Le parole e le cose del nuovo ordine didattico – di Mino Conte
1. Egemonia e potenza delle nuove parole-mito
1.1 Sembra sufficientemente fondato dire che se nuove parole s’impongono nel discorso scolastico, muta con esse il modo di pensare alle cose della scuola e all’ insegnare. Se mutano le parole che dicono e ridicono l’insegnare, rinominandolo e introducendo un nuovo lessico, a cambiare non è solo il segno linguistico. L’insegnare non sarà più come prima. E’ dunque necessario prestare sempre molta attenzione alle parole che giungono ad esercitare la loro presa sull’ordine discorsivo e di pensiero che insiste sulla realtà scolastica (e non solo). Esse vanno di bocca in bocca rinforzandosi, sono pronunciate talvolta innocentemente anche se innocenti non sono. Non è da intendersi solo come un innocuo e forse cacofonico mutamento di segni linguistici prendere ad un certo punto a parlare dell’insegnante, ad esempio, come di un “facilitatore di processi di apprendimento”, oppure come di “un pari che resta in secondo piano” intento ad allestire “ambienti di apprendimento”. Già da tempo, e da almeno un ventennio con intensità crescente, la nominazione dell’insegnante e delle sue attività ha avuto slittamenti di segno ed amputazioni semantiche ad alto coefficiente de-strutturante: “funzione strumentale”, “funzione obiettivo” solo per ricordarne alcune. La neo-lingua ormai divenuta senso comune scolastico con meritorie eccezioni, non si è però introdotta assecondando esclusivamente un moto semiologico autonomo, oppure per semplice inerzia d’uso (sì, anche questo), ma si è gradualmente imposta per il tramite di raccomandazioni e linee guida europee, dunque attraverso una via maestra istituzionale. La quale ha svolto (e tuttora svolge) una funzione legittimante e senza mediazioni dei desiderata provenienti dal mondo della produzione, prontamente recepite (perché “ce lo chiede l’Europa”) dalle legislazioni nazionali. Una funzione di smistamento e di legittimazione al più alto grado, dunque, sostenuta ex ante oppure validata ex post con un non credibile unanimismo da parte del mondo della ricerca didattica (il “mondo della ricerca nazionale e internazionale ci indica che…”), col ritornello autovalidante dell’innovazione per l’innovazione, della digitalizzazione per la digitalizzazione, e così via [1]. Senza contare il concorso volontario e zelante di funzionari e impiegati di complemento, interni al mondo della formazione, arruolati con funzione propagandistico-istituente. All’ Università, sia detto solo di passaggio per rilevare l’unitarietà del processo che procede senza distinzione di cicli formativi, sono da qualche tempo comparsi nell’indifferenza generale oppure talvolta con la partecipazione attiva della frazione sedicente “non-conservatrice”, innovativa e inclusiva del corpo accademico, i cosiddetti “docenti alfa” (quelli bravi, che fanno punteggio per i Corsi di Dottorato), i “change agents” (quelli che agiscono come catechisti della digitalizzazione irriflessa) e così via. Insomma, la neo-lingua che stiamo provando a tratteggiare procede senza distinzioni di grado e livello formativo.
1.2 La detronizzazione dell’insegnante a mero facilitatore, per riprendere questa infausta e grigia nomenclatura, ha peraltro dato seguito e fiato ad alcuni residui anti-autoritari del Sessantotto, via via banalizzati e sussunti come armi efficaci per i disegni neo-conservatori sulla scuola intenzionalmente perseguiti dalla révanche neoliberale dopo i “trenta gloriosi”. Jean-Paul Brighelli, insegnante di Lettere nei Licei francesi, nel suo appuntito “La fabrique du crétin. La mort programmeé de l’école”, del 2005, la dice così: trattasi della perversa combinazione di tre reagenti chimici esplosivi mortali: i cervelli più naif dei libertari sessantottardi, i neo pedagogisti, il neoliberismo. Si tratta “di formattare l’individuo di cui l’economia moderna sembra avere bisogno: un essere senza passato, senza storia, senza basi […] il sistema ha prodotto ciò che gli era necessario: una mano d’opera a buon mercato […] formata ad un compito ben preciso, e soprattutto sgomberata della cultura globale che le consentiva, una volta, d’analizzare il sistema, di potersi rappresentare al suo interno e, infine, di criticarlo” [2].
