Triade. Uno studio di tre autoritratti di Aurélia de Souza – di Elena Komissarova

Triade. Uno studio di tre autoritratti di Aurélia de Souza – di Elena Komissarova

21 Marzo 2024 Off di Francesco Biagi

Prologo

Questo studio si propone di analizzare tre opere selezionate della pittrice portoghese Aurélia de Souza (1866-1922) attraverso il prisma della semiotica applicata al campo dell’arte plastica, in questo caso la pittura figurativa. Questo approccio sarà possibile se consideriamo un’opera pittorica – un oggetto plastico – come un oggetto teorico. La natura intersistemica dei riferimenti intertestuali delle opere studiate servirà come base per questa comprensione.

Studiando l’autoritratto di Aurélia de Souza e avendo continuato a lavorare su questo argomento nell’ambito dell’attuale inventario dell’opera di questa pittrice,[1] ho concluso che le opere Autorretrato com o Laço Negro, Autorretrato do Casaco Vermelho e Santo António (Autoritratto), realizzate all’incirca[2] tra il 1895 e il 1902 presentano caratteristiche specifiche comuni. Queste tre opere formano un gruppo con una propria struttura, realizzato in un particolare intervallo temporale, e che presenta un caratteristico ritmo dinamico e interno, oltre ad un tema comune. Partendo dall’individuazione dei riferimenti intertestuali suggeriti dalle opere oggetto di studio, presenterò l’ipotesi che i tre dipinti possano essere riconosciuti o letti come una triade. In questo contesto, la triade è intesa come un gruppo di tre entità o opere della stessa natura, unite da un tema comune. Nell’analisi strutturale di questa triade ricorrerò alla formula universale adottata nella composizione musicale. Questa possibilità si fonda sull’evidente rapporto/reciproca ispirazione tra pittura e musica, che può costituire uno strumento metodologico per approcciare un’opera d’arte come parte di un sistema semiotico complesso.

 

Aurélia

«Un inizio di vita che prometteva avventure…» (Oliveira 2011, 271) 

Nel capitolo dedicato all’autoritratto femminile nel suo libro del 2006, Omar Calabrese osserva che, a differenza dei pittori, che spesso scelsero di autorappresentarsi per tutta la vita, la maggioranza delle artiste si dedicò a questo genere nel periodo iniziale della loro vita (2006, 116)[3]. Questa particolarità evidenziata da Calabrese si applica perfettamente all’artista di Oporto, poiché i suoi autoritratti più emblematici sono stati realizzati proprio durante il periodo dei suoi studi. Aurélia de Souza, figlia di emigranti portoghesi in Cile e Brasile, nacque a Valparaíso (Cile) nel 1866. Ma all’età di quattro anni era già in Portogallo, dove la sua famiglia era tornata, stabilendosi alla periferia della città da Oporto. È lì, in una proprietà secolare dal nome poetico di Quinta da China[4], che, salvo brevi periodi, la pittrice trascorre tutta la sua vita. La sua carriera accademica iniziò presso l’Academia Portuense de Belas Artes, essendo stata allieva di Marques de Oliveira. Da quel momento in poi, senza aver completato l’ultimo anno, la pittrice si recò nella capitale francese per iscriversi alla famosa Accademia Julian, dove fu allieva di Jean-Paul Laurens e Benjamin Constant. Erano i primi anni del XX secolo quando Aurélia de Souza, durante un lungo viaggio attraverso l’Europa, tornò a Oporto. Stabilì il suo studio a Quinta da China e da lì esercitò la professione per altri due decenni fino, probabilmente, al suo ultimo giorno (Oliveira 2006, 374-375; Komissarova 2022, 23-29).

 

Contesto 

L’opera di questa pittrice, la prima artista donna di tale portata ad apparire in terra portoghese due secoli dopo Josefa de Óbidos (1630-1684), rivela il suo segno inconfondibile con una forza tale che l’ascesa, nello stesso secolo, delle due grandi protagoniste della costellazione artistica femminile portoghese Helena Vieira da Silva (1908-1992) e Paula Rego (1935-2022), sembra una reazione naturale. Tuttavia, pochi capirono la pittrice di Porto ai suoi tempi. I contemporanei la vedevano piuttosto come la «pittrice di fiori» (Silva 1992, 28) e, in occasione della grande mostra postuma del 1936, un critico così sintetizzava l’ampiezza tematica della sua opera – «la pittrice di fiori, uccelli e bambini»[5]. Ci volle quasi un secolo dopo la realizzazione delle sue opere perché molti ne riconoscessero il merito e la considerassero «una delle personalità artistiche più importanti del Novecento» (Silva 1992, 8)[6].  Queste opere – che emergono come un evento isolato nella pittura del loro tempo e mettono in risalto l’autrice tra i suoi contemporanei – sono ritratti, più precisamente i suoi autoritratti.

 

Autoritratti

Gli autoritratti formano un nucleo compatto e occupano una posizione assolutamente centrale nella vasta opera[7] di Aurélia de Souza, irradiando una forte influenza sulla sua totalità. In queste undici opere[8], quasi del tutto nascoste ai suoi contemporanei durante la vita dell’artista, la domanda Chi sono io? – come questione identitaria o filosofica – trova risposta attraverso una formula plastica impressionante e originale. Osservando i tre autoritratti oggetto di studio, eseguiti in sequenza temporale in modalità compressa (1895, 1900 ca., 1902 ca.), qui intesi nella loro dinamica interna, rileviamo un filo conduttore legato ad un tema che unisce queste opere autonome in un’unica opera. Questo lavoro, che chiamo triade, rivela la struttura stessa dell0opera.

Per analizzare questo fenomeno, avendo già fatto ricorso alle nozioni di tema, sequenza in compressione, ritmo e dinamica, tra i vari esempi di forme ternarie presenti nello spazio della creazione artistica, ne abbiamo adottato uno appartenente alla composizione musicale. Questa è la forma sonata, considerata da molti la «forma più alta di composizione»[9] (Mazel 1979, 365).

