un viaggio in uno spazio inesteso, non geografico. Già Eraclito, dicevamo, molto prima di Freud, aveva inferto la ferita narcisistica alla pretesa di padronanza di sé della nostra specie, incrinata in seguito rispettivamente da Copernico e da Darwin[14]. Freud si inserisce per ultimo – last but but not least – in questa scia.

Là dove si immaginava ci fosse un’anima, Freud (ri)scopre la divisibilità, la scissione. Là dove c’era l’uno, Freud scopre la presenza del due[15]. Ma il due apre irreversibilmente la strada alla pluralità, alla dispersione, alla perdita dell’integrità. Di qui il trauma, la ferita. E che cosa è una ferita, un trauma, in fondo, se non la lacerazione di qualcosa di integro e intero? In questo senso, una ferita è sempre una ferita narcisistica, cioè una ferita inferta a ciò che in origine era uno, integro, intero.

Come in un’opera di Fontana in cui il taglio della tela introduce un secondo elemento nella tela pur restando la tela una tela. Nella tela c’è l’uno ma allo stesso tempo, dopo il taglio, anche il due. Di qui l’angoscia e nello stesso tempo il desiderio di tornare alla pace dell’uno, la pace che precedeva la ferita[16].

Nel momento in cui assume sé stesso come oggetto di conoscenza, il soggetto scopre così l’impossibilità di definirsi (letteralmente: di trovare i propri confini) e scopre anche che il compito che esso stesso si pone quando si propone di conoscersi è un compito impossibile. Se è impossibile la conoscenza di qualcosa di infinito, sarà impossibile anche l’amore: l’indeterminatezza dell’oggetto rende vano l’una e l’altro. Certo, si può immaginare che sia possibile, ma solo immaginare.

Eppure conoscere si deve e si deve amare: “Conosci te stesso” e “ama il tuo prossimo come te stesso”. Due imperativi.

 

Impossibili necessari

Il «maggiore ostacolo alla civiltà» scrive Freud è «la tendenza costituzionale degli uomini all’aggressione reciproca; e proprio per questo giudichiamo particolarmente interessante il comandamento  [Gebot] probabilmente più recente del Super-io civile: “ama il prossimo tuo come te stesso”. Tale formula «è la più forte difesa contro l’aggressività umana […]». Tuttavia,  «il comandamento è irrealizzabile; un’inflazione così grandiosa dell’amore [eine so großartige Inflation der Liebe] può solo sminuirne il valore, non cancella la difficoltà»[17].

Freud è riluttante e perplesso nell’accettare e fare propria la necessità – che pure, come vedremo, riconosce – di questo imperativo. Ed è coerente nella sua riluttanza che assume i toni di una ribellione. Freud propone di adottare verso la pretesa avanzata dalla massima cristiana

un atteggiamento ingenuo, come se ne sentissimo parlare per la prima volta. Impossibile in tal caso reprimere un senso di sorpresa e disappunto. Perché mai dovremmo far ciò? Che vantaggio ce ne può derivare? Ma soprattutto, come arrivarci? Come ne saremo capaci? Il mio amore è una cosa preziosa, che non ho diritto di gettar via sconsideratamente. Mi impone degli obblighi e devo essere pronto a fare dei sacrifici per adempierli. Se amo qualcuno, in qualche modo egli se lo deve meritare […]. Costui merita il mio amore se mi assomiglia in certi aspetti importanti, talché in lui io possa amare me stesso; lo merita se è tanto più perfetto di me da poter io amare in lui l’ideale di me stesso; devo amarlo se è figlio del mio amico, poiché il dolore del mio amico se gli accadesse qualcosa sarebbe anche il mio dolore, un dolore che dovrei condividere. Ma se per me è un estraneo e non può attrarmi per alcun suo merito personale o per alcun significato da lui già acquisito nella mia vita emotiva, amarlo mi sarà difficile. E se ci riuscissi, sarei ingiusto, perché il mio amore è stimato da tutti i miei cari un segno di predilezione; sarebbe un’ingiustizia verso di loro mettere un estraneo sul loro stesso piano. Ma se debbo amarlo di quell’amore universale, semplicemente perché anche lui è un abitante di questa terra, al pari di un insetto, di un verme, di una biscia, allora temo che gli toccherà una porzione d’amore ben piccola e mi sarà impossibile dargli tutto quello che secondo il giudizio della ragione sono autorizzato a serbare per me stesso. A che pro un precetto  [Vorschrift] enunciato tanto solennemente, se il suo adempimento non si raccomanda da sé stesso come razionale?[18]