Sia chiarito a scanso di equivoci: nessuno ha qui in mente la restaurazione d’ un ordine precedente e la re-intronizzazione del docente come figura sopraelevata e inaccessibile, la riabilitazione del monarca frontale della relazione didattica, se mai è esistito davvero o se si tratta di un mito costruito ad hoc. Sottoporre a critica lo stato presente delle cose nella realtà formativa a partire dai sintomi linguistici ormai ad uno stato avanzato di infettività, non comporta necessariamente la volontà di ripristinare quello precedente o quello remoto, presuntivamente ritenendoli migliori dell’attuale.
Scuola e Università, riprendendo il nostro tema, sembrano poggiare su un principio egemonico che suona più esattamente come una petizione di principio nei confronti del totalitarismo del mercato capitalistico in quanto condizionalità implicita out of discussion.
1.3 Il nesso tra sapere, modalità d’insegnamento e, aggiungiamo, libertà, uguaglianza e democrazia, ci sembra sottoposto (oggi ma non da oggi) ad un urto poderoso la cui dinamica è però sottile e astuta. Essa necessita, per essere intelligibile e contestabile in profondità, di un apparato critico all’altezza capace di andare oltre gli effetti di superficie, in grado di aprire crepe e fessure nel discorso pedagogico-didattico egemonico e nel suo ordine fatto di parole-mito prêt-à-parler [3]. Sgraniamo brevemente, giusto per intenderci, un frammento del rosario ripetuto ad nauseam: capitale umano, competenze, economia della conoscenza, life long learning, innovazione di processo, innovazione di prodotto, e così via di seguito. Aggiungiamo anche inclusione e resilienza [4]: la prima parola, proviamo a ipotizzare prima ancora d’impegnarci in una possibile traduzione, finisce col sostituire giustizia sociale, la seconda sembra ormai aver preso il posto della flessibilità caduta in disuso, che a sua volta sostituiva l’antiquata resistenza. Come si può vedere, le parole-mito hanno tra le altre caratteristiche quella di essere parole de-politicizzate che spengono il conflitto e il dissenso, scolorando le differenze politiche, rimettendo in riga (semiologica) le cose della scuola. Parole che si rinforzano nell’uso continuo, amministrativo e pedagogico e che finiscono per pensare e parlare per noi, al nostro posto, esonerandoci dalla fatica che comporta il transitare attraverso il pensiero e il giudizio. E’ la lingua del “quarto impero” se vogliamo prendere a prestito, sviluppandola, la tesi del filologo Victor Klemperer, l’Autore di una saggio magistrale intitolato, LTI (lingua tertii imperi) La lingua del Terzo Reich. Taccuino di un filologo, pubblicato nel 1947. Nel nostro caso si tratta della lingua riaggiornata del capitale (non umano). Lungi da noi sia chiaro, proporre impensabili parallelismi o sovrapposizioni tra l’orrore assoluto del nazismo e quanto accade nel mondo della scuola. Tuttavia il filologo, pur parlando d’altro, sembra aver qualcosa da dirci. Come ricorda Klemperer, “nel programma pedagogico hitleriano il nutrimento culturale e la formazione intellettuale stanno all’ultimo posto, guardati con sospetto e denigrati. Costantemente, nelle espressioni usate, è possibile avvertire il timore nei confronti dell’essere pensante, l’odio per il ragionamento” [5] (p. 18). Timore per l’essere pensante. Odio per il ragionamento. Una lingua povera, di un’estrema povertà, una povertà di principio, nota ancora il filologo, “altrettanto onnipossente quanto povera, resa anzi onnipossente dalla sua povertà” [6]. Aggiunge ancora il filologo. Le parole “possono essere come minime dosi di arsenico: ingerite senza saperlo sembrano non avere alcun effetto, ma dopo qualche tempo ecco rivelarsi l’effetto tossico” [7]. Il linguaggio proprio alle dottrine totalitarie, notava in proposito Albert Camus qualche anno dopo, è sempre un linguaggio scolastico o amministrativo [8].
