Per una critica situazionista della città di Genova. Un commento a “La città livida” di Leonardo Lippolis – di Francesco Biagi

Per una critica situazionista della città di Genova. Un commento a “La città livida” di Leonardo Lippolis – di Francesco Biagi

16 Febbraio 2024 Off di Francesco Biagi

1. Lo scrittore britannico Aldous Huxley nel romanzo Brave New World si prende gioco di Henry Ford e del suo metodo di organizzazione del lavoro, denunciandone la pericolosità e il fatto che tale progetto di ingegneria sociale sia sostanzialmente una minaccia per la sopravvivenza dell’umanità.[1] Huxley immagina la distopia di un mondo organizzato sulla base del metodo taylorista, raffinato a livello socio-politico poi dal metodo fordista, dove la rigida organizzazione di fabbrica pervade tutta la vita quotidiana degli esseri umani. Il romanzo scritto nel 1932, infatti, colloca le vicende del “mondo nuovo” a partire dal 1908, anno in cui viene prodotta la prima automobile Ford modello “T” a Detroit, in Piquette Avenue, e il tempo è scandito da una rigida ingegneria sociale e genetica, architettata per garantire la massima efficienza nella produzione di massa e la più ampia pacificazione sociale. La società stessa è organizzata entro una rigorosa gerarchia fra le classi sociali: dagli strati inferiori degli uomini-automi “Epsilon”, veri e propri Charlot di Tempi Moderni, utili solo per i lavori ripetitivi, fino ai dirigenti “Alfa”, autentici tecnocrati e ingegneri sociali di tutto il genere umano. L’idolatria per Henry Ford è l’unica fede permessa, tanto che – come il giorno di Natale per Gesù – si celebra il grande “giorno di Ford”, e anziché il segno della croce, gli abitanti del Mondo Nuovo sul petto mimano una “T”; infine, il celebre neologismo “His Fordship” è il corretto titolo regale con cui ci si deve rivolgere a una autorità del potere costituito. Huxley intravvede un “mondo nuovo” che non è così lontano dalla materialità della vita quotidiana al tempo della sua organizzazione fordista nel secolo scorso, tanto che, in Francia, negli anni Sessanta lo comprenderanno perfettamente anche Guy Debord e i Situazionisti. Per mezzo della tipica critica ironica e dileggiante, il Situazionismo definisce la metropoli progettata per mezzo dei piani urbanistici di Le Corbusier come una “valle di lacrime con l’aria condizionata” denunciando anch’essi, senza esclusione di colpi, il “ricatto dell’utilità” che soggiace al progetto abitativo funzionalista.[2] Com’è noto, Le Corbusier trasla il metodo taylorista e fordista dalla fabbrica all’organizzazione abitativa e, sull’esempio di Ford, pensa all’architettura come un dispositivo politico per disinnescare possibili rivoluzioni. La standardizzazione della vita quotidiana degli esseri umani pensata nella Carta di Atene ne è l’esempio più lampante. Inoltre, in un altro libello del 1923, apertamente condizionato dalla paura della diffusione della ribellione operaia inaugurata dai bolscevichi in Russia, Le Corbusier scrive: “architettura o rivoluzione. La rivoluzione si può evitare”,[3] alla quale si aggiunge il motto “non si rivoluziona facendo le rivoluzioni. Si rivoluziona portando soluzioni”.[4] La fede mitica nella tecnica è lo strumento per operare quel salto apparente oltre le ideologie politiche, o meglio contro le possibili insurrezioni delle masse che si accostavano alla vita politica nel Novecento. La tecnica in questo frangente assume dimensioni populiste. La fede nella modernità capitalista è qui concepita nella radicale depoliticizzazione, derubricando il problema a un “fattore tecnico”, come se la tecnica stessa non appartenesse a una precisa visione del mondo. Una visione del mondo che, come hanno scritto Pierre Dardot e Christian Laval, diventa anche “ragione del mondo”[5] che si trasforma nell’incubo delle contraddizioni vissute da Ludovico Massa (interpretato da Gian Maria Volontè) nel film La classe operaia va in paradiso di Elio Petri (1971).

