L’autoritratto come utopia: riscrittura e resistenza – di Gianfranco Ferraro

L’autoritratto come utopia: riscrittura e resistenza – di Gianfranco Ferraro

14 Marzo 2024 Off di Francesco Biagi

(La redazione di Altraparola anticipa la pubblicazione dell’articolo di Gianfranco Ferraro dal titolo L’autoritratto come utopia: riscrittura e resistenza* che uscirá nel volume semestrale n. 10/2023 in corso di stampa)

 

Utopie del corpo e del volto

Anche il corpo è un grande attore utopico, quando si tratta di maschere, del trucco e del tatuaggio. Mascherarsi, truccarsi, tatuarsi, non è esattamente, come ci si potrebbe immaginare, aquisire un altro corpo, semplicemente un po’ più bello, meglio adornato, più facilmente riconoscibile; tatuarsi, truccarsi, mascherarsi, è indubbiamente un’altra cosa, significa fare entrare il corpo in comunicazione con poteri segreti e forze invisibili. La maschera, il segno tatuato, il fard, depositano sul corpo tutto un linguaggio: tutto un linguaggio enigmatico, tutto un linguaggio cifrato, segreto, consacrato, che chiama su questo corpo la violenza del dio, la potenza sorda del sacro o la vivacità del desiderio. La maschera, il tatuaggio, il fard collocano il corpo in un altro spazio, lo fanno entrare in un luogo che non ha luogo direttamente nel mondo, fanno di questo corpo un frammento di spazio immaginario che comunicherà con l’universo delle divinità o con l’universo altrui[1].

Quando l’utopia è applicata al corpo, secondo Foucault, immette il corpo in un’altra dimensione. È l’utopia del mascherarsi, del truccarsi, a trascinare cioè il corpo lontano dalla specificità di un individuo, verso una dimensione che non è più univoca. Il corpo si riflette e si espande, si modifica, si rende altro da ciò che è. È una fatica di ore, a volte di giorni: il corpo va preparato, squassato, colorato, graffiato, sezionato. E quando è pronto, porta via se stesso, ma anche tutti gli sguardi che gli sono rivolti, verso un altrove: «Il mio corpo è come la Città del Sole, non ha luogo, ma è da lui che escono tutti i luoghi possibili, reali o immaginari»[2], scrive Foucault – e potrebbe averlo scritto David Bowie.

Come pratica tribale e come azione di decorazione, pur diversissimi tra loro, non hanno forse i corpi tatuati questo scopo comune, quello di trascendersi? «Tu guardi lì, ma non è lì che devi guardare, perché mentre guardi quel punto sei già altrove ed è altrove che devi guardare», dice il corpo tatuato. Lo dice il segno tatuato sui corpi dei guerrieri di una tribù amazzonica, la figura, un nome, una sigla tatuata sul braccio di marinai, di carcerati. Lo dice il delfino o il cavallo tatuato su una schiena di adolescente: «tu guardi qui, ma faresti bene a guardare la tribù di cui faccio parte, i miei dei, la forza dei miei uomini, la mia giovane libertà, la mia ansia di vivere selvaggiamente». Il corpo si può disegnare: i capelli accorciare, allungare, legare, lasciare andare. Infinite possibilità di un corpo. Oppure minime: il corpo si può incidere a forza, si può marchiare. L’utopia che apre il corpo si rovescia allora nel suo contrario: è un segno sul corpo di un uomo, che segnala la violenza che lo vorrebbe ridurre a semplice animale, cosa. Si marchiano gli uomini sottratti alla vita da esseri umani: guardano i numeri, chiedono i numeri tatuati sul braccio, i medici e i camerieri di Auschwitz.

L’operazione è stata lievemente dolorosa, e straordinariamente rapida: ci hanno messi tutti in fila, e ad uno ad uno, secondo l’ordine alfabetico dei nostri nomi, siamo passati davanti a un abile funzionario munito di una specie di punteruolo dall’ago cortissimo. Pare che questa sia l’iniziazione vera e propria: solo «mostrando il numero» si riceve il pane e la zuppa. Sono occorsi vari giorni, e non pochi schiaffi e pugni, perché ci abituassimo a mostrare il numero prontamente, in modo da non intralciare le quotidiane operazioni annonarie di distribuzione; ci sono voluti settimane e mesi perché ne apprendessimo il suono in lingua tedesca. E per molti giorni, quando l’abitudine dei giorni liberi mi spinge a cercare l’ora sull’orologio a polso, mi appare invece ironicamente il mio nuovo nome, il numero trapunto in segni azzurrognoli sotto l’epidermide[3].