 

Forma sonata

La forma-sonata presenta una struttura ternaria costruita attorno ad un tema che si sviluppa attraverso i seguenti movimenti: I. Esposizione; II. Sviluppo; III. Riesposizione. Questa forma termina spesso con una Coda (paragonabile ad un postscriptum). Una caratteristica particolare della forma sonata, essenziale per la nostra indagine e che giustifica il trasporto intertestuale intersistemico, è il fatto che essa è l’unica forma musicale capace di trasportare il dramma esclusivamente attraverso strumenti musicali, cioè senza ricorrere ad alcun supporto verbale (non c’è testo o titolo che accompagni la narrazione, come nel caso dell’opera o della musica a programma). Questa capacità si manifesta attraverso l’individuazione del tema (attraverso le sue caratteristiche musicali identificative) e della sua traiettoria.

 

  1. Esposizione

«The first part is called the Exposition, or the announcement»

(Macbeth 1915, 22)

Qui  viene presentato il tema principale, ovvero l’esposizione come  annuncio del tema dell’intera opera. Per riferirci alle proprietà di questo tema possiamo basarci sull’esempio della sonata beethoveniana, perché nell’opera di questo compositore «il tema non è più un semplice disegno; (…) diventa un’idea, un personaggio» (Hodeir 2002, 89).

 

 

Cabeça de Estudo/Autorretrato com o Laço Negro (1895)

 

La prima opera oggetto di studio – Autorretrato com o Laço Negro[10] – fu l’unico autoritratto esposto durante la vita della pittrice[11]. Presumiamo anche che si tratti di un’opera molto speciale per Aurélia, in quanto appare come un ricorrente riferimento a se stessa, apparendo sullo sfondo di un altro suo dipinto[12], e che sia stata scelta[13] per essere appesa accanto a lei in un ritratto fotografico[14] realizzato dall’amico e vicino Aurélio Paz dos Reis[15]. Questa tela suggestivamente incompiuta, fatto che la rende ancora più interessante[16], appare negli anni in cui Aurélia si concentra sui suoi studi presso l’Accademia Portuense[17].
Riguardo a quest’opera e sottolineando l’insolito accessorio, Ruy de Almedina ha scritto sulla rivista A Arte:

Aurélia de Souza (…) espone un capo di studio (la sua stessa testa) veramente bello, con i suoi accenni di colombanesimo. È un lavoro che onora il modesto allievo della nostra Accademia e che, senza disdegno, una persona consacrata potrebbe attribuire. Un solo difetto: il cappio attorno al collo dà l’impressione di quasi strangolarla (Almedina 1895, 165).

L’accessorio che catturò allora l’attenzione della critica è infatti un elemento importante per questa immagine sorprendentemente moderna. Il primo oggetto che attira l’attenzione, facendo a gara con la peculiare espressione del volto della modella, è l’enorme e grottesco fiocco di raso nero. Come nota Almedina, l’arco quasi soffoca la pittrice, fungendo da contrappeso al suo corpo avvolto in un ampio abito bianco e con la testa spinta all’indietro. L’espressione del viso con la bocca semiaperta può suggerire una respirazione rapida. L’artista disegna i lineamenti del proprio volto con precisa verosimiglianza, ma ignora o annulla ogni attrattiva o giovinezza. Insomma, il volto pallido, lavato o neutralizzato, e avvolto da una foschia incerta (nebbia? polvere di riso? polvere di dietro le quinte?) subisce, in un gioco degli elementi sopra menzionati, una metamorfosi e risveglia la nostra memoria involontaria, evocando un altro personaggio dalla faccia infarinata – Pierrot[18].

 

Pierrot-artista

Pierrot, il simbolo universale dell’artista solitario, alienato e malinconico, è un’immagine archetipica. Il clown bianco, appassionato e triste è stato adottato come effigie alter ego da molti artisti.

 

Composição (1895-97?)

 

La nostra associazione non sarebbe plausibile se non menzionassimo che il personaggio Branco-Pierrô appare nell’opera di Aurélia più di una volta. Si tratta di un piccolo acquerello, quasi monocromatico, che con raffinata eleganza grafica che suggerisce un tocco di giapponesismo[19] rappresenta Pierrot nel tentativo utopico di abbracciare la propria ombra (eidôlon?)[20]. La luna, dall’aspetto stranamente sinistro, accompagna gli sforzi della figura solitaria, che spalanca la bocca in una risata cruenta. L’intera messa in scena annuncia la rottura totale dell’armonia storicamente instaurata tra l’Artista e il suo fedele compagno notturno – scompare l’aura romantica del rapporto tra Poeta e Luna (l’Artista alienato? la Luna carnivora!? Il Mondo è avvolto nella dissonanza). Senza essere esattamente un’illustrazione, la piccola opera di Aurélia si rivela graficamente come precorritrice di una delle opere d’arte più importanti del XX secolo: il Pierrot Lunaire di Arnold Schönberg[21]. Quest’opera traccia il percorso della nuova arte e, secondo Theodor W. Adorno, «conduce (…) ad una terra di nessuno. Nel Pierrot Lunaire (…), dove l’essenza immaginaria e la totalità della dissonanza si uniscono in modo cristallino, questo aspetto dell’arte moderna si realizza per la prima volta» (2016, 70).
Ritroviamo lo stesso livello di affinità, questa volta cromatica, tra l’acquerello aureliano e l’opera poetica che servì da base per l’opera musicale di Schönberg del 1912, l’omonima poesia di Albert Giraud, la cui trama prevede:

 

Notte:

Farfalle nere e sinistre

Hanno ucciso la luce del Sole;

Pierrot, che diventa un ladro di rubini rossi e profana la cerimonia religiosa, stringendo il cuore tra le dita insanguinate:

Rossi rubini, principesche

Gocce di sangue dell’antica gloria

Luna, completamente ostile e implacabile – Pierrot è condannato a forza ed è la luna che lo decapiterà

I poeti sanguinano in silenzio

Brillando nel sangue scarlatto

Una corona reale rossa (Ly 2005, 118-119)

Ciò che attira l’attenzione su questo piccolo acquerello è il fatto che raffigura tre personaggi archetipici con una storia di rappresentazione molto ricca nella cultura occidentale. Se ci mettiamo nei panni degli appassionati di psicologia amatoriale e ci avventuriamo a interpretare questa immagine sulla base degli studi junghiani[22], – secondo cui la Luna è la coscienza femminile[23] e l’incontro con l’Ombra stessa significa l’incontro con se stessi[24] – otteniamo un’immagine sorprendente per la sua modernità: l’Artista frammentato.