 

2. È questo il fertile terreno della critica nel quale si muove Leonardo Lippolis nel suo ultimo – e molto colto – volume intitolato La città livida. Una controstoria psicogeografica di Genova (1892-2022).[6] Non essendo un esperto della città, mi limiterò a commentare alcune dinamiche interpretative generali, tuttavia, i genovesi e le genovesi possono incontrare un’analisi dettagliata di come la città sia stata venduta al miglior offerente, come nel film di Francesco Rosi (1963), Le mani sulla città o nel romanzo di Italo Calvino (1958), La speculazione edilizia.

Le date presenti nel titolo del libro di Lippolis, in questo caso, sono molto importanti: il 1892 è l’anno in cui a Genova viene organizzata l’esposizione universale italo-americana, per festeggiare i 400 anni della “scoperta” dell’America da parte di Cristoforo Colombo. Gli studi postcoloniali ci hanno insegnato quanto sia gravida di colonialismo e classismo la parola “scoperta” e i movimenti sociali indigeni del continente americano nelle ultime decadi non hanno mai smesso di evidenziare come quella data, per quei popoli, sia l’inizio di un’oppressione secolare, ad oggi ancora presente. Tuttavia, nel 1892 il re d’Italia Umberto I, la regina Margherita e tutto il governo Giolitti si riunisce a Genova per portare gli onori dello Stato alla grande festa dell’amicizia italo-americana, in nome del nostro instancabile navigatore. Chiaramente, il soggetto politico con cui si stringevano alleanze economiche erano gli Stati Uniti d’America, infatti l’anno seguente, nel 1893, una esposizione universale “gemella” fu organizzata a Chicago, con gli stessi obiettivi, nel nome di una reciprocità necessaria da coltivare. Come ricorda Fernand Braudel, Genova è una città che ha condizionato con slancio le dinamiche commerciali del capitalismo globale fin dal Sedicesimo secolo ed è in quest’ottica che Lippolis sviluppa la sua “contro-storia” della città.[7]

In secondo luogo, il volume si chiude nell’anno 2022, non solo per offrire al lettore una prospettiva storica che arriva fino al nostro presente, ma anche perché è proprio nel marzo 2022, durante l’inizio di alcuni cantieri per rigenerare, ovvero si legga gentrificare, la città di Genova, che si scopre il fatto che l’urbanistica industriale ottocentesca aveva deciso di intubare un fiume nella zona di Rio Sant’Ugo. Tale corso d’acqua era il confine naturale dei quartieri della città antica di Genova, per lo meno fino alla sua ristrutturazione della fine del Diciannovesimo secolo (p. 86). Tuttavia, non possiamo non menzionare anche il crollo del Ponte Morandi, dell’agosto 2018, un altro esempio dell’urbanistica funzionalista, brutta e brutale nell’opinione di Lippolis, che ha fatto precipitare in una ennesima tragedia la città e poi in una ennesima farsa, a causa dell’uso politico della ricostruzione da parte del primo governo Cinque Stelle in alleanza con la Lega di Salvini.