1.4 Il compito di chi abbia ancora in animo di ridare nuova linfa e vita alla sopita tradizione critica nel mondo dell’istruzione e della formazione nel tempo della sua latitanza o insufficienza o paralisi (sempre con le meritorie eccezioni), crediamo riguardi innanzitutto l’urgenza di ripensare daccapo e dalle fondamenta il paradigma emancipativo, ripristinandolo su nuove basi dopo averne denunciato lo scolorimento e la progressiva neutralizzazione adattiva. L’impressione è che la spinta propulsiva delle soluzioni e speranze pedagogico-educative emancipative novecentesche abbia definitivamente esaurito la propria capacità trasformativa e, per buona parte, sia stata sussunta dal paradigma neoliberista e dalle sue istanze neo-conservatrici che amano presentarsi sotto mentite spoglie, persino democratiche, green e, manco a dirlo, innovative, inclusive e resilienti, promotrici del merito e dell’eccellenza, come recita il linguaggio d’ordinanza del nuovo ordine scolastico-didattico. Sembra non più rinviabile un salto concettuale in grado di superare l’orizzonte del dissenso storico fattosi ormai senso comune innocuo. Per intenderci: le eresie di ieri, ad esempio quella che si presume tale del Priore di Barbiana, don Milani, rischiano di essere utilizzate (e in parte lo sono con alcune forzature), in funzione camuffativa “redwashing”, dalle ortodossie di oggi, e i “maestri ignoranti” di Jacques Rancière sono ormai funzionari-impiegati del sistema che, avendo abolito la lezione-spiegazione come un ferrovecchio, si credono rivoluzionari [9]. Lo stesso dicasi per la prospettiva del pragmatismo pedagogico a suo tempo tracciata da John Dewey. In particolare non siamo persuasi che “la lezione di Dewey sia essenziale” per la “rivoluzione dell’istruzione che verrà” come recentemente hanno scritto Laval e Vergne [10], senza che nulla sia tolto da parte nostra al nitido valore del classico deweiano del 1916 “Democracy and Education”. Il primo (Laval), ricordiamo, è Autore, assieme a Dardot, di una ponderosa e imprescindibile trattazione critica sulla ragione neoliberista in quanto “nuova ragione del mondo”. Chiediamoci però: può il manifesto del nuovo paradigma critico-emancipativo portare in calce la firma di John Dewey? Non ne siamo convinti e proveremo ad argomentare al riguardo, in modo particolare sul combinato disposto (per lo più italiano) in sé auto-contraddittorio (divenuto anche un po’ dispotico malgrado le diverse intenzioni originarie) don Milani-Dewey, riservandoci in altra sede, la revisione critica più ampia degli altri Autori canonici della pedagogia critica. Ci limitiamo qui a segnalare la necessità di una “critica della pedagogia critica” divenuta, appunto, senso comune pseudo-contestativo, al più capace di dar fiato ad una ben accetta (perché alla fine innocua) variante interna del paradigma egemonico che ne temperi e ripari gli effetti negativi senza toccarne l’essenza.