Il corpo tatuato parla dell’altrove: lo sanno le culture, gli individui, ma lo sa anche il potere. Il corpo si può trascendere in una utopia o consegnare al nulla. Per condurre al nulla i corpi dei prigionieri, il potere nazista deve prima catalogare i corpi, scinderli dal resto dei loro significati, dare loro solo un significante, così da impedirne ogni anelito ulteriore: ogni punto di fuga è precluso e rimanda al numero inciso sul braccio. Il tatuaggio, qui, anticipa solo l’annichilimento.

Il corpo è un campo di battaglia semiotico: non smette di esserlo quando è fatto oggetto di poteri estranei, ma lo è già per il fatto che nel corpo si costruisce l’essere sociale di un individuo, la sua appartenenza o il suo rifiuto di un cosmo. Non è stata forse una utopia in gioco nell’antico rituale del barbiere cui gli uomini di un tempo non rinunciavano, tra i gradini delle vecchie strade dei paesi, non è una utopia in gioco nelle ore trascorse dal parrucchiere dalle signore di mezza età, nel secondo foro sul lobo delle orecchie di un adolescente, nei rasta di un giovane? E non è forse questa utopia che colonizza la mode, le palestre, le marche di vestiario di lusso e il logo storpiato cucito alle stoffe di poveri abiti cinesi? Essere altro, divenire altro: il sé è una battaglia che ha per oggetto il corpo. Nelle società del neoliberalismo avanzato, bisogna districarsi tra le mille merci con cui il corpo può essere alterato, mutato, ripensato, persino biologicamente. Anche il potere ha di queste utopie. Del resto, l’indefinita giovinezza è la merce che ha per oggetto il corpo del potere, il corpo che non può morire: se Faust è il paradigma di questa utopia tutta moderna, in cui la tecnica pretende di dare al potere quell’immortalità negata persino alla potenza degli sovrani egizi, forse ne è la macchiettistica epitome la chirurgia plastica di un anziano uomo di potere ottantenne che spendeva milioni perché il suo volto potesse sempre riportare il suo sorriso di cinquantenne.

Ma non è forse questo sempre in gioco nel travaglio di un corpo: l’utopia che trascende la morte individuale, che si scontra col destino immutabile e definitivo della natura? Dalla mummia di un mausoleo moscovita, dai corpi asciugati dei papi, dalle ampolle con una reliquia o l’altra dei santi che arrivano fino a noi dai più lontani secoli de cattolicesimo, non trapela forse qui quel gioco dell’altrove in cui è impegnato da vivo ogni individuo? E dove, se non nel corpo, si gioca l’utopia della non-morte, del richiamo di forze che tengano in vita nonostante tutto? Si misura forse anche qui l’immane potenza utopica del capitalismo avanzato: quando democratizza e al tempo stesso individualizza le tecniche con cui un corpo può trascendersi. Il richiamo all’essere altro ogni giorno di ogni corpo è oggi merce comune: «siate altro, per essere voi stessi». Siate tutto quello che potete essere, basta pagare: «un euro, un milione!». O l’intera vita. Circonfuso dall’aura della merce, l’utopia del corpo che pretende accedere ad un altrove è colonizzata, prezzata, sballottata tra nuovi acquirenti e nuovi loghi: non cosa vuoi essere, cosa puoi essere, ma cosa devi essere, è ciò che occorre pagare. È la distanza tra il corpo e la sua utopia che la merce intende coprire. E la biopolitica del corpo mercificato ha bisogno di questa utopia.