Il senso comune non tollera che l’amore possa essere orientato a un oggetto infinito e dunque indeterminato. Esattamente come non è possibile per l’anima conoscere l’infinito che la costituisce non è possibile nemmeno amarlo. L’amore può essere orientato soltanto a qualcosa che sia circoscritto e riconoscibile. L’amore che provo verso l’oggetto è meritato dall’oggetto in tanto in quanto l’oggetto mi assomiglia o io posso riconoscermi in esso, o meglio, rispecchiarmi. Solo in quanto è lo stesso e non è altro, non è estraneo. È dunque l’io il criterio e l’unità di misura dell’amore, un criterio narcisistico.

Nella sua critica al precetto ebraico-cristiano, Freud coglie il nucleo e la sfida sovrumana e scandalosa che tale precetto contiene: estendere all’alterità infinita, indistinta, inaspettata e sorprendente, e cioè all’ignoto che si nasconde dietro ogni volto altro, quell’amore che è riservato al simile e al familiare.

Riprendendo Platone, Freud aveva riconosciuto il «nucleo dell’essenza di Eros» nell’ «intento di fare di più d’uno uno [die Absicht, aus mehreren eines zu machen[19]. Tuttavia accanto a Eros, anche il narcisismo aspira all’unità[20]. Ma aspira all’unità per esclusione e non per inclusione. Tendenza del narcisismo è fare a meno di ogni altro per fare uno. L’amore cristiano invece, dice sì alla alterità radicale là dove il narcisismo dice no. Dice sì all’apertura là dove il narcisismo invoca la chiusura. E nel punto in cui il narcisismo dice no, il narcisismo si confonde e si fonde con l’egoismo[21].

Due umani, estranei, si trovano uno di fronte all’altro e nello specchio che uno rappresenta per l’altro ognuno vede il diverso: «è molto verosimile che il mio prossimo, quando gli si comanderà di amarmi come ama sé stesso, risponderà esattamente come ho risposto io e mi respingerà per analoghe ragioni. Io spero che egli non abbia lo stesso diritto oggettivo che ho io, e d’altra parte egli la penserà allo stesso modo»[22]. Ognuno vede nel prossimo «non soltanto un eventuale soccorritore e oggetto sessuale» e dunque sé stesso, in una certa misura

 ma anche un oggetto su cui può magari sfogare la propria aggressività, sfruttarne la forza lavorativa senza ricompensarlo, abusarne sessualmente senza il suo consenso, sostituirsi a lui nel possesso dei suoi beni, umiliarlo, farlo soffrire, torturarlo e ucciderlo. Homo homini lupus: (540) chi ha coraggio di contestare quest’affermazione dopo tutte le esperienze della vita e della storia? Questa crudele aggressività è di regola in attesa di una provocazione, oppure si mette al servizio di qualche altro scopo, che si sarebbe potuto raggiungere anche con mezzi meno brutali. In circostanze che le sono propizie, quando le forze psichiche contrarie che ordinariamente la inibiscono cessano d’operare, essa si manifesta anche spontaneamente e rivela nell’uomo una bestia selvaggia, alla quale è estraneo il rispetto per la propria specie[23].

Il realismo dai toni hobbesiani non impedisce a Freud di tornare qualche anno più tardi, scrivendo ad Einstein, sul precetto cristiano e dire che se la psicoanalisi parla di amore «non ha bisogno di vergognarsi»[24]  perché «la religione dice la stessa cosa: “ama il prossimo tuo come te stesso”»[25]. Alla fine, dunque, Freud riconosce che psicoanalisi e cristianesimo condividono lo stesso fondamento etico. La validità di tale fondamento non è di carattere teologico ma dipende, da una parte, dalla intrinseca coerenza razionale di tale fondamento, dal fatto di essere, la formula evangelica, l’unica massima in grado di superare la prova dell’imperativo categorico; e, dall’altra, dal fatto che, per quanto «il Super-io altruista» sia messo a tacere in privato, «è difficile fare a meno degli altri», sicché noi umani «siamo condannati ad amare»[26]. Ma il punto più essenziale, vitale che rende necessario seguire l’imperativo nonostante la sua somma difficoltà è che non sceglierlo ci consegna alla pulsione di morte[27].