Questo è l’arco temporale nel quale si inserisce l’analisi “psicogeografica” di Lippolis riguardo le vicende della città di Genova. Con “psicogeografia”, Debord intende, nella prassi politica, una dimensione spazio-temporale disposta a creare un incessante ambiente di incontri possibili fra pari, di scommettere, nella polis, sulla dimensione orizzontale dell’essere in comune tra gli abitanti, in antitesi alla vita alienata organizzata dall’architettura funzionalista lecorbusiana. La “costruzione di situazioni” di gioco libero e liberato – ovvero il “gioco armonico” nel senso in cui lo intendeva Charles Fourier[8] – richiede l’edificazione di una spazialità concreta adatta a tale obiettivo, in cui l’architettura e l’organizzazione degli spazi tengano conto, fin dal progetto, dell’effetto psichico degli abitanti.  Progettare una relazione armonica fra la mente e lo spazio, dunque tra il tempo vissuto degli uomini e lo spazio geografico in cui si realizza, è il compito primario della psicogeografia teorizzata dal movimento situazionista: “La psicogeografia si propone lo studio delle leggi esatte e degli effetti precisi dell’ambiente geografico, consapevolmente disposto o meno, agendo direttamente sul comportamento affettivo degli individui”.[9] Occorre di conseguenza indagare gli “elementi del quadro urbanistico, in stretta connessione con le sensazioni che provocano”,[10] gli intrecci decisivi della psicogeografia sono le “realtà subconscie che appaiono nell’urbanesimo stesso”.[11] Nel solco della fenomenologia francese di Gaston Bachelard la quale immagina il connubio fra spazio e poesia, Debord propone un urbanesimo e un’architettura anch’essi “poetici”, affinché tali spazi si pongano l’obiettivo di costruire luoghi capaci di essere autentici crogiuoli di pratiche utopiche concrete. In tal senso, per Debord è possibile una definizione di bellezza che dalla sua genesi poetica e artistica si rifletta nella dimensione socio-politica, ovvero nelle situazioni costruite: “Parlando di bellezza, è chiaro che non intendo la bellezza plastica – la bellezza nuova non può che essere bellezza di situazione – ma soltanto la presentazione particolarmente emozionante […] di una somma di possibilità”.[12] Il significato di “situazione costruita” va assunto in senso letterale nello scenario dell’azione umana che si dispiega nello spazio urbano. La “costruzione di situazioni” (da cui deriva il nome del movimento situazionista) riceve pieno significato nel teatro di un ambiente metropolitano radicalmente modificato e in forte antitesi con l’urbanistica fordista di Le Corbusier. Ad esempio, l’autore situazionista in Critica dell’urbanistica si scaglia duramente contro i grandi complessi di stampo funzionalista oggetto proprio di un’inchiesta sociale.[13] Debord e il gruppo situazionista sognano esplicitamente una città architettonicamente rivoluzionata in un’esperienza dell’urbano finalmente riumanizzata. La psicogeografia non è altro che il tentativo teorico-pratico di riarmonizzare lo spazio urbano con l’equilibrio psichico personale e collettivo di coloro che abitano e vivono lo spazio, dentro il quadro di una dura critica della vita quotidiana capitalista. La psicogeografia, quindi, si propone come un metodo di critica dell’urbanistica funzionalista moderna, che abbraccia tutti i bisogni e le necessità della vita umana, sempre più quasi esclusivamente “vita urbana”. Ad esempio, il filosofo francese Thierry Paquot, il quale – da allievo di Lefebvre e originale prosecutore degli studi situazionisti – teorizza, nel solco della psicogeografia, “l’eco-urbanismo sensoriale” contro l’azione devastatrice dell’attuale urbanizzazione neoliberale.[14] Con tale termine Paquot rovescia l’ideale lecorbusiano di “macchina per abitare”[15] nella riscoperta dei sensi e della naturalità del rapporto fra la percezione dell’essere umano e l’ambiente. In altre parole, tenta di immaginare un’urbanistica il più possibile armonica nei confronti della natura e della persona, abbandonando la ricorsa della valorizzazione delle forze produttive mediate dalla tecnica capitalista. Il funzionalismo, infatti, secondo l’ipotesi di Paquot, continuerebbe nel progetto neoliberale come ulteriore sviluppo postmoderno dello stadio fordista.

 