C’è una utopia nell’utopia, però. Il corpo occupa un luogo, dobbiamo ammettere: l’altrove deve vedersela sempre con un peso, uno spazio. Il corpo è circoscritto. È quando ci mettiamo di fronte a un volto, che questa certezza è messa in questione: come se un volto occupasse il luogo del corpo, ma anche altri luoghi. Non può uscire da sé, ma nel volto il corpo ha una vertigine: guardare un volto non è lo stesso che guardare un corpo. Semplicemente, con le sue conformazioni, le sue ciglie spesse o sottili, il naso delicato o prominente, la fronte alta, le guance rotonde o magre, le labbra, carnose, sottili, con o senza baffi, la barba di un uomo, un neo piccolissimo posto proprio accanto alle orecchie, è come se il volto tracciasse la sua provenienza, rimandasse alle sue multiple origini: chi aveva quegli occhi di quel colore, tra il nonno e la nonna paterna, o era per caso il bisnonno materno, ad averli? E perché quegli occhi si incastrano in quella forma, allungata, quasi orientale? Ha antenati indiani, venuti chissà da quale remota provincia in chissà quali immemorabili tempi, fino a qui, quel volto? E cosa, chi altro è intervenuto perché quel volto sia ora quello che è, davanti a noi? Di quali remote popolazioni ormai scomparse ancora parla? E di cos’altro parla, quel volto, se non anche di quello che si è vissuto? L’espressione preoccupata tenuta per mesi si è cicatrizzata in quella ruga, l’abitudine al riso stolto ha spalancato all’inverosimile le labbra, la fame ansiosa ha riempito le guance. La disperazione, le troppe lacrime, hanno scavato le orbite, il risentimento ha spento la luce degli occhi, la serenità ha allargato la fronte, una sigaretta fumata per anni ha lasciato un leggero, continuo sospiro tra le labbra. Ogni ruga è una traccia: il volto parla continuamente d’altro. L’identità anagrafica, di fronte a un volto, entra in crisi: occorrerebbe conoscere tutto quest’altro per dire a noi stessi «questo sono», e per dire ad altri «sei questo». Quando si richiama una identità, forse si può essere giusti solo davanti a un bambino, e per poco. Nel volto c’è però anche la possibilità: tutte le linee di fuga, le espressioni di una idea, di una possibilità, l’emozione che non lascia l’individuo solo, appaiono nel volto. Il volto porta con sé questa presentificazione del passato e del possibile in un solo punto: è il volto che rende possibile a due individui riconoscersi, è dal volto che comincia la relazione. Specchio dell’anima: è nel volto che il sé riconosce se stesso come utopia.

Ciò che dunque Foucault osserva a proposito del corpo utopico è iperbolicamente visibile nel volto. Nel volto altrui, ma anche in quello che non vedo mai, il mio, che vedo solo quando mi specchio. Che cosa guardiamo quando guardiamo il nostro volto, quale tensione ci spinge a decifrare quel linguaggio di cui esso è fatto e di cui noi stessi non abbiamo chiara percezione? E cosa ci spinge a ritrarci, a trarre da noi stessi qualcosa, cioè, se non l’esercizio di approssimazione che ci avvicina a quell’altro che ci osserva mentre osserviamo, e non ci osserva più quando smettiamo di osservarci?

Lo vediamo subito, ci sono due modi di osservarci. Due paradigmi: uno ce lo consegna Narciso, che si bea di fronte alla propria bellezza, che è persino incredulo rispetto la propria bellezza. È una immagine ferma, bloccata. In Narciso a parlare è il suo stesso cadavere, è il cadavere che diventerà da lì a poco: «è lo specchio ed è il cadavere che assegnano uno spazio all’esperienza profondamente e originariamente utopica del corpo»[4]. In Narciso l’utopia si chiude su se stessa. Ma sono sempre lo specchio e il cadavere che agiscono, ora come pulsione utopica, nell’altro paradigma del ritrarci. Questo ce lo consegna la storia, anzi la storia dell’autoritratto. Dentro questo paradigma, lo specchio e il cadavere sono forze che agiscono, e lo fanno proprio mentre ci ridicolizzano, mentre ci rendono impossibile rimanere in nostra presenza per più di qualche secondo. E cosa succede, infatti, quando la mattina ci guardiamo allo specchio, occhi negli occhi, per più di qualche secondo? Ridiamo. Dobbiamo ridere. Il ridicolo ci prende da ogni parte, ma è solo nel ridicolo che rompiamo l’incantesimo, l’immobilità cadaverica in cui rimarremmo, è qui che il nostro volto diventa una presenza reale, simile a quella di un altro. E non ridono di sé, in fondo, tutti gli autoritratti dei grandi, antichi maestri della storia, come scrive Thomas Bernhard? Non ci costringono a ridere?

Se osserviamo un quadro per un po’ di tempo, anche il quadro più serio, dobbiamo averlo ridotto a caricatura per poterlo sopportare, diceva, e quindi anche i genitori vanno ridotti a caricature, anche i superiori, se ne abbiamo, vanno ridotti a caricature, il mondo intero, diceva, va ridotto a una caricatura. Guardi per un po’ un autoritratto di Rembrandt, uno qualsiasi, non c’è dubbio che esso a poco a poco si trasformerà in una caricatura e lei dovrà distoglierne lo sguardo[5].