2. Verso un nuovo paradigma emancipativo-critico per la pedagogia.
2.1 Il nuovo paradigma critico-emancipativo dovrebbe a nostro avviso compiere due prime mosse teoriche che ci sembrano fondamentali:
- Riconnettersi con le sue fonti originarie di analisi e di senso. Perdute di vista e abbandonate come antiquariato culturale sotto gli urti dello smottamento postmodernistico che ha preteso di sancirne il definitivo tramonto nel coevo cupio dissolvi del soggetto storico organizzato. Fonti innanzitutto materialistiche nelle loro matrici e coordinate filosofico-politiche fondamentali, tutt’altro che incapaci di illuminare con chiavi interpretative non omissive o sorvolanti lo stato presente che caratterizza il mondo dell’istruzione. Si ascolti in proposito l’intervento di Andrea Cengia.
- La seconda mossa, dopo aver riaperto i rubinetti lasciati a secco della tradizione critica materialistica nelle sue diverse variabili dipendenti di natura concettuale e nelle sue diverse espressioni temporali, ed aver creato le condizioni indispensabili per il superamento della superficializzazione adattiva del discorso pedagogico-educativo, dovrebbe consistere nella critica della pedagogia e della didattica correnti e delle loro varianti “alternative” interne, in modo particolare concentrando l’attenzione sul versante che si auto-presenta come “democratico” “progressista”, “inclusivo”, “innovativo”, persino “critico” e che intenderebbe contrapporsi alle posizioni conservatrici, alla tradizione, alla passività del discente, alla verve retorico-declamatoria dell’odiato e out of time docente “frontale” e “trasmissivo”. In altri termini: a tutta quella pedagogia e quella didattica che elegge a nume concettuale protettore, ad esempio, il priore di Barbiana nel segno del pragmatismo pedagogico deweyano (e di altri Autori canonici presenti con intensità e peso specifico variabile, che qui non trattiamo).
2.2 Che cosa resta, a più di cinquanta anni dalla sua morte, e a cento dalla sua nascita, di quell’unicum che fu l’esperienza pedagogica del Priore di Barbiana? Molto è stato detto e scritto lungo questi anni circa il lascito dell’esperienza educativa realizzata nell’esilio appenninico, in termini che hanno sempre sottolineato il valore esemplare e la testimonianza di un’idea di scuola capace di mettere radicalmente in discussione l’invecchiata e non innocente istituzione di allora come luogo di riproduzione classista delle diseguaglianze sociali. Al punto da includere a pieno titolo la celebre “Lettera” tra i testi canonici e irrinunciabili per chiunque abbia intenzione di mettersi al servizio, come insegnante e come educatore, della causa degli oppressi e dei meno fortunati al fine del loro riscatto. Tale rapido quadretto riepilogativo, se per un verso riconosce a quell’esperienza pedagogica quel che è giusto riconoscerle, non può esimersi dal rilevare alcuni problemi che la viziavano sin dalle origini [11]. La problematizzazione di Barbiana non può più essere intesa come un esercizio critico di stampo neo-conservatore. L’equazione per la quale qualunque critico di Barbiana sia necessariamente un nostalgico della scuola elitaria e classista, un gentiliano esecrabile, è profondamente errata e forse in malafede. Basti pensare che il Priore è stato incluso nel Pantheon dei grandi ispiratori della cosiddetta “Buona Scuola” (magari forzosamente ma incluso perché alla fine includibile) la quale non ci sembra affatto un modello di eresia scolastica alternativo alla ragione neoliberale. Ci sembra pertanto non più rinviabile una critica materialistica “da sinistra” del donmilanismo (così come dell’esperienza originaria). A distanza di mezzo secolo, in una situazione mutata in termini di composizione sociale, rapporti economici, forme di comunicazione e di convivenza civile, e di disorientamento dinanzi alle nuove condizioni materiali che ristrutturano e ricodificano incessantemente le forme di vita, di produzione, di apprendimento all’insegna della forma-valore e della forma-impresa, ci sembra opportuno chiederci che cosa resti e che cosa possa eventualmente essere ripensato, oggi, di quella