È anche importante notare che l’autrice, che non sempre firmava le sue opere, questa volta scrive il suo nome completo proprio sotto la figura di Pierrot e della sua fuggitiva Ombra, invece di farlo completamente in basso a destra o in alto a sinistra, gratuitamente, come ci si aspetterebbe. Questo gesto, tanto simbolico quanto affermativo e racchiuso nel tema sopra citato, suggerisce che siamo di fronte ad un lavoro auto-rappresentativo.

In questo contesto, possiamo supporre che entrambe le opere analizzate (olio e acquerello), siano state realizzate all’incirca nello stesso periodo[25], rappresentano in modo diffuso un personaggio archetipico – l’Artista (Pierrot) – e che questo è stato scelto dalla pittrice come sua autorappresentazione e come proprio tema.

 

Sviluppo

Questa parte stabilisce un’analogia diretta con l’ampliamento, l’introspezione, la revisione, la meditazione e la preghiera, ed «è una vera prova di originalità e musicalità» (Macbeth 1915, 24). L’importanza dello sviluppo è testimoniata dal fatto che in questa sezione si raggiunge il culmine dell’intera opera ovvero il momento definito «un climax intelligibile» (30). Secondo diversi musicologi[26], è nello sviluppo che si trova la sezione aurea (sectio divina), che, secondo Rozenov[27], rappresenta un punto culminante. Innanzitutto questo punto aiuta a delineare le parti principali dell’opera e a stabilirne le proporzioni rispetto all’insieme.

In secondo luogo, ma con pari importanza, lo stesso punto serve anche a sottolineare il culmine della crescente aspettativa. Infine, avendo collocato il climax in un luogo così preminente per l’immediata percezione sensoriale, esso si rivela il momento di maggiore tensione emotiva dell’intera opera.

 

 

Autorretrato do Casaco Vermelho (c. 1900)

 

(…) il gioco dei motivi non annulla la drammaticità della postura della testa, perché la sua assialità contiene un’interpellanza eccessiva. Come se, in uno spazio inquietantemente classico, stesse per verificarsi un’esplosione. È stato questo tempo di attesa (o di abisso) che Aurélia ha immobilizzato in quest’opera, che è il più bel autoritratto della pittura portoghese (Silva 1992, 40).

È davvero difficile, per diversi motivi, avvicinarsi a quello che è considerato il capolavoro assoluto di Aurélia de Souza. Innanzitutto perché questa tela relativamente piccola è un’opera auratica e quest’aura è inquietante. D’altronde, questa «opera insolita nella pittura del [suo] tempo» (França 1981, 69) ha avuto una straordinaria fortuna critica e, tenendo conto delle più appassionate dichiarazioni degli storici e del grande pubblico sul fascino che suscita, è difficile elaborare un’analisi imparziale, poiché qualsiasi nuovo approccio sembra obsoleto.

C’è una dualità o una forza contraddittoria contenuta nel volto – qualcosa che attrae e allo stesso tempo respinge il suo osservatore. La distanza che questo schermo relativamente piccolo richiede al suo spettatore è creata dallo sguardo che la modella ci offre e questo sguardo è uno dei due momenti maggiormente evidenziati dai suoi studiosi e spettatori. Gli occhi della modella sono leggermente chiusi, come diretti verso la luce, e lo sguardo specchiato, così diretto e allo stesso tempo impossibile da incrociare, «contiene questa inquietante suggestione di elevazione» (Silva 1992, 40). Un altro elemento che col tempo si è integrato nel titolo stesso dell’opera[28] è il colore del mantello, vibrante e potente. Nel contesto dell’opera, questo è il colore del martirio[29] e del sacrificio e anche il colore clericale e cerimoniale. Questi sono elementi che ci incoraggiano a cercare indizi oltre la consueta zona tematica del ritratto-autoriflessione convenzionale.

Rischiamo di interpretare questa immagine del 1900 associandola a uno stilema del tutto estraneo al «naturalismo senza macchia» (Oliveira 2006, 498) a cui appartiene. Il formato di questo dipinto iconico, la sua scelta cromatica, la posizione del volto, l’ascetismo dell’immagine e, soprattutto, lo spirito che trasmette sono elementi che evocano, infatti, una vera icona e un’immagine liturgica – l’icona bizantina o dell’antica Russia.

Ricordando il motto ortodosso presentato da Michel Quenot – «l’ortodossia non seziona né analizza, ma contempla il mistero» (1997, 46) – e comprendendo che l’icona è la dottrina stessa (non scritta, ma dipinta) troviamo un’affinità sorprendente tra l’idea di sacra rappresentazione e questa immagine che trascende l’autoriflessione con la sua portata mistica.

Come si riflette questa idea nella risoluzione plastica e cromatica di quest’opera? Il colore nero dello sfondo della tela, espresso nella totale assenza di luce che quasi assorbe i capelli della modella, evidenzia la bidimensionalità nella presentazione del volto che emerge da questa oscurità infinita. Il colore celeste è evidente nella camicetta blu. In questo contesto, il rosso vibrante del manto è il colore dell’abito liturgico che, come una fanfara, annuncia il momento della rivelazione o, meglio ancora, l’evento.