Anche nel carteggio con Einstein[28], Freud mantiene di fronte alla massima, la perplessità argomentata ampiamente nel Disagio della civiltà. Tale perplessità risulta evidente nel commento che segue la citazione della formula per cui l’esigenza che essa comporta è «facile da porre, ma difficile da realizzare»[29]. Tuttavia l’alternativa a Eros è la barbarie e la distruzione. Di qui la necessità di negoziare con l’altro in quanto estraneo e diverso nonostante l’impossibilità del compito.

Freud ci ha abituato all’impossibilità. Ma il fatto che qualcosa sia impossibile non è di per sé un buon motivo per lasciarlo intentato e per non affrontarlo rendendolo possibile fosse anche solo in una misura minima. Così come è impossibile analizzare, lo sono anche, ci ricorda Freud, governare e formare, cioè tutte quelle attività che rendono gli umani tali[30].

Da una parte, l’atemporalità dell’inconscio permette che «nessuno […] creda alla propria morte»[31], dall’altra, con buona pace dell’inconscio, la fine incombe su ogni vivente e agli umani, in particolare agli uomini della conoscenza non resta che passarsi il testimone:

L’impulso alla scienza, intesa come cultura che nobilita l’umanità, non ha, per l’insieme della specie, proporzione alcuna con la durata della vita. Il dotto, quando si è spinto nella cultura fino al punto di ampliarne il campo, viene chiamato dalla morte, e il suo posto è preso da uno scolaro che è partito dall’apprendere i rudimenti e che, poco prima che la sua vita finisca, dopo aver fatto più volte un passo avanti, lascia da capo il suo posto a un altro[32].

«Sopportare la vita» scrive Freud «questo è pur sempre il primo dovere d’ogni vivente […]»[33]. Ma prima ancora di tutti gli altri anche sopravvivere e vivere sono compiti impossibili resi possibili da Eros in una certa misura e cioè per un tempo limitato; da Eros in quanto agente di coesione e di resistenza alla disgregazione. Per un tempo limitato.

 

Un colpo di fortuna

La limitazione temporale, la caducità, rappresenta la più radicale, originaria e dolorosa ferita narcisistica. A questa ferita più di tutti si ribella un primo poeta: «No! è impossibile che tutte queste meraviglie della natura e dell’arte, che le delizie della nostra sensibilità e del mondo esterno debbano veramente finire nel nulla. Crederlo sarebbe troppo insensato e troppo nefando»[34]. A questa ribellione risponde l’invocazione di un secondo poeta che implora l’attimo di fermarsi[35]. È quanto cerca di dire anche Freud nel tentativo di persuadere e consolare il primo poeta: «il valore di tutta questa bellezza e perfezione è determinato soltanto dal suo significato per la nostra sensibilità viva, non ha bisogno di sopravviverle e per questo è indipendente dalla durata temporale assoluta»[36]. L’unica cosa che davvero conta, al di là dell’astrazione della misurazione in relazione all’assoluto di un tempo cosmico, è allora l’esperienza dell’esistenza che ogni singolo essere umano vive: l’unica, tangibile eternità che ci è concessa. Nel momento presente, nessun valore hanno per noi gli eoni che ci hanno preceduto e quelli che ci seguiranno; per noi precari imbarcati per meno di un attimo ineffabile ed effimero sulla nave dei vivi sospesa nel nulla.

Il riferimento alla teoria economica del valore e in particolare al concetto di scarsità può essere di aiuto per comprendere ancora meglio la fondatezza della risposta freudiana alla caducità. Se in termini economici è la scarsità ad essere la misura e a decidere del valore di un bene, a maggior ragione il valore, questa volta etico, di qualcosa e, in particolare, di qualcuno, sarà assoluto, dal momento che ogni singolo essere umano non si limita a essere “scarso” ma è unico. Otto miliardi di diamanti, o, piuttosto, otto miliardi di delicati narcisi. Se è vero che, come dice ancora una volta, e a ragione, un terzo poeta, “dai diamanti non nasce niente”.