narrazione pedagogica. In vista del suo definitivo superamento. I richiami obbligati a don Milani, non sappiamo con quanta consapevolezza e cognizione specifica, sembrano ancora oggi ripetersi in modo coattivo e quasi irriflesso, come citazione d’obbligo per esplicitare il proprio posizionamento sull’esausto versante democratico; quasi per assicurarsi l’iscrizione automatica alla sopravvissuta o sbiadita rive gauche del mondo scolastico. Mettendo quasi sullo stesso piano, malgrado l’abisso concettuale che li separa, ad esempio, Il Priore e Gramsci, comunque divenuti ascrivibili entrambi allo stesso partito pedagogico. Siamo ben consapevoli che l’argomento che qui proponiamo esponga all’accusa di sacrilegio visto la potenza di fuoco e gli sdegnosi epiteti abitualmente rivolti all’iconoclasta di turno. Ciò nonostante riteniamo imprescindibile spingere oltre la riflessione con alcune domande. La diagnosi rivolta alla scuola del tempo, presente ad esempio nella celebre Lettera, è applicabile alla scuola che oggi conosciamo? La terapia per contrastare e debellare i mali della scuola italiana degli anni Sessanta è ancora valida? Chi sono oggi i subalterni, gli emarginati, i “mancanti all’appello” e di quale scuola avrebbero bisogno? Quali connotati inediti presenta oggi l’oppressione, e la servitù, la soggezione, la menzogna, il terrore, per riprendere “i flagelli che fanno regnare il silenzio tra gli uomini” di cui ha scritto Camus, che la differenziano in modo irrimediabile da quella di Barbiana?
Queste domande iniziali, qui radunate con lo scopo di aprire e introdurre alcuni tracciati di studio e ricerca, ci sembrano imprescindibili anche per rilanciare con forza il dibattito e la discussione sull’istituzione scolastica pubblica e sul suo significato educativo, sulle politiche pubbliche destinate alla scuola, sull’urgenza di risignificare il tema della scuola democratica e del paradigma critico-emancipativo legato all’istruzione dinanzi alle sfide del presente. Un nuovo vocabolario ci sembra necessario per la scuola democratica-della Costituzione, per demistificare e smascherare il portato ideologico, conservatore e regressivo, del disegno pedagogico definito dalla neo-lingua del capitale umano, della competizione, dell’eccellenza, del merito. Occorrono ben altri riferimenti teorico-critici a nostro avviso, ben altre armi concettuali che l’eterno ritorno ad un esperienza pastorale.
Perché oggi il donmilanismo non può più fungere da modello per la riscrittura del paradigma emancipativo? Perché, pur nella sua innocenza originaria, che forse tanto innocente non era, può condurre dritto ad alcune petizioni di principio e presupposizioni ideologiche tipiche della scuola neoliberale e non alla sua sovversione. Proviamo ad identificarle recuperandole nella sedimentazione a lunga gittata dell’esperienza di Barbiana, così come ne ha parlato a distanza di anni (nel 2002) un allievo del Priore, Edoardo Martinelli, dunque un testimone diretto [12]. L’allievo ricorda il suo Maestro identificandone gli intenti e le posizioni. Di seguito alcuni prelievi significativi che mettono a fuoco le direzioni didattiche adottate a suo tempo alla periferia del mondo. Una piccola realtà, quella creata da don Milani
- a) dove ebbe modo di realizzarsi il passaggio dalla trasmissione delle conoscenze alla costruzione di “schemi logici e di contesti flessibili, un intreccio di idee e di fatti idonei a produrre apprendimento”;
- b) dove era “più importante saper usare il vocabolario che imparare una parola in più”;
- c) dove era decisivo “spostare l’attenzione dai saperi alla persona” (era questa la “sfida più grande”);
- d) dove “il complesso delle cose concrete” era “luogo di costruzione del significato”;
- e) dove imperava il metodo “attivo, del saper fare, capace di formare il pensiero autonomo”;
- f) perché protagonista era l’allievo che “a partire dall’ambiente in cui vive, organizza e costruisce la propria conoscenza”;
- g) realizzando il primato della “logica induttiva”,
- h) e l’educatore era inteso come “regista e portatore di strumenti”, con l’immancabile “cassetta degli attrezzi”.