Aggiungiamo altri elementi che giustificano questo confronto:

  • Bidimensionalità intenzionale[30] (la pittura occidentale è bidimensionale, ma tende a imitare la profondità e a essere tridimensionale);
  • L’ascetismo[31] del volto (nel suo senso più stretto come concetto e come elemento tecnico nella rappresentazione);
  • una dinamica nascosta che porta il volto della modella verso la luce[32], che appare dal fondo abismatico dello schermo;
  • minimalismo dell’immagine: tutto si concentra sul viso[33].

Riconosciamo la modella, ma il suo volto è ben lungi dal soddisfare i parametri estetici del ritratto naturalistico. L’inquietante stranezza[34] di questo volto con la sua tinta terrosa[35] e la sua inespressività evoca l’idea di una bellezza differente – l’Icona?

L’immagine del futuro liturgico[36] è il volto della persona trasformata, il volto del risorto. È per questo motivo che affermiamo che l’icona non è un ritratto[37], ma piuttosto, secondo il filosofo Evgenii Troubetzkoy (1863-1920), «il prototipo dell’umanità futura» (1965, 23).

L’evento, annuncio del colore del costume cerimoniale, è evocativo dell’«energia della morte che rallegra» (Silva 1992, 18) nello spazio di questo schermo, all’interno del custodito specchiato del ritorno creando una zona quasi atmosferica di tensione. Con una forza difficile da superare, costringendo lo spettatore a mantenere una distanza rischiosa. Schopenhauer, citato da Troubetzkoy, invita lo spettatore e assume un approccio simile:

(…) nei confronti delle grandi opere d’Arte dobbiamo avere lo stesso comportamento che abbiamo nei confronti delle persone di Alta Realità. Sarebbe inaccettabile iniziare prima a parlare, ma dobbiamo stare davanti a loro e aspettare che decidano di parlare con noi. Con l’Icona è la stessa cosa (…) soprattutto perché l’Icona è più di un’Arte. Aspettare che lei ci parli può richiedere tempo perché la distanza tra noi è grande (1965, 35).

 

III. Riesposizione

Nell’ultima sezione ritorna il tema principale e questa volta è presentato in «modo pronunciato, in una sequenza meno rigida che nell’esposizione» (Macbeth 1915, 25). «Questa sezione trova la sua risoluzione quando il fatto apparente della riesposizione si coniuga con una trasformazione/metamorfosi del tema principale senza interromperne lo sviluppo» (Mazel 1979, 408). In altre parole, il tema principale ritorna in forma libera, metamorfizzata o addirittura burlesca.

 

Santo Antonio (Autoritratto) (1902)

 

Si dice che Sant’Antonio da Padova (nato a Lisbona e patrono di questa città) fosse il santo più ammirato da Aurélia de Souza. Non sappiamo se questa simpatia sia legata a un particolare miracolo di «un affettuoso protettore del Portogallo» (Ferreira 2019, 120) o al fatto che il compleanno della pittrice coincide con la festa del Santo (festeggiata il 13 giugno)[38], evocando il giorno della morte del Santo e celebrandone l’eredità). In ogni caso, nessuna delle ipotesi sembra spiegare la complessità di questa immagine sorprendente e probabilmente unica nel suo genere.

Il dipinto, quasi monocromatico e di formato molto raro per la produzione aureliana[39], rappresenta la figura del Santo in piedi, a grandezza naturale ed occupante quasi l’intero schermo, nell’atmosfera cupa di una cella monastica. Il fragile corpo del Santo, leggermente piegato nella zona del busto, è vestito con il tradizionale saio francescano che si fonde con il colore dello sfondo della cella, dove si notano le sagome dei libri e della croce. La figura è colta in un momento quasi dinamico – quando compie un passo leggero e instabile – rappresentato dall’immagine del piede nudo.

Le mani si intrecciano in un gesto ambivalente che può essere interpretato come un segno di attenzione o un invito al silenzio e che, in entrambi i casi, richiede la massima concentrazione. Degna di nota è anche l’espressione leggermente in attesa del suo viso con le sopracciglia leggermente alzate. Attorno alla testa appare un’aureola disegnata da una linea sottile e leggermente scintillante. Niente di tutto ciò sarebbe molto diverso da qualsiasi altra rappresentazione di una figura biblica o mitologica se l’artista non avesse prestato al Santo «il suo volto, le sue mani e l’elegante fragilità del suo corpo» (Silva 1992, 86).

È difficile separare quest’opera dal contesto della lunga tradizione delle immagini teofaniche, in particolare degli autoritratti. A livello internazionale, si dovrebbe fare riferimento al famoso Autoritratto di Dürer (1500) (spesso citato nella critica all’Autoritratto di Aurélia del 1900) o all’opera di Rembrandt – Autoritratto come San Paolo (1661) –, tra molti altri esempi. . Guardando alla pittura nazionale portoghese, ricordiamo la galleria di ritratti del XVI secolo che rappresentano i re come santi o la grande opera d’arte portoghese creata all’inizio del XX secolo – Ecce Homo –, di António Carneiro. Vale la pena citare un altro esempio di autoritratto femminile: l’opera Autoritratto come Nostra Signora di Lourdes (1927), di Maria de Lurdes Mello e Castro. In ogni caso, però, non abbiamo trovato nessun esempio di santo travestito…

Nel contesto culturale dell’«età dei movimenti», questa immagine androgina[40] e impregnata di simbolismo primordiale[41] potrebbe essere letta come un «simbolo dell’unione creativa degli opposti» o come «un simbolo del sé, dove la guerra degli opposti incontra la pace» (Jung 2002, 175).

Nell’era moderna, la riflessione critica si estende alle autorappresentazioni fotografiche di Cindy Sherman[42]. Nell’era moderna, la riflessione critica si estende alle autorappresentazioni fotografiche di Cindy Sherman. Un’ipotesi di lettura può sorgere se guardiamo con attenzione la serie di fotografie probabilmente scattate dalla stessa Aurélia de Souza, anch’essa ottima fotografa[43].