3. La psicogeografia, a mio parere, ha molto in comune con il concetto di “spazio di rappresentazione” di Henri Lefebvre. Com’è noto, nel quadro delle triadi dialettiche sul concetto di “spazio”, Lefebvre definisce la categoria di “spazio di rappresentazione” come un concetto che è legato al “livello simbolico” (ovvero quel livello in cui il linguaggio contribuisce a dare impulso ai processi di significazione e alla costruzione di un determinato immaginario politico a cui associamo in seguito una parola e un significato). Il concetto di “spazio di rappresentazione” comprende “l’aspetto clandestino e sotterraneo della vita sociale”, ossia i tentativi possibili di sovvertire lo spazio dominato dalla “rappresentazione dello spazio”.[16] Con “spazio di rappresentazione”, Lefebvre definisce le alternative concrete, che si potrebbero sviluppare nella vita quotidiana, di spazi progettati nella condivisione e nell’autogestione democratica degli abitanti. È il movimento storico “a contrappelo” che spezza il dominio dello spazio capitalistico per mezzo di “momenti”, dove la formazione e lo sviluppo della spazialità è frutto dell’organizzazione democratica della società stessa e dei bisogni e desideri degli esseri umani, non più sottomessi alla logica dell’economia politica del capitale. Lo “spazio di rappresentazione” racchiude, ad esempio, le azioni insorgenti imboccate per sovvertire la spazialità capitalista. Tale concetto in Lefebvre incontra due piani di sviluppo. Il primo è teorico e comprende quei contro-saperi o quei saperi alternativi che vedono nella modernità e nell’urbanesimo non solo “una condanna”, ma anche un’opportunità possibile da sviluppare su basi radicalmente diverse per mettere fine ai dispositivi di potere dominanti e aprire un tempo e uno spazio di un’urbanistica al servizio, autenticamente, del bene comune. Il secondo piano riguarda la prassi: non solo quindi i progetti e le prospettive utopiche di un “vivere anticapitalista” dello spazio, ma anche gli eventi e le brecce di rivoluzione urbana che si sono espresse nella storia, rompendo la geometria che scandiva il progetto spaziale capitalista. In altre parole, stiamo parlando della possibilità inedita di produrre una spazialità radicalmente alternativa al funzionalismo e a tutte le discipline che, come un demiurgo, modellano lo spazio in nome dei “comandamenti” della struttura capitalista (oggi potremmo dire neo-liberale). Se, seguendo il vocabolario lefebvriano, la “rappresentazione dello spazio” è il quadro interpretativo del progetto urbano e spaziale degli assetti di potere, lo “spazio di rappresentazione” è la sua più radicale antitesi e punto di resistenza. In questo senso lo spazio non è solamente ostaggio delle logiche di mercato, ma diventa possibilità di proiezione delle istanze valoriali e dei bisogni dei cittadini, diviene evento trasformatore, evento rivoluzionario. È lo spazio in cui possiamo scorgere le opportunità nascoste della società urbana. Com’è noto Lefebvre non è un critico della modernità tout-court, non rigetta in toto il suo avvento, piuttosto è un critico della modernità prodotta dal capitale, e Lippolis inscrive la sua opera su Genova in questa prospettiva.

 

4. Lippolis è molto critico sulla sorte della sua città soprattutto nell’attenzione che pone ai processi urbani provocati dall’industrializzazione da fine Ottocento ad oggi, ma il suo modello teorico non rimane prigioniero della sola pars destruens, ed è qui la forza della ripresa del metodo psicogeografico. Lippolis denuncia l’idea che ci siamo fin troppo rassegnati al fatto che siamo solo degli spettatori, i quali subiscono le dinamiche urbane sulla propria vita quotidiana. In tutti i casi-studio, sviluppati con precisione e meticolosità storica, dei processi urbanistici che hanno industrializzato e gentrificato Genova a scapito della città antica e della dignità umana degli abitanti di Genova, Lippolis ci ricorda che, nonostante l’egemonia del capitale sullo spazio, ad esso va contrapposta una contro-egemonia che liberi la città e l’urbano dal giogo del mercato. Il volume di Lippolis è un testo che racconta anche una possibile contro-storia di Genova, nella sua esemplarità di aver vissuto tutte le dinamiche urbane che caratterizzano la storia del capitalismo globale. L’autore non è un conservatore nostalgico della città antica violata, certamente Genova è stata violata nella sua autenticità storica; tuttavia, in questo volume possiamo scorgere anche che ci sono state diverse possibilità per realizzare “altre” Genova. Il corso della storia urbanistica di Genova poteva essere un altro e ci sono stati dei soggetti politici organizzati, seppur minoritari, che hanno tentato di prendere parola in questo senso. È un volume che appella al risveglio politico, alla riscoperta di chi ha messo in discussione quei processi urbanistici che ora quasi non si mettono più, democraticamente, in discussione. Ne sono un esempio i gruppi politici che hanno animato Genova nella seconda metà del Novecento, ispirati dai compagni d’oltralpe di Socialisme ou Barbarie e dal Movimento Situazionista.