Questo a Barbiana secondo il testimone diretto. In sintesi e ricapitolando in altra forma: al centro dell’istruzione sta la persona e non il sapere (centralità dell’antropologia cristiana e non dell’epistème laica); non si trasmettono conoscenze ma si allestiscono ambienti che producono apprendimento dove ha luogo la costruzione autonoma delle conoscenza da parte del discente; è più rilevante apprendere ad usare uno strumento che apprendere qualcosa; l’astrazione è messa al bando in favore della concretezza. In una proposizione: sul fondamento dell’antropologia cristiana, coniugato con la ragione strumentale, l’apprendente costruisce da sé la propria conoscenza a partire dal concreto. L’insegnante non insegna ma allestisce “ambienti che producono apprendimento”. Tale ideale educativo-didattico intenderebbe opporsi e superare la vecchia e vituperata logica trasmissiva dei contenuti e dei saperi, l’apprendere qualcosa passando attraverso l’astrazione dei concetti, dove qualcuno insegna qualcosa a qualcun altro. Chiediamoci: quale dei due è il modello emancipativo? Il primo, che l’allievo di Barbiana attribuisce al Priore, oltre che condurci dritto al lessico d’ordinanza attuale, ci pare ristabilisca per altra via e in modo ingannevole la forma mentis dei subordinati dopo averne illuso la speranza emancipativa. Sembra, detta così, un’anticipazione della scuola neoliberale che non ha certo intenzione emancipative ma la creazione di quella forza lavoro di cui ha ben detto il già citato Brighelli. L’oppresso non è accompagnato a dotarsi di quelle imprescindibili capacità culturali e intellettuali in grado di metterlo nelle condizioni di smascherare, riconoscere, comprendere in profondità l’oppressione e di combatterla. Nessuna formazione del dirigente, come infatti voleva in modo radicalmente diverso Gramsci. La parola intellettuale è divenuta una brutta parola. La parola teoria idem.
2.3 La “ragione strumentale” ha già fatto capolino nel nostro commento dei luoghi ricondotti a sintesi dell’esperienza donmilaniana. E’ il momento di chiamare in causa l’Horkheimer di Eclisse della ragione, là dove sottopone ad implacabile critica lo strumentalismo deweiano (oltre che il positivismo e il neotomismo). Anche il Francofortese di prima generazione, come Dewey, richiama all’appello il William James di Pragmatism (1907) che elesse a tribunale della verità di un’idea o di un concetto le sue “conseguenze pratiche”: “Ammesso che un determinato concetto sia vero e l’altro no, che differenza ne deriverebbe praticamente per il singolo? Se non riusciamo a trovare alcuna differenza pratica, concluderemo che le due alternative sono equivalenti e che ogni discussione è inutile” [13]. Il pragmatismo, aggiunge James, non si schiera per nessuna soluzione particolare, “esso è soltanto un metodo”. Per il quale le teorie “diventano strumento di ricerca, invece di essere la risposta ad un enigma e la fine di ogni ricerca. Esse non ci servono per riposare ma per andare innanzi”. Il metodo pragmatista consiste in un “atteggiamento al di fuori di ogni teoria particolare” [14] (sic). Su queste basi, Dewey può affermare: “Il pensiero che non è connesso con un aumento di efficienza per l’azione […] ha qualcosa che non va proprio come pensiero”. Le idee, allora, non sono altro che “anticipazioni di possibili soluzioni” [15]. Aumento di efficienza per l’azione. Soluzione di problemi. Un’idea è un abbozzo tracciato a partire da cose esistenti. Chiosa Horkheimer: “le nostre idee sono vere perché le