Nello spazio dall’autoritratto si consuma dunque lo stesso ridicolo che ci coglie quando rimaniamo a guardarci allo specchio, o quando osserviamo qualcuno troppo da vicino. Non è indifferente, in questo senso, che il gusto per l’autoritratto nasca insieme alla natura morta. La natura morta nasce come genere barocco per eccellenza: è il transeunte che viene ancorato alla tela come un memento mori che però, per un momento ancora, vive. O rivive, mentre lo osserviamo. Mele, pere, canestri e animali: l’insistenza della grande epoca dell’olio fiammingo su questi oggetti è la stessa insistenza da cui nascono gli autoritratti. Nella natura morta è già la morte a parlare, eppure è la stessa morte che la rende presente. Non c’è ridicolo maggiore che mettersi ore a guardare una Canestra di frutta, come fa Caravaggio nel 1600. O se stessi: è questo il ridicolo che all’utopia di Narciso risulterebbe incomprensibile. Perché Narciso muore nell’inerzia del suo sguardo. Guardarsi è la sua inconsapevole tortura. Gli autoritratti nascono invece come nature morte: qualcosa vive ancora, nei colori, e ci riporta a noi, dove non siamo mai stati, o dove non siamo ancora.

 

Rembrandt, Autoritratto all’età di 63 anni, National Museum, Londra

 

Narciso muore

Mi osservo sullo schermo del mio pc. Sono in una riunione zoom. Guardo i colleghi o gli amici presenti solo per un momento, di sfuggita. Se devo parlare guardo alla camera, oppure verso la mia immagine. Perché mi guardo? Cosa cerco nella mia immagine? forse semplicemente un volto conosciuto, qualcosa che mi ricordi una presenza nella mediazione asettica della comunicazione digitale? Sono lì, in un angolo: mi vedo osservare, mi vedo ascoltare… Mi aggiusto i capelli, mi aggiusto l’espressione, tento di guardare ciò che gli altri guardano, di decifrare nel mio volto ciò che gli altri osservano. «Oibó, non sto così male»: immagine riflessa che passa dallo sguardo altrui, che si decifra attraverso lo sguardo con cui immagino che mi osservino i presenti. Cosa ne sappiamo, in fondo, di cosa gli altri stiano osservando, e se non stanno osservando poi alla fine solo se stessi, esattamente come sto facendo io? È probabile, che mentre siamo in un collegamento zoom, una sbirciatina al nostro volto la diamo. Pensandoci, il parallelo che ci può venire in mente è quello di avere un specchio in tasca mentre siamo in una riunione, in un’assemblea, in un incontro in presenza. In quell’occasione, dovremmo tirare dalla giacca uno specchio ogni cinque minuti per riporlo subito dentro. A ragione, ci diremmo, se qualcuno lo facesse, che soffrirebbe di qualche turba: uno stress da controllo, per esempio. Ci daremmo letteralmente dei pazzi, anche perché ci dovremmo scusare ogni volta, per distogliere lo sguardo. Da dietro uno schermo no, è più facile dare un’occhiata, due, tre. Nessuno se ne accorge, anche perché lo facciamo tutti. E per questa ragione anche ci prepariamo, durante una riunione zoom. Certo diversamente da come faremmo per un incontro presenziale: magari ci mettiamo giacca e cravatta e sotto una tuta strappata, e deve andare bene, se pensiamo ai video circolati durante la Pandemia del 2020. Ne abbiamo riso tutti, anche per sfogare la tensione dell’emergenza. Con difficoltà però abbiamo riso di noi stessi. Ci prepariamo per una immagine ferma: con accuratezza, scegliamo il fondo che rappresenti il nostro credo, il nostro ruolo, le nostre passioni, mettiamo quella maglietta per quell’occasione, quella camicia per quell’altra. No, non ci viene da ridere, mentre lo facciamo. E se ci viene da ridere, spegniamo la videocamera.