 

Fotografie scattate [probabilmente] dalla stessa autrice in preparazione al suo Sant’Antonio.

Fonte: Catalogo dell’Esposizione del 2016;

Sant’Antonio (olio).

 

Il primo aspetto che notiamo nelle immagini che immortalano l’artista nel suo studio, mentre prova il suo Sant’Antonio in costume francescano probabilmente da lei stessa realizzato, è il lavoro coreografico portato avanti dall’autrice. È chiaramente visibile come l’attenzione sia posta sulla plasticità del proprio corpo, più precisamente sul gesto delle mani inquieto e coreografico (Oliveira 2006, 522) che sostiene la trasmissibilità del messaggio che si cerca di comprendere.

Nell’ambito delle esperienze artistiche fin de siècle, questo esercizio sarebbe molto più aderente alla pratica del teatro drammatico (che in questo periodo stava subendo trasformazioni caratterizzate da una particolare attenzione alla plasticità del corpo dell’attore, visto «come una materia infinitamente modellabile e modellabile, materiale controllabile») (Fisher-Lichte 2019, 187)[44]. Seguendo questa linea è interessante trovare un’allusione ad un brano drammatico contemporaneo dell’opera in studio. Si tratta dell’opera teatrale Milagre de Santo António di Maurice Maeterlinck, creata nello stesso anno del dipinto aureliano. Oltre alla data, troviamo almeno tre elementi comuni tra l’opera dello scrittore e drammaturgo belga e quella della pittrice portoghese: 1) lo stesso protagonista – Sant’Antonio. Il ritratto verbale e il ritratto plastico, entrambi molto diversi dalla tradizionale rappresentazione di questo santo, ci mostrano un carattere molto umano, fragile, indeciso e incline a continui dubbi. Nell’opera belga, questi si manifestano attraverso l’intensità della luce trasmessa dall’alone. Allo stesso modo, l’aureola poco pronunciata di Sant’Antonio illumina appena le sue incertezze; 2) l’ambiente (che unisce il generale, l’universale, il particolare e il quotidiano) dove appare il Santo; 3) Il momento mistico e intimo – «il sacro discende nel quotidiano» (Silva 2023, 139) – delle tele aureliane, che uniscono nel loro spazio il generale, l’universale, il particolare e il quotidiano, si fonde con l’inconfondibile atmosfera che Maeterlinck creò per l’apparizione del suo Santo – «oggi, in una casa comune, in una piccola città di provincia dei Paesi Bassi (…)» (Teixeira de Mattos 1918). 4) La compagna discreta di questo evento e della stessa narrativa – l’Ironia.  L’ironia è l’essenza dell’opera O Milagre de Santo António (idem). A loro volta, gli atteggiamenti ironici di Aurélia che appaiono nel suo universo plastico[45] questa volta probabilmente si manifestano in modo più acuto e, allo stesso tempo, poetico. Nella rete di collegamenti che abbiamo instaurato analizzando la prima opera, questa allusione, che rivela il rapporto tra le correnti d’avanguardia del teatro drammatico e la pittura naturalista (pur con innegabili tracce di simbolismo), stabilisce anche un collegamento con l’opera precedenti, evidenziando la riscoperta delle avanguardie. Questo è il rapporto tra azione liturgica e prassi artistica, a cui fa riferimento Giorgio Agamben: «(…) la contrapposizione tra pratica d’avanguardia e liturgia, tra movimenti artistici e movimenti liturgici, non è assurda. (…) Le avanguardie e le loro derivate contemporanee meritano di essere lette come l’assunzione chiara e quasi consapevole di un paradigma essenzialmente liturgico» (2019, 9,11).

 

Epilogo:

Riconoscendo che il periodo in cui le tre opere oggetto di studio sono state realizzate (seguendo effettivamente le regole accademiche e rispettando le tipologie ritrattistiche più comuni, ovvero testa, busto e figura intera) coincide con il periodo in cui le questioni identitarie sono state poste dal giovane autore con la massima intensità, possiamo considerare queste opere come immagini identitarie.

Possiamo provare a comprendere l’evoluzione di queste immagini organizzandole schematicamente sotto forma di triangolo: partendo dall’immagine archetipica dell’Artista; salendo con un movimento vertiginoso verso il suo punto più alto – l’immagine spirituale, l’Icona (segnando così simbolicamente, con la data della sua creazione, il cambio di secolo e le trasformazioni ad esso legate) – e ritornando alla drammatizzazione burlesca e ironica del Santo (ritornando così alle origini – tema dell’Artista). Concludiamo così che l’artista portoghese, senza cambiare nulla nella sua resa plastica di incontaminata naturalista con un tocco di simbolismo, è riuscita a far transitare le idee delle avanguardie artistiche, creando un’opera in forma di triade, nella quale possiamo riconoscere l’unità nella diversità delle immagini identitarie che abbiamo analizzato.

 

Note: 

[1] Il catalogo raisonné di Aurélia de Souza, la cui uscita è prevista per la fine del 2023, funge da base informativa per questa indagine.

[2] Aurélia de Souza non sempre firma e raramente data le sue opere. Il team di ricercatori che sta elaborando il catalogo ragionato di questo artista, e di cui l’autrice fa parte, è responsabile della datazione approssimativa basata su documenti d’epoca.

[3] Nonostante l’autore si riferisca ad un periodo storico particolare, crediamo che questa sia una caratteristica generica.

[4] Proprietà familiare affacciata sul fiume Douro e situata alla periferia della città di Porto. Questo luogo – un mondo verde e quasi ermetico – era la sua patria e la casa dove, in una torre d’avorio, aveva sede il suo studio.

[5] Sottotitolo dell’articolo «Aurélia de Souza, pintora admirável», di un anonimo critico, pubblicato il 15 luglio 1936 sul Jornal de Notícias.