nostre speranze vengono esaudite e le nostre azioni hanno successo” [16]. E non il contrario, ossia che le nostre speranze sono esaudite e le nostre azione hanno successo perché le nostre idee sono vere. Il pragmatismo pertanto, “restringendo il campo di visione, riduce il significato delle idee a quello di progetti o schemi”. Tale logica del futuro assorbe, scartandola, la dimensione del passato. Per cui, tale metodo o atteggiamento, “è il riflesso d’una società che non ha tempo di ricordare né di meditare” [17], e “riflette l’industrialismo moderno per il quale la fabbrica è il prototipo dell’esistenza umana e il lavoro in tutti i campi dell’attività culturale dev’essere modellato sulla produzione a catena o sui metodi di direzione razionalizzata. Per dimostrare il proprio diritto ad essere ‘concepito’ ogni pensiero deve avere un alibi, presentare documenti che dimostrino la sua utilità pratica” [18]. Il pensiero deve essere valutato in base a qualcosa che non è pensiero, in base cioè al suo effetto sulla produzione o sulla condotta sociale. Horkheimer intende mostrare la parte giocata dal pragmatismo nel processo di soggettivizzazione (o neutralizzazione) della ragione. Per cui essa è privata di ogni rapporto con il contenuto oggettivo e della capacità di giudicarlo. La ragione diviene uno strumento “cui il come importa più del che”, non più in grado di scoprire e affermare contenuti nuovi. La conseguenza pedagogico-didattica di tale impostazione sottoposta all’esame del neo-marxista critico e dialettico, rende oltremodo visibile il pragmatismo nel suo atteggiamento anti-teoretico. Conoscere è qualcosa che facciamo. Al diavolo il pensiero non strumentale e non operativo.
Come si può ben vedere, e come i frammenti riportati sembrano testimoniare, la combinazione pedagogica (che si vorrebbe immune da contraddizioni) tra il donmilanismo e il deweyanesimo, finisce col costituire l’intelaiatura concettuale e pragmatica della scuola intesa come braccio secolare dell’ideologia funzionalistica legata alla valorizzazione economica come suo segmento strutturale preparativo e riproduttivo. E questo nonostante i riferimenti alle “buone pratiche” di Barbiana e alla concettualizzazione deweyana siano solitamente parte integrante, con diversa intensità e accentuazione, della costellazione ideale cui trae ispirazione la pedagogia e la didattica che si autorappresenta come non-autoritaria, non-conservatrice, posizionata “a sinistra” nel panorama politico, a nostro avviso abusivamente. La breve trattazione di cui sopra starebbe infatti a dimostrare proprio il contrario e apre al compito di ripensare daccapo le fondamenta e la cornice concettuale della pedagogia e delle didattica emancipativa e spinge all’immaginazione d’un nuovo vocabolario concettuale che ci consenta di dire e di pensare altrimenti alla scuola e all’insegnare, per praticare il dovere di istruire come esperienza che si ostina a voler essere educativa. Non dunque, primariamente, nel senso del mero adattamento funzionalistico allo stato presente delle cose in vista del loro miglioramento continuo economicamente profittevole, come torna a chiedere la pedagogia neo-borghese camuffata del suo contrario. Il versante letterario di tale processo è esemplarmente espresso dalla prosa borghese moderna e dalle sue sempreverdi parole chiave, tra le quali spiccano, guarda caso, l’utile ed l’efficienza, per cui mai nessun oggetto è fine a se stesso ma sempre e solo uno strumento per fare qualcos’altro, “utile a me” [19].