Le reti sociali sviluppatesi a un ritmo vertiginoso in non più di quindici anni hanno al centro l’immagine di sé e il legame tra immagini di sé. Tutti i contenuti che collochiamo nel nostro “profilo” Facebook, per come Mark Zuckerberg ha chiamato, e immaginato, la sua impresa, mostrano o pretendono di mostrare il nostro volto: un volto complesso, proiettato in avanti e indietro nel tempo, caratterizzato da tutti i post, tutte le foto, private e no, tutte le interazioni sociali, le approvazioni e le disapprovazioni passate e presenti. Un volto sociale, a volte l’unica forma con cui appariamo o scompariamo agli altri, perché anche quando smettiamo di interagire, rimaniamo presenti: «ma perché non scrivi più? È successo qualcosa?». E se sentiamo queste parole, vuol dire che non facciamo ancora parte di quel cimitero in cui piano piano anche le reti digitali si trasformano, includendo i morti come inebetiti fantasmi che non postano più. Ma attenzione a pensare che il nostro volto rimanga confinato allo schermo e alle interazioni digitali: e questo non perché, come ci ricordano i giornalisti spesso ridotti a scavare nei profili invece che nelle identità, il nostro volto è pubblico, in rete, ma perché le reti sociali sono ormai un paradigma di produzione. Come la società dello spettacolo è stata una forma di produzione specifica, anche la società dei social è una forma di produzione specifica: potremmo dire, quella in cui lo spettacolo di sé diventa la forma di mediazione della merce. Non a caso gli algoritmi sono indirizzati precisamente a correlare le merci e a presentarci nei banner la merce che potremmo acquistare: non diversamente, lo stesso algoritmo di fa comparire le notizie, le merci e i contatti con cui abbiamo più affinità. Ci suggerisce l’ultimo libro da comprare, l’ultima notizia da leggere, l’amico degli amici che non abbiamo ancora aggiunto alle nostre “amicizie”, esattamente come noi siamo “suggeriti” a chissà chi, solo perché abbiamo in comune un orientamento politico, sessuale, o siamo stati nello stesso punto del mondo. Le nostre “facce” diventano così merce tra le merci, indistinguibili opzioni sul grande mercato. L’algoritmo agisce così come una effettiva forma di governamentalità, a partire dalla quale ci costituiamo in una relazione pre-determinata, con tutti gli effetti sociali che travalicano lo spazio digitale. L’algoritmo forma bolle di affinità oltre alle quali c’è presumibilmente il deserto dei Tartari: il deserto degli haters, infatti.

Leggermente diverso è il paradigma di Instagram, dove a regnare è però totalmente l’immagine di sé, quasi senza scrittura. Il commento è la propria immagine, o ancora più il video. I contatti si sono trasformati da “amici” in “seguaci”, followers. Meno ne hai, meno influenza hai sugli altri. Chi ne ha di più, e può essere anche il vicino di casa, là dentro è quasi un dio, un influencer: Allora non solo si diffondono idee, ma anche merci, o l’una e l’altra insieme. L’influencer viaggia o fa un video da casa. Costruisce un modello, ben visibile negli autoscatti dei turisti.

 

Andrea Tarli, Street art a Largo da Achada, Lisbona

 

Non è piú un marchio a dettare le tendenze di moda, né lo stile di un determinato personaggio – un attore, un politico, qualcuno che insomma influenza qualcuno a partire da un’abilità, o da una professionalità particolare. Avviene il contrario: si crea un personaggio, che fa quello, ovvero il «personaggio che influenza» e, mentre crea circoli di affinità sempre più larghi, inizia ad essere cercato da chi ha bisogno di influenzare per qualche ragione: che si vada dalla borsetta, ad una idea politica, poco cambia. Come ha recentemnte ammesso una imprenditrice del settore come Chiara Ferragni al giornalista che le chiedeva se il suo lavoro non fosse “effimero”:

Quello che faccio è molto concreto, altro che effimero. Ho un’azienda che produce e vende abbigliamento, calzature, make up, auricolari, gioielli. Non promuovo solo prodotti altrui. Sono diventata un riferimento sotto tanti punti di vista per tante persone che mi seguono da 14 anni, che sono cresciute con me, che hanno seguito tutte le fasi della mia vita e si sono ritrovate simili in tante cose, perché parlo tanto anche di me, di come mi sento, delle mie emozioni. Faccio post in cui si parla di quanto è bella la borsa e post in cui parlo dei diritti delle donne. Non penso di fare su Instagram un racconto così effimero[6].