Nel suo ultimo film Un colpo di fortuna [Coup de chance][37], Woody Allen racconta la storia di uno scrittore al quale, come capita in genere a ogni scrittore, la sua opera sopravvive. Che qualcosa o qualcuno ci sopravviva è la ragione per la quale fondamentalmente si scrive e si fanno figli. In questa opera il protagonista racconta del gioco delle probabilità – a cui allude il titolo del film – dal quale dipende la nascita e l’esistenza di ognuno di noi. L’esito del calcolo è sorprendente perché queste probabilità sono così esigue da approssimarsi praticamente a zero. Ognuno di noi è pertanto, di fatto, un’impossibilità che si realizza, un’impossibilità reale. Il venire all’esistenza di ogni umano avviene al crocevia in cui caso e necessità convergono e si confondono. Questa convergenza assume allora la forma del miracolo. Miracolo che forse giustifica un po’ la fragile autostima che ognuno di noi nutre o dovrebbe nutrire, la “mania di grandezza”, il senso di unicità, l’aspirazione a essere ammirati… Quattro sintomi su nove. Siamo salvi da una diagnosi sfavorevole; per un soffio.

 

Note:

[1] In questo modo, per Carlo Emilio Gadda i detti intellettuali si precluderebbero il titolo di “filosafi” infatti «Men che meno il narcissico può essere filosafo, o costituirsi discepolo di filosafi alla scuola d’Atene. La prima facultà del filosafo è l’attitudine a valicare (lat. transcendere), a dimenticare la posizione e i limiti (biofisici, storici) della propria persona. Il costruire sistemi filosofici sulla propria indole ghiandolare, cioè aventi la propria tiroide o le surrenali al centro e ad umbelico del mondo, non è operazione filosofica» (C.E. Gadda, Eros e Priapo, Adelphi, Milano 2016, p. 162).

[2] Cfr. S. Freud Introduzione al narcisismo (1914), in Opere, vol. 7, pp. 443-474; A. Green, Narcisismo di vita, narcisismo di morte, Raffaello Cortina, Milano 2018.

[3] Cfr. L. Kahn, Che cosa ha fatto il nazismo alla psicoanalisi, Alpes, Roma 2023.

[4] D.J. Kupfer, D. A. Regier et. Al.  (eds.) Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders DSM-V – Fifth Edition, American Psychiatric Library, Washington DC – London 2013.

[5] Si vedano, per esempio, tra gli altri, R. Whitaker, Indagine su un’epidemia, Fioriti, Roma 2013 e S. Benvenuto, Lo psichiatra e il sesso. Una critica radicale della psichiatria del DSM-5, Mimesis, Milano-Udine. 2021.

[6] Kupfer e Regier, Op. cit. p. 669.

[7] A proposito di narcisismo, di gran lunga preferibile di nuovo Gadda, una parodia non disgiunta da reale profondità clinica e metapsicologica fondata sulla lettura di alcune fondamentali opere di Freud in traduzione francese (Cfr. Paola Italia, Giorgio Pinotti, “Note al testo” in Gadda, cit. pp. 382 e ss.). Nelle pagine di Eros e Priapo, Gadda trasforma la psicoanalisi freudiana in poema in prosa, con una riproposizione, in versione contemporanea, di una forza di trasfigurazione letteraria e creativa analoga a quella con cui Lucrezio rende in versi la filosofia di Epicuro.

[8] Kupfer e Regier, Op. cit., pp. 669-670; traduzione mia.

[9] Ivi, p. 670; tratto peraltro in evidente contraddizione con il punto 1, supra nel testo.

[10] Eraclito 22 B 45 DK in G.Colli, La sapienza greca III. Eraclito, Adelphi, Milano. 1980, p. 63.

[11] A.Green, Op. cit., p. 50.

[12]S. Freud, Analisi terminabile, analisi interminabile (1937), in Opere, Vol. 11 pp. 499-538.

[13]Cfr. S. Freud, “Prefazione” a Il metodo psicanalitico del Dott. Oskar Pfister (1913), traduzione e presentazione di Davide Radice, https://www.analisilaica.it/2013/01/29/freud-e-lo-sguardo-umano-libero/ e C. Dal Bon, V.Ori, “Uno sguardo umano libero”, in E.Perrella, M. Manghi La psicanalisi come arte liberale. Etica, diritto, formazione, Polimnia, Sacile 2023, pp. 111-113.

[14] S. Freud “Una difficoltà della psicoanalisi” (1917), in Opere, vol. 8, p. 660-662.