[6] Il riconoscimento internazionale della pittrice ebbe inizio nel 1987 con l’importante risalto datole nell’esposizione Soleil et Ombres. L’Art Portugais du XIXème Siècle, realizzata a Parigi e commissionata da José Augusto Franças, e attinse il suo auge nell’esposizione 1900: Art at the Crossroads, realizzata nel 2000 presso la Royal Academy di Londra e presso il Museo Guggenheim di New York. L’Autoritratto com cappotto rosso fu esposto in entrambi gli eventi.

[7] Secondo l’ultimo inventario, si contano più di 400 opere, tra cui ritratti, autoritratti, dipinti di genere, paesaggi, nature morte, dipinti con temi religiosi e storici, accademie, disegni e illustrazioni.

[8] Secondo il catalogo ragionato di Aurélia de Souza, in uscita alla fine del 2023, ci sono undici autoritratti, compresi i dipinti A Mão da Artista (CR n. º9), Mãos da Artista (CR n. º10) e No Atelier (CR n. º11).

[9] La traduzione di citazioni da opere di autori stranieri è a carico dell’autore.

[10] Sebbene il titolo originale fosse Cabeça de Estudo, l’opera fu subito riconosciuta come un autoritratto. Il secondo titolo appare per la prima volta nella monografia del 2006 di Maria João Lello Ortigão de Oliveira.

[11] Aurélia ottenne il suo primo risalto critico con l’esposizione di questo dipinto e, da questo evento in poi, questa divenne una delle sue opere più riprodotte.

[12] Si tratta di No Atelier.

[13] Molto probabilmente dall’artista stessa, anche un’eccellente fotografa.

[14] Questa fotografia è stata scelta per la copertina del Catalogo della Mostra 2016 ed è considerata da molti una delle ultime immagini di Aurélia.

[15] Aurélio Paz dos Reis (1862-1931), fotografo e cineasta portoghese.

[16] Il fatto che sia firmato dimostra che era finito, ma l’intenzione dell’autore di lasciarci con questa incertezza è giustificata dalla seguente idea di Plinio il Vecchio: «È (…) un fatto molto singolare e memorabile che le ultime opere degli artisti e i loro dipinti incompiuti (…) sono più ammirati di quelli finiti, poiché in quei dipinti sono visibili i disegni preliminari lasciati in vista e i pensieri degli artisti» (Oliveira 2018, 319).

[17]La pittrice aveva 29 anni quando realizzò questo dipinto e frequentava il 5° anno di Disegno Storico presso l’Accademia Portuense.

[18] Il volto infarinato, l’ampio costume bianco e un accessorio nero (come il fiocco, il jabô o il collare che veniva soprannominato dal nome di chi lo indossava – collare Cabeção-Pierrot) sono attributi di questo personaggio della Commedia dell’Arte.

[19] Come ha osservato Raquel Henriques da Silva nella sua monografia del 1992: «Vi è in questo disegno un suggerimento di haiku, il breve poema giapponese che in due strofe riunisce il massimo di descrizione e il massimo di astrazione. O, più correttamente, di un haiku più scritto (a pennello)» (1992, 87).

[20] Per i greci antichi, l’eidôlon è una immagine spirituale di una persona viva o morta. Secondo Debray, «l’eidôlon arcaico designa l’anima (…) che si avvolge di sopra [il corpo] nella forma di una ombra impercettibile, il suo doppio (…). L’immagine è l’ombra e l’ombra è il nome comune del doppio» (Oliveira 2011, 288).

[21] Pierrot Lunaire, Op. 21, (1912) è un ciclo di canzoni (voce e piccolo ensemble musicale) di Arnold Schönberg (1874-1951). Il compositore austriaco che scopre una nuova modalità sonora – quella dell’atonalità – implementò la dissonanza nel linguaggio musicale di questa opera che ha come base poesie selezionate del poeta belga Albert Giraud (1860-1929) datate 1884.

[22] Parliamo delle diverse opere di C. J. Jung scritte tra il 1929 e il 1941 e riunite sotto il titolo di Mysterium Coniunctionis.

[23] «(…) the moon has some connection with the human mind (…) In a woman, the moon corresponds to consciousness (…)» (Jung 1977, 162-167).

[24] «O encontro consigo mesmo significa, antes de mais nada, o encontro com a própria sombra» (Jung 2002, 31).

[25] Sulla base della classificazione temporale suggerita da Lúcia Almeida Matos (Aguiar 2012, 179) per le diverse forme di firma, possiamo collocare quest’opera, senza assoluta precisione, negli anni vicini all’Autorretrato com o Laço Negro.

[26] Ver Э. К. Розенов,”Закон золотого сечения в поэзии и музыке”, 1904; «Mузыка», 1982, c.119-157;
Maзель Л., Опыт исследования золотого сечения в музыкальных построениях в свете общего анализа форм, 1930, «Музыкальное образование», n.2; Timerding H.E. 1937. Der goldene Schnitt, 4 Auff, Leipzig: Teubner-Verlag.

[27] Rozenov E. (1861-1935) è stato un matematico, musicologo e critico russo. Nel 1904 presentò la sua tesi sulla percezione della simmetria e sulle dinamiche presenti nelle opere musicali e poetiche. Il suo interesse per la sezione aurea, che espresse in un’intensa ricerca biometrica, fu condiviso da diversi musicologi russi come Mazel, Yavorsky e Conus.

[28] Il termine “cappotto rosso” compare per la prima volta anche nella monografia del 2006 di M. J. Ortigão de Oliveira.

[29]Si veda il paragone analogico di J. Hall: «(…) una Giovanna d’Arco come una Sfinge, pronta alla battaglia (…)» (Hall 2022, 35).

[30] A bidimensionalidade dos ícones é uma condição profundamente espiritual, mas também é uma das caraterísticas associadas à técnica da pintura sobre superfícies duras – os ícones são tradicionalmente pintados sobre madeira.