Tutto insieme, «sotto tanti punti di vista»: la vita di una persona, le emozioni, la borsa e i diritti delle donne. Tutto perfettamente interscambiabile, tutto utile nella stessa misura in cui dura una tendenza, una influenza, tutto inutile, nella misura in cui non dura. Nulla è effimero se tutto lo è, se le merci non solo effimere, e l’aura che le circonda è ciò che davvero vende. Un’aura che si è spostata dai Passages parisiennes di Benjamin proprio alla catenta inverosimili di immagine di sé, alla catena di proiezioni di sé mediante l’immagine costruita. Il cadavere di Narciso è qui, ma guai a riconoscerlo: l’influencer non può mai essere ridicolo, a meno che di non fare del ridicolo la cifra del proprio sé, ma anche in quel caso è un ridicolo-comico, che si immobilizza a sua volta nella sua cifra. Non si può ridere davvero, non si può dismettere la maschera: i followers pretendono costantemente il loro luogo, l’aura dell’influencer, un luogo che non c’è, non esiste, ma a cui possono aspirare. Non muoiono, solo perché seguono.

 

Ritrarre / Ritrarsi

Ne La Rabbia (1963), Pier Paolo Pasolini dedica dei versi a Marilyn Monroe, scomparsa appena l’anno prima: «Del mondo antico e del mondo futuro / era rimasta solo la bellezza, e tu, /povera sorellina minore, / quella che corre dietro i fratelli più grandi, /e ride e piange con loro, per imitarli, / tu sorellina più piccola, / quella bellezza l’avevi addosso umilmente, / e la tua anima di figlia di piccola gente, / non ha mai saputo di averla, / perché altrimenti non sarebbe stata bellezza. / Il mondo te l’ha insegnata, / Così la tua bellezza divenne sua. […]» (Marilyn). In Marilyn, Pasolini vede lo scarto che consuma la stessa esistenza della vedette, quello tra il personaggio e la bellezza di un innocenza che viene venduta come merce proprio al fine di dare vita a quel personaggio. L’utopia della merce sfrutta e consuma l’utopia che è inerente al volto: Pasolini individua l’utopia del volto – «quella bellezza l’avevi indosso umilmente» – che, attraverso l’aura della merce viene come sottratta alla tensione che le è inerente. Se la vedette consuma l’innocenza del volto bellissimo di Marilyn, facendo sì che il mondo si appropri della bellezza fino a ucciderla, quel volto non viene completamente assorbito dall’aura della merce: le si contrappone, anzi. L’utopia del volto è ancora perfettamente riconoscibile: l’iconalità post-mortem trascende così la stessa aura mercificatoria e fa sì che nel volto di Marilyn si possa scoprire un altrove che eccede la semplice individualità. Pasolini cerca volti innocenti, e lo trova in uno degli esempi massimi che il suo tempo gli offre di costruzione capitalistica dell’icona. La merce può sottrarre l’utopia al volto, provare a colonizzarla, ma mai del tutto. Un anno prima, nel 1962, Andy Warhol aveva ossessivamente ripreso una delle più celebri immagini di Marilyn: nel ritmo delle immagini ripetute del volto, e nella variazione tra le due parti del dittico, le due utopie, quella del mercato e quella dell’innocenza, vengono messe l’una contro l’altra, e nel ridicolo con cui appare l’utopia del merce, affiora invece l’eccedenza della bellezza di Marylin.

 

Andy Warhol | Marilyn Diptych, 1962, Tate Museum, Londra

 

Difficilmente penseremmo un dittico per un influencer, fossimo anche noi stessi. Ma guardando gli autoritratti degli antichi maestri, e dei nuovi, l’utopia del volto, e del nostro stesso volto, si ripresenta. Nel loro esercizio quotidiano, il disegno e la pittura, possono divenire «un’abitudine, una pratica  quotidiana che corrisponde non solo a un registo artistico e grafico. Mentre si acquista una maggiore abilità di disegnare, si acquista una maggiore abilità di vedere, esercitando una attitudine permanente di attenzione e contemplazione»[7]. La scelta degli oggetti così come la tecnica utilizzata – l’olio, il carboncino, l’acquerello, lo spray, la fotografia, o il martello pneumatico (come nel caso dell’artista portoghese Vhils) – non è indiffente: si tratta precisamente di esercizi differenti, del tutto simili, però, a quelli che è possibile rinvenire nella scrittura. Il lavoro del disegno – ma potremmo estendere questa interpretazione a tutte le arti grafiche – si rivela per essere così esercizio, ascesi personale nel quale chi si esercita costruisce il proprio sé attraverso l’atto creativo. Ritrarre ossessivamente una chiesa, come fa Monet con il duomo di Rouen, una montagna, come fa Cezanne con la serie di dipinti del Saint-Victoire, è un esercizio che ha a che vedere con l’autocostituzione dell’artista, con la sua visione, con il suo essere un’entità che può far parlare l’oggetto in tutta la complessità dei suoi segni di luce e di ombre. Ma se il ritrarre pittorico di un elemento paesaggistico può essere incluso nell’ordine di un esercizio simile a quello della scrittura, anche il ritratto del volto e l’autoritratto possono essere facilmente integrati. Ritrarre il volto e ritrarre il proprio volto sono un esercizio parallelo a quello che nella scrittura sono la biografia e l’autobiografia. Un esercizio che attraversa i secoli. Come scrive Foucault in un saggio intitolato La scrittura di sé, scrivere di sé è una tecnica che viene dall’antichità e, trasformandosi, si riverbera nei diversi stili della modernità, autoritratto incluso:

La scrittura di sé appare qui chiaramente nella sua relazione con l’anacoresi: essa fa impallidire i pericoli della solitudine; dà ciò che si è fatto o pensato a uno sguardo possibile; il fatto di obbligarsi a scrivere gioca il ruolo di un compagno, suscitando il rispetto umano e la vergogna; possiamo porre dunque una prima analogia: quello che gli altri sono rispetto l’asceta in una comunità, il quaderno di note lo sarà per il solitario. Ma, simultaneamente, si colloca una seconda analogia, che fa riferimento alla pratica dell’ascesi come lavoro non solo sugli atti, ma più precisamente sul pensiero: la costrizione che la presenza altrui esercita nell’ordine della condotta, la scrittura la eserciterà nell’ordine dei movimenti dell’anima; in questo senso, essa possiede un ruolo del tutto vicino a quella confessione fatta al direttore [di coscienza] per cui Cassiano dirà […] che essa deve rivelare, senza eccezione, tutti i movimenti dell’anima (omnes cogitationes)[8].

Nell’attenzione verso il volto, scopriamo così una forma di meditazione: ritrarre i lineamenti implica cioé lo sforzo ascetico volto a trarre da quel volto quella componente che trascende lo stesso volto, che lega il volto a chi lo ritrae, mettendo a nudo la componente che rende il volto altro nello stesso momento in cui lo si guarda. Ma è certamente nell’autoritratto che l’artista, mettendo mano ai propri lineamenti, li sconvolge, li altera, cercando di attingere e di comprendere una realtà in fuga. Di tenerla sotto controllo. Nell’autoritratto, l’artista deve ritrarre precisamente la realtà che fugge da sé, le linee che portano non un altro, ma se stesso verso un essere sé, ma anche altro. Nell’autoritratto, l’artista può dunque definire il campo di battaglia in cui si definisce il sé: definisce il contorno del sé, proprio nel momento in cui trascrive sulla tela o sulla pellicola le forze in lotta. Il sé non è altro che tali forze, ma è cosa che viene alla luce, letteralmente, nell’autoritratto.

 

Julien Freud, Reflection, a Self-Portrait, 1985

 

Le cogitationes che si seguivano negli esercizi antichi, nelle confessioni e nelle autobiografie dei moderni, trovano nel genere dell’autoritratto un’ulteriore tecnica, tutta moderna. E ancora dopo la nascita della fotografia, l’autoritratto trasfigura il volto, delinea i campi in cui si inscrive, lo trascina da ogni lato, fa emergere ad ogni passo il cadavere che già si specchia nel vivo, ma a cui il vivo resiste, o la carne maciullata, che è vivo e cadavere insieme, come nella pittura di Bacon:

Il compito della pittura si definisce come il tentativo di rendere visibili delle forze che non lo sono. Allo stesso modo la musica si sforza di di rendere sonore forze che non lo sono. È ovvio. La forza è in stretto rapporto con la sensazione: è sufficiente che una forza si eserciti su un corpo, cioè su un punto determinato dell’onda perché vi sia sensazione. Ma se la forza è la condizione della sensazione, non è tuttavia essa ad essere sentita, poiché la sensazione “dà” qualcosa di completamente diverso a partire dalle forze che la condizionano[9].