[15] D’altra parte, già nel monologo ovidiano Narciso «oscilla tra il vedere l’immagine come sé e il vederla come altro […] L’oscillazione rende meno chiaro cosa significhi pienamente “conoscere se stessi”: conoscersi come radicalmente sdoppiati, fragili e ammaliati da un altro che, in ultima analisi, abita la propria interiorità. Narciso capovolge le nozioni ricevute di sé come fisso, autonomo, unitario» (M. Janan, “Narcissus on the text: psychoanalysis, exegesis, ethics” in «Phoenix»  Vol. 61, No. 3/4 (Fall – Winter, 2007), pp. 286-295, p. 288-289, traduzione mia).

[16] Cfr. A. Green, Op. cit., passim.

[17] S.Freud, Il disagio della civiltà (1930), in Opere vol. 10, p. 628.

[18] Ivi, pp. 597-598.

[19] Ivi,  p. 596.

[20] Cfr. A. Green, Op. cit. passim.

[21] D’altra parte, «c’è tuttavia indubbiamente una traccia di ironia» osserva Lou Salomé «nella circostanza che […] il coscienzioso, colui che vuole liberarsi nel modo più etico del proprio egoismo, è destinato a occuparsi continuamente di se stesso con massimo zelo e costanza, e sia nella gioia che nel dolore non può mai dimenticarsi completamente di sé. Per questo nell’atteggiamento etico si possono distinguere due diverse modalità di comportamento: una che deriva prevalentemente dalle richieste di valori poste dalla coscienza dell’io e che tende a mantenere l’io al centro di tutto, e un’altra che deriva dalle antiche capacità di identificazione del narcisismo, ma elaborata anch’essa in sogni di desiderio di indirizzo etico. Questo serve, per un preciso motivo, a un aspetto importante della cosa: palesemente qualsiasi etica ricava il suo carattere principale, cioè la sua incondizionatezza, la sua assolutezza, la sua validità universale, dall’apporto narcisistico originario, ancora tanto presente in tutto ciò che è eccessivo, e ci «eticizza» solo su questo materiale problematico. Si giunge così a effetti reciproci nei due sensi, di una paradossalità, a ben vedere, difficilmente superabile» (Lou A. Salomé, cit. in epigrafe p. 92).

[22] S. Freud Il disagio…, cit. p. 599.

[23] Ibidem.

[24] S. Freud, A. Einstein, Perché la guerra? (1933), in S. Freud, Opere, vol. 11, p. 300.

[25] Ibidem.

[26] A. Green, Op. cit. p. 50.

[27] Straordinaria in questo senso la caratterizzazione gaddiana della forma suprema del narcisismo morale coincidente con la perversione polimorfa infantile trasposta e fissata nell’individuo adulto, perversione che si manifesta nell’acrasia di fronte alla pluralità delle spinte pulsionali: «L’atto etico o la semplice determinazione mentale, l’assenso o il dissenso, comporta a certi momenti una scelta: cioè una acquisizione e una rinuncia. Il narcissico invece non istà scegliere, perché s’angustia di rinunziare a una qualunque intraveduta possibilità di magnificazione dell’Io, a una qualunque possibile penna da inserire nella raggera delle penne che gli illustrano il culo: e vuol essere Bruno e vuole essere il Bellarmino ad un tempo. Questa è nel narcisista una delle più caratteristiche aberrazioni: questo voler imbarcar tutto, i lupi e gli agnelli sull’Arca onnialbergatrice della propria vanità. Questo credere, o dare a divedere di credere, nei Vangeli contraddittori». (C. E. Gadda, Eros…, cit., pp. 167-168).

[28] S. Freud, A. Einstein, Perché la guerra?, cit. p. 287 e ss.

[29] Ivi, p. 300.

[30] Cfr. S.Freud, Analisi terminabile… cit., p. 531.

[31] S.Freud, Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte (1915), in Opere,  vol. 8, p. 137.

[32] I. Kant, Antropologia dal punto di vista pragmatico (1798), a cura di Michel Foucault, traduzione di Gianluca Garelli, Einaudi, Torino 2010, p. 343, Akademie Ausgabe vol. VII, p. 325.

[33] S. Freud Considerazioni attuali… cit., p. 148.

[34] S. Freud, “Caducità”, in Opere, vol. 8, p. 173.

[35] Cfr. J.W.Goethe, Faust II (1832), vv 11581-11585.

[36] S. Freud “Caducità”, cit. p. 174.

[37] W.Allen, Un colpo di fortuna [Coup de chance], France-United Kingdom 2023.

(Immagine di copertina: Narciso, I sec. d.C)