[31] L’estetica dell’ascetismo, plasmata fin dall’inizio del Cristianesimo, è stata uno dei temi più urgenti all’inizio del XX secolo. L’ascetismo emerge come estetica ortodossa nel senso più diretto. L’icona, indivisibile dai testi delle Scritture, diventa parte integrante della dottrina stessa: «I santi padri chiamavano l’ascetismo non solo scienza, neanche lavoro morale, ma arte, e, inoltre, arte per eccellenza, “l’arte delle arti”» (Florenskij citato in Bychkov 1993, 32). «L’icona si trova proprio nel cuore dell’Ortodossia. Costituisce una parte integrante della fede dei fedeli ortodossi e viene accettata da loro come seconda natura» (Quenot 1997, 43). Secondo Pavel Florenskij, l’ascetismo non crea solo l’uomo buono, ma anche l’uomo bello. La scienza dell’amore per la bellezza permette all’uomo di raggiungere la trasfigurazione della carne, acquisendo la bellezza originale della creazione mentre rimane in questa vita terrena. L’ascetismo offre questa metamorfosi che trasforma il volto umano:”Il volto di un asceta diventa veramente il “volto portatore di vita” (…); diventa un ritratto artistico di se stesso, un ritratto ideale, plasmato da materia vivente dalla più sublime delle arti, l’”arte delle arti”» (Florenskij citato in Bychkov 1933, 33).

[32] Un’altra caratteristica iconografica è associata all’Idea della luce (qui intesa come sostanza spirituale). Non è la luce che illumina il volto, ma il volto che irradia luce. È così che nasce una formula – «L’iconografo si sposta dall’oscurità alla chiarezza, dall’oscurità alla luce» (Florenskij 1996).

[33] Secondo Florenskij (stesso), il volto o lik (russo) è la rappresentazione divina e ha un posto assolutamente centrale per l’iconografo. Deriva dalla parola greca Ideia – ειδοζ ιδεα – e, da questo senso platonico del termine che è entrato nella Filosofia, Teologia e persino nel linguaggio vernacolare, possiamo percepire la connessione tra Ideia e volto – lik.

[34] Espressione adottata da M. J. Oliveira (2006).

[35] La tonalità terrosa dei volti iconici segue la tradizione di rappresentare il volto di Cristo, il Nuovo Adamo, in color argilla – la manifestazione che la sua immagine appartiene a tutte le razze e a tutti (Quenot 1997, 53). Come afferma il filosofo Troubetzkoy (1863-1920), l’icona è «un’immagine del futuro dell’umanità liturgica» (1965, 23).

[36] Como riferisce il filosofo Troubetzkoy (1863-1920), l’icona è «un’immagine del futuro dell’umanità liturgica» (1965, 23).

[37] Esiste però una forma meno praticata che presenta la configurazione del ritratto. Secondo Florensky, le icone, nella loro forma canonica, sono divise in quattro gruppi a seconda della fonte da cui emergono. Uno di questi sono le «icone-ritratto, quelle che nascono dall’esperienza diretta e dalla memoria dell’iconopittore di persone ed eventi che non solo vedeva esteriormente come realtà empirica ma interiormente intesi come fatto spirituale». (1996, 75).

[38] Santo Antonio, battezzato con il nome di Fernando de Bulhões, nacque a Lisbona tra il 1191 e il 1195. Morì il 13 giugno 1231 ad Arcella, in Italia, e fu sepolto a Padova. Canonizzato prima del primo anniversario della sua morte, fu proclamato Santo di Padova solo nel 1320, la città che lo accolse (cfr. Ferreira 2019). Aurélia de Souza nacque il 13 giugno 1866.

[39] 190,8 x 100,5 cm.

[40] Possiamo anche seguire l’idea che il volto umano, che contiene tutta l’essenza/l’anima dell’essere, è una rappresentazione della persona; e questa è la definizione di un ritratto/autoritratto. Riguardo l’anima, seguiamo Jung: «L’anima umana è androgina (…) l’uomo non è altro che la sua anima» (Jung 1977, 107).

[41] Oltre a questo riferimento psicoanalitico, comprendiamo che, dal punto di vista della storia dell’arte, questa è anche un’opera simbolista. Nella sua monografia, M. J. Ortigão de Oliveira posiziona questo dipinto nella sezione «I Simboli e le Allegorie», includendolo nelle Allegorie. (Oliveira 2006, 586).

[42] David Marques (NOVA FCSH), «Santo-António de Aurélia de Souza e Untitled#215 de Cindy Sherman: da fotografia à pintura, da pintura à fotografia», Congresso Internacional Aurélia de Souza. Mulheres Artistas em 1900, 2022, Porto.

[43] Questa era una pratica comune, poiché molti artisti dell’epoca utilizzavano già fotografie come elemento preparatorio per la creazione di dipinti, come avveniva frequentemente nello studio di Marques de Oliveira, maestro di Aurélia all’Accademia di Porto.

[44] È in questo periodo che si assiste all’allontanamento dal teatro letterario – con la sua supremazia del testo drammatico, dove l’attore si limitava a trasmettere significati al pubblico – per una nuova arte dell’interpretazione in cui l’attore, attraverso il suo strumento espressivo – il proprio corpo – interagisce direttamente con lo spettatore e si trasforma nel «creatore di un nuovo significato». Questo concetto della nuova arte drammatica è stato chiaramente dichiarato nelle opere di Meyerhold, Eisenstein e Tairov, tra molti altri (Fisher-Lichte 2019, 187).

[45] Breta (c. 1900), Femme qui passe (c. 1900) sono i primi disegni di Aurélia a richiamare l’attenzione dei suoi familiari: avevano tratti caricaturali o erano caricature.