L’esercizio critico che abbiamo provato a delineare, è partito dalle parole per svilupparsi verso una forma di traduzione sui generis, che si oppone alla familiarizzazione e naturalizzazione sia linguistica sia ideologica veicolata dalla parole-concetto, tutt’altro che neutrali o innocenti, dell’ordine discorsivo scolastico attuale. Tale traduzione “defamiliarizzante”, per così dire, non si adatta pigramente agli standard della lingua e della letteratura pedagogico-didattica mainstream o “alternativa”, e mira a mettere in discussione le espressioni correnti intendendole come frammenti ideologici e schegge di una verità più vasta in cui essi trovano il loro significato. La traduzione, in questo senso, diviene un compito di autoformazione continua per tutti coloro che operano nel mondo della scuola e dell’università. Come antidoto politico ad ogni forma di subalternità intellettuale non potendo, le necessità intellettuali, essere ridotte a un formato tascabile che procede secondo iterazioni ossessive nemiche del pensiero. Dalle parole alle cose della scuola per demistificare (e disimparare) la neolingua oggi egemone che esercita indisturbata la propria potenza infettiva. Al fine di gettare le basi linguistico-concettuali per una pedagogia capace d’istituire e dare nuova linfa e prospettive all’emancipazione e alla liberazione dalle forme vecchie e nuove di oppressione.
NOTE:
[1] Si veda ad esempio il Piano Scuola 4.0 dove più volte ritorna una pretesa univocità dei risultati delle ricerca. La quale, se è davvero tale, e a maggior ragione per il campo delle “scienze umane”, presuppone al contrario controversie, discussioni, pluralità di posizioni.
[2] J-P. Brighelli, La fabrique du cretin. La mort programméè de l’école, Paris, Jean-Claude Gawsewitch Éditeur, 2005, pp. 20-21.
[3] Nel senso cesellato da Barthes nel 1957. La parola-mito “designa e notifica, fa capire e impone”, ha una “forma vuota, parassitaria”, per cui “il senso è già completo (…) allontana la sua contingenza, si svuota, s’impoverisce, la storia evapora, resta la lettera”. R. Barthes, Miti d’oggi, Torino, Einaudi, p. 199.
[4] Il termine “resilienza” è ormai parte integrante della koiné burocratica nazionale ed europea. Il latino “resiliere”, ricordiamo, vuol dire rimbalzare, saltare indietro, arretrare, contrarsi. Il soggetto resiliente reagisce ai colpi che riceve ritirandosi, facendosi mansueto. Che sia questo significato, depositato nell’ombra dell’etimologia, ad interessare l’inconscio del potere?
[5] V. Klemperer, LTI. La lingua del Terzo Reich. Taccuino di un filologo, Firenze, Giuntina, 2011, p. 18.
[6] Ivi, p. 37.
[7] Ivi, p. 32.
[8] A. Camus, L’uomo in rivolta, Milano, Bompiani, 2009, p. 310. Ed. or. 1951.
[9] Mi riferisco al volume di J. Rancière, Il maestro ignorante, Milano-Udine, Mimesis, 2008. Ed.or. 1987.
[10] C. Laval, F. Vergne, Educazione democratica, Anzio-Lavinio (RM), Novalogos, 2021. Al di là di questa volatile concessione al pensatore nordamericano, peraltro sottoposto a rilievi critici in altri luoghi testuali, l’Opera offre un contributo importante e necessario al ripensamento critico dell’istruzione.
[11] Si veda esempio A. Scotto di Luzio, L’equivoco don Milani, Torino, Einaudi, 2023.
[12] E. Martinelli, Pedagogia dell’aderenza, Vicchio-Mugello (FI), Polaris, 2002.
[13] W. James, Pragmatism, a New Name for some Old Ways of Thinking, New York – London, Longmans, 1907, p. 45.
[14] Ivi, pp. 45-55.
[15] J. Dewey, Democrazia e educazione, Firenze, La Nuova Italia, 1949, pp. 102-106.
[16] M. Horkheimer, Eclisse della ragione. Critica della ragione strumentale, Torino, Einaudi, 2000. Ed. or. 1947, p. 42.
[17] Ivi, p. 43.
[18] Ivi, pp. 48-49.
[19] F. Moretti, Il borghese, Torino, Einaudi, 2017, pp. 31-38.
(IMMAGINE: Felice Casorati, Gli scolari, 1928)