È importante evidenziare come l’estate del 1892 non sia solo il momento in cui Genova diventa ancora una volta il salotto dove dispiegare la “Ragione Capitalista”, ma è anche l’occasione in cui la galassia socialista e anarchica italiana fonda per la prima volta la sua organizzazione unitaria. Tra il 14 e 15 agosto 1892 nasce il Partito Socialista Italiano, ovvero nasce un nuovo soggetto politico che tenta di unire e organizzare tutte le cooperative operaie e contadine, i circoli, le società di mutuo aiuto e le prime forme di sindacalismo che avevano come obiettivo la resistenza e la controffensiva agli abusi della borghesia e della nobiltà della “nuova” Italia, uscita da poco dalle guerre di indipendenza. Come ricorda Valerio Evangelisti nella trilogia storico-romanzesca del Sol dell’Avvenire, si trattava del tentativo di federare le lotte dei lavoratori italiani sull’esempio della Prima Internazionale. Non era ancora chiaro se un partito socialista dovesse solamente organizzare la rivoluzione o candidarsi e conquistare lo Stato per via elettorale o federare e organizzare politicamente l’azione sindacale nella società. A Genova, nel 1892, l’esposizione universale rinsaldava le alleanze cosmopolite dell’economia capitalista, ma anche il primo congresso fondativo del socialismo italiano, simultaneamente, dava vita allo spazio organizzativo internazionalista dei lavoratori e delle lavoratrici, che avrebbe dato battaglia lungo tutto il “secolo breve”.

Infine, l’autore della Città livida ci dice che il passato è carico di insorgenze perdute, ma non del tutto sconfitte, se si fosse capaci di uscire dal realismo capitalista attuale del “there is no alternartive!”, si potrebbe ancora una volta mettere in discussione le scelte del potere costituito che nel 2023 vorrebbe relegare le classi subalterne nelle periferie abbandonate e riorganizzare il centro per fare di Genova, un’altra Disneyland, come già stanno facendo con un’altra ex-repubblica marinara del nord Italia: Venezia.

 

Note:

[1] A. Huxley, Mondo Nuovo. Ritorno al mondo nuovo, Mondadori, Milano, 2015. Si veda a proposito anche: T. Adorno, Aldous Huxley e l’utopia, in Prismi. Saggi sulla critica della cultura, Torino, Einaudi, 1972, pp. 89-114.

[2] Consiglio Centrale dell’I.S., Geopolitica dell’ibernazione, in Internazionale Situazionista 1958-1969, a cura di M. Lippolis, Nautilus, Torino, 1994, p. 7.

[3] Le Corbusier, Verso una Architettura, a cura di P. L. Cerri, P. L. Nicolin, Longanesi, Milano, 1973, p. 123. Si veda anche: M. McLeod, “Architecture or Revolution”: Taylorism, Tecnocracy and Social Change, in «Art Journal», Vol. 43, 2, 1983, pp. 132-147.

[4] Le Corbusier, Urbanistica, Il Saggiatore, Milano, 1967, p. 290.

[5] P. Dardot e C. Laval, La nuova ragione del mondo, Derive Approdi, Roma, 2013.

[6] L. Lippolis, La città livida. Una controstoria psicogeografica di Genova (1892-2022), De Ferrari Editore, Genova, 2023. D’ora in poi solo le pagine di questo volume saranno indicate nel corpo del testo tra parentesi.

[7] F. Braudel, Il secondo Rinascimento. Due secoli e tre Italie, Einaudi, Torino, p. 78.

[8] G. Debord, Contributo a una definizione situazionista del gioco, in «Internazionale Situazionista», n. 1, 1958, cit., pp. 9-11; Id., Il ritorno di Charles Fourier, in «Internazionale Situazionista», n. 12, 1969, cit., p. 104.

[9] G. Debord, Critique de la géographie urbaine, 1955, in Oeuvres, Gallimard, Paris, 2006, p. 204.

[10] Ivi, p. 207.

[11] G. Debord, Écologie, psycogéographie et transformation du milieu humain, 1959, in Oeuvres, cit., p. 460. Si veda anche: Khatib, Saggio di descrizione psicogeografica delle Halles, in «Internazionale Situazionista», n. 2, 1958, cit., pp. 13-18.

[12] G. Debord, Critique de la géographie urbaine, in Oeuvres, cit., p. 208.

[13] G. Debord, Critica dell’urbanistica, in «Internazionale Situazionista», n. 6, 1961, cit., pp. 6-12.

[14] T. Paquot, Urbanizzazione planetaria ed eco-urbanismo sensoriale, in L’esplosione urbana, numero monografico di «Millepiani/Urban», n. 1, 2009, Edizioni Eterotopia, Milano, pp. 37-53.

[15] Le Corbusier, Verso un’architettura, Milano, Longanesi, 1973, p. 73.

[16] H. Lefebvre, La produzione dello spazio, Moizzi, Milano, 1976, p. 59.