 

 

Bibliografia

Adorno, W. Theodor. 2016. Teoria Estética. Lisboa: Edições 70

Agamben, Giorgio. 2019. Creation and Anarchy: The Work of Art and the Religion of Capitalism. Stanford, California: Stanford University Press

Bychkov, Viktor, 1993. The Aesthetic Face of Being: Art in the Theology of Pavel Florensky. Crestwood, NY: St. Vladimir’s Seminary Press;

Calabrese, Omar. 2006. Artists’ Self-portraits. Nova Iorque: Abbeville Press

Calabrese, Omar. 2020. Como se Lê uma Obra de Arte. Lisboa: Edições 70

Florensky, Pavel. 1996. Iconostasis. New York: St. Vladimir’s Seminary Press

França, José-Augusto. 1981. O retrato na Arte Portuguesa. Lisboa: Livros Horizonte

Ficher-Lichte, Erika. 2019. Estética do Performativo

Ferreira, António Mega. 2019. Santo António de Lisboa e Pádua. Lisboa: Museu de Lisboa – Santo António

Hodeir, André. 2002. As Formas da Música. Lisboa: Edições 70

Jung, Carl. G. 1977. Mysterium Coniunctionis. Princeton University: Bollingen Series XX

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Kristeva, Julia. 2012. The Severed Head Capital Visions. Nova Iorque: Columbia University Press

Mazel, Lev. 1979. Cтроение Музыкальных Произведений, 2a ed, Москва: Издательство «Музыка»

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Quenot, Michel. 1997. The Resurrection and the Icon, Crestwood, NY: St. Vladimir Seminary Press

Silva, Raquel Henriques da. 1992. Aurélia de Souza. Lisboa: Edições Inapa;

Troubetskoy, Evgenii. 1965. Tri Ocherka o Russkoi Icone, Paris: YMCA-Press.

 

Altre fonti

Macbeth, Grace. 1915, The Development of the Sonata-Form, The University of Illinois http://www.ideals.illinois.edu (última consulta a 10 de março de 2020). *

*A escolha deste trabalho académico específico de entre uma variedade de fontes baseia-se no facto de ter sido realizado por uma autora contemporânea da pintora.

Teixeira de Mattos, Alexander. Introduction to The Miracle of Saint Anthony, by Maurice Maeterlinck. Nova Iorque: Dood, Mead and Company, 1918.

https://www.gutenberg.org/cache/epub/70550/pg70550-images.html (última consulta a 2 de dezembro de 2023).

 

Articoli

Almedina, Ruy de. “A Nona Exposição no Ateneu Commercial.” A Arte: Orgam do Movimento Intellectivo Internacional, Vol. 1, nº 10 (1895): 164-5

Hall, James. 2022. “Aurélia de Souza: Silêncio e Eloquência” In Catálogo da Exposição “Aurélia de Souza: Vida e Segredo”. MNSR: Porto, 35-41.

Komissarova, Elena. 2022. “No Atelier” In Catálogo da Exposição “Aurélia de Souza: Vida e Segredo”. MNSR: Porto, 23-29.

Oliveira, Maria João Lello Ortigão de. 2011. “A Melancolia das Mulheres: Berthe Morisot, Aurélia de Souza, Gwen John” In “Arte e Melancolia”. coord. Margarida Acciaiuoli e Maria Augusta Babo, IHA/Estudos de Arte Contemporânea: Lisboa, 265-272.

Oliveira, Susana. 2011. “Tal como ela era… Fragmentos entre a vida e a morte” In “Arte e Melancolia”. coord. Margarida Acciaiuoli e Maria Augusta Babo, IHA/Estudos de Arte Contemporânea: Lisboa, 283-297.

Oliveira, Filipa. 2018. “Do Poder: Entre força e Vulnerabilidade” In “Do Tirar Polo Natural: Inquérito ao Retrato Português”, MNAA e INCM: Lisboa, 310-320.

Parret, Herman. 2001. “A Intersemioticidade das Correspondências Artísticas e das Afinidades Sensoriais” In “O campo da semiótica”, Revista “Comunicação e Linguagens”. coord. Maria Augusta Babo, José Augusto Mourão, Centro de Estudos de Comunicação e Linguagens: Lisboa, 199-219.

Palla, Maria José. 2011. “Folares rituais com encenação divina: a melancolia ou a medida dos sentidos na obra de Josefa e de seu pai Baltazar” In “Padre António Vieira: O Tempo e os seus Hemisférios”. coord. Maria de Rosário Monteiro e Maria do Rosário Pimentel, Edições Colibri: Lisboa, 217-230.

Silva, Raquel Henriques da. 2023. Aproximação à Pintura de Temática Religiosa de Aurélia de Souza: O Feminismo em Ação” In “Variações – Arte Portuguesa – Séculos XIX-XX”. Documenta: Lisboa, 135-145.

 

Opere accademiche

Aguiar, Maria Cunha Matos Lopes Pinto Leão. 2012. Os materiais e a técnica de pintura a óleo na obra de Aurélia de Souza e a sua relação com a Conservação,
Tese apresentada à Universidade Católica Portuguesa para obtenção do grau de Doutor em Conservação de Pintura. Disponível no repositório institucional da Universidade Católica, Porto: http://hdl.handle.net/10400.14/11949 (última consulta a 2 de dezembro de 2023)

Komissarova, Elena. 2020. O Retrato/Autorretrato na obra de Aurélia de Souza (1866-1922) e Elena Kiseleva (1878-1974), Dissertação apresentada à Universidade Nova de Lisboa para cumprimento dos requisitos necessários à obtenção do grau de Mestre em Estética e Estudos Artísticos, disponível no repositório da Universidade Nova de Lisboa

Ly, Maria Joaquina Alves Dias Cardoso. 2005. A Estética Expressionista na obra Pierrot Lunaire de Arnold Schönberg. Dissertação apresentada à Universidade de Aveiro para cumprimento dos requisitos necessários à obtenção do grau de Mestre em Música. Disponível na internet https://ria.ua.pt (última consulta a 18 de novembro de 2018)