 

Francis Bacon, Head III, 1961

 

Nell’autoritratto è in gioco tutto il sé, per una volta, tutte le forze che si vedono e anche quelle che non si vedono. L’artista si presenta a se stesso, gioca col ridicolo molto più di quanto non faccia quando ritrae qualcun altro. Crea a se stesso quell’effetto straniante che è proprio del corpo utopico, e che è proprio del volto: non Narciso, ma tecnica dello specchio deformante, i cui strumenti sono innanzitutto gli occhi di chi si guarda. L’artista esercita il proprio sguardo, non lo annulla in una proiezione ultimativa di sé: resiste. Mettendo insieme le forze che vede in se stesso, l’artista ridicolizza l’atto stesso del vedere: chi guarda? Dal momento in cui Jan van Eyck incastona il proprio autoritratto tra le figure dei coniugi Arnolfini (1434), l’artista afferma che «quello che si vede» è «quello che l’artista vede»: nei secoli successivi, l’artista comincia a vedere in sé forze sconosciute e inconoscibili:

Si direbbe che, nella storia della pittura, le Figure di Bacon siano tra le risposte più sorprendenti alla domanda: come rendere visibili forze invisibili? […] E ciò è vero sia per la serie delle teste che per quella degli autoritratti, è anzi proprio per questa ragione che Bacon realizza questa serie: la straordinaria agitazione delle teste non proviene da un movimento, la cui ricomposizione sarebbe compito della serie, ma piuttosto da forze di pressione, dilatazione, contrazione, schiacciamento, stiramento, che vengono esercitate sulla testa immobile – come forze affrontate nel cosmo da un viaggiatore transpaziale immobile nella sua capsula[10].

Anche per questa ragione, l’autoritratto è una delle più decisive tecniche di resistenza del moderno. Anche quando sceglie la posa, nell’autoritratto l’artista muove delle forze: non solo le proprie. Si ridicolizza e ridicolizza così ogni posa, ogni individuo che anche solo per un momento volesse scegliere l’utopia di Narciso. È così che l’autoritratto pretende di fare male al proprio tempo, come fa anche Pasolini, quando mostra la sua faccia, non per creare un modello, ma per scardinare qualunque modello di sé in un mondo ridotto a merce. Per dire di quel cadavere, che è specchio e utopia, e che si riflette nella sua «faccia» magra e quindi nel volto di ogni comune umanità. Per parlare delle mille possibilità che in un volto si iscrivono,  e che lo scuotono. Ma quando anche mettersi a nudo nel proprio volto smette di avere senso, quando l’umano smette di cioè di sorridere del proprio volto, beandosi di sé, soverchiato dalla stessa proiezione di sé nell’aura della merce, lì allora la morte non potrà inevitabilmente che nuocere ai pochi volti ancora esistenti, quei volti che si mostrano con l’intera fragilità del proprio sguardo: «Mostrare la mia faccia, la mia magrezza – / alzare la mia sola puerile voce – / non ha più senso: la viltà avvezza // a vedere morire nel modo più atroce/ gli altri, nella più strana indifferenza.
Io muoio, ed anche questo mi nuoce» (P. P. Pasolini, Gli italiani).

 

 

Note:

* Center for Global Studies, Open University, Portugal. Questo saggio è stato elaborato nel quadro delle attività di ricerca del progetto «Mapping Philosophy of Way of Life» (2022.02833.PTDC) e del programma di finanziamento nº 2020.05403.BD.

[1] M. Foucault, «Le corps utopique», in Le corps utopique suivi de Les hétérotopies, Lignes, Paris, 2019, p. 15.

[2] Ivi, p. 18

[3] P. Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino, 2000, p. 24

[4] M. Foucault, Le corps utopique, cit., p. 19.

[5] T. Bernhard, Antichi Maestri, Adelphi, Milano, 1992.

[6] Intervista a cura di G. Guastella e C. Morvillo, «Corriere della sera», 24/2/2024. URL: https://milano.corriere.it/notizie/cronaca/24_febbraio_24/chiara-ferragni-intervista-4808c99d-7e19-4b1c-ae33-d5920ab70xlk.shtml

[7] G. Bruscato Portella, «Desenho Contemporâneo e Filosofia Antiga», Thomas Project, 5 (1/2021), pp. 137-157.

[8] M. Foucault, «L’écriture de soi», in Dits et écrits, II, 1976-1988, Gallimard, Paris, 2001, p. 1255 (già pubblicato in «Corps écrit», nº 5 : L’autoportrait, février 1983, pp. 3-23).

[9] G. Deleuze, Francis Bacon. Logica della sensazione, Quodlibet, Macerata, 1995, p 116.

[10] Ivi, p. 119.