Giobbe ad Auschwitz. La Shoah e la teodicea ebraica nel pensiero di Margarete Susman – di Gianfranco Bonola

Giobbe ad Auschwitz. La Shoah e la teodicea ebraica nel pensiero di Margarete Susman – di Gianfranco Bonola

30 Agosto 2023 Off di Mario Pezzella

Teodicea come problema

Nella filosofia della religione di scuola analitica è molto nota una parabola, risalente a Antony Flew,[1] nella quale due esploratori s’inoltrano in una foresta disabitata e, di fronte a una radura mirabilmente disposta dove crescono splendidi fiori (non senza qualche erbaccia), si trovano a discutere se esista o meno qualcuno che se ne prende cura. Volendo risolvere l’enigma si accampano in quel luogo per più giorni, e tuttavia non compare nessuno. In seguito i due organizzano dei dispositivi sempre più sofisticati per captare in qualche modo la presenza dell’eventuale giardiniere, ma nessun procedimento riesce a rilevare alcunché. Uno dei due esploratori ritiene perciò di poter giungere alla conclusione che il giardiniere non esiste affatto, mentre l’altro insiste nel ritenere che si potrebbe sempre trattare di un giardiniere invisibile, immateriale, che sfugge agli strumenti di rilevazione. L’insidiosa domanda finale dell’esploratore scettico suona: in che cosa un giardiniere in nessun modo attestabile o registrabile si distingue da un giardiniere immaginario, oppure da nessun giardiniere?

Tra le molte implicazioni dell’apologo, che è perfettamente applicabile anche al tema della teodicea, quella che mi pare più istruttiva qui riguarda la radice dell’atteggiamento di ciascun esploratore. I due atteggiamenti risultano infatti decisi a priori: tanto quello che si affida a metodi di verifica per trarre delle conclusioni, quanto quello di chi non troverà mai procedure di invalidazione sufficientemente accurate e rigorose da dover abbandonare, di fronte ad esse, le proprie convinzioni. In questa divisione a priori del campo si riflette, ancora oggi, quella riconduzione della teodicea all’ambito strettamente teologico già operata da Kant nel 1791.[2] Ovviamente anche la tradizione ebraica conosce questo radicale contrasto di posizioni; lo attesta in sintesi estrema un detto chassidico a proposito del male, ricordato da Elie Wiesel, che decreta: “Per il credente non ci sono domande, per il non-credente non ci sono risposte.”[3]

Con questo si è già indicata anche la situazione, oggi estremamente problematica, della teodicea. Come dottrina teologica, all’interno stesso di un impianto di teologia razionale, da molto tempo si è lasciata alle spalle le stagioni fiduciose in cui si permetteva di classificare, elaborando un’articolata dottrina della providentia Dei, l’assiduo intervenire di Dio in tutta la realtà mondana. Allora si pretendeva di discernere nell’accadere la Sua cooperazione (concursus), il Suo volgere gli eventi versi i Suoi fini (gubernatio), il Suo concedere al male di avere conseguenze (permissio) oppure di non averne affatto (impeditio), ed eventualmente di indirizzare tali effetti secondo i Suoi intenti (directio), o di ridurne lo strapotere (determinatio). Ma di tutta questa confidenza con le modalità operative della provvidenza non rimane più nulla. Sulla presunzione che sorreggeva tali sottili speculazioni è scesa, ben più forte dell’interdizione filosofica, la scure di una rinnovata coscienza della trascendenza divina, che ha fortemente richiamato in campo la parola di Isaia 55, 8: “Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri e le vostre vie non sono le mie vie – oracolo del Signore”.

Di una teodicea specificamente ebraica, inoltre, si può parlare a rigore soltanto in un senso secondario e derivato. Non sarebbe da dimenticare troppo presto che nell’ebraismo la dottrina religiosa propriamente detta è rivolta principalmente ad analizzare, codificare e organizzare la prassi della vita ebraica nei suoi aspetti cultuali, etici, legali ed esistenziali. Lo sviluppo di una fides quaerens intellectum, l’edificazione di una teologia dogmatica vera e propria sono estranee alla tradizione ebraica, che solo in alcuni esponenti, e per contatto con altre tradizioni culturali (islamiche e cristiane soprattutto), ha elaborato opere di teo-logia, in cui il logos, il ‘darsi-ragione-di’ si faceva egemone ed organizzava il discorso sulla fede. Ma appunto, esclusivamente all’interno di quest’ultimo atteggiamento è possibile concepire lo svilupparsi di una vera e propria teodicea.

Quindi la teodicea è un campo di riflessioni oggi problematico, forse ammissibile con molte riserve, comunque dissestato o, per molti, ormai definitivamente obsoleto. Una teodicea ebraica poi, che non si è mai data in termini analoghi a quelli della scolastica o di Leibniz, tanto più oggi si rivela impossibile per definizione. Se dunque utilizziamo il lemma ‘teodicea ebraica’, lo intendiamo soltanto in senso lato, e per indicare compendiariamente quella parte della riflessione religiosa che, all’interno dell’ebraismo, si è interrogata sulla problematica relazione che intercorre tra Dio (tradizionalmente percepito come giusto e misericordioso) e il male.[4]

Nel secondo dopoguerra il ritorno dell’interesse per questo tema, anche nell’ambito del pensiero cristiano, è indubbiamente legato alla presa di coscienza collettiva e alla valutazione dello sterminio, barbaramente quanto sistematicamente perpetrato, che oggi viene riassunto con il nome del suo luogo più nefasto, Auschwitz. Ma non è vero, come anche studiosi ben informati sostengono,[5] che la meditazione religiosa ebraica su Auschwitz si sia innescata soltanto negli anni Sessanta e sviluppata solo successivamente. L’autrice di cui intendiamo analizzare il lavoro, Margarete Susman, pubblicò il suo scritto Das Buch Hiob und das Schicksal des jüdischen Volkes [Il Libro di Giobbe e il destino del popolo ebraico] (uno dei primi dedicati allo sterminio) addirittura nel 1946.

Vi sono molte ragioni per ritornare su questo testo, da lungo tempo dimenticato ma ora riedito per la terza volta.[6] L’autrice, nata nel 1872 ad Amburgo, fu una esponente di primo piano dell’intellettualità ebraica tra le due guerre. Studiosa di letteratura e di filosofia, pittrice, poetessa e critica letteraria commentò con acutezza e sensibilità, tra molte altre, opere del giovane Lukacs, di Ernst Bloch, di Franz Rosenzweig, di Franz Kafka, del poeta Karl Wolfskehl. All’avvento del nazismo emigrò a Zurigo, che era stata la città dei suoi studi (e divenne poi quella della sua vecchiaia), e da questo osservatorio così prossimo dovette avere subito notizie abbastanza precise degli orrori dei campi e delle enormi dimensioni dello sterminio. Educata in un ebraismo liberale che in lei incontrava, accanto a una resistente radice umanistica, anche una ricca sensibilità religiosa, fu compartecipe dell’evoluzione del pensiero teologico protestante e del socialismo religioso, ma non meno attenta a fenomeni culturali schiettamente laici come il marxismo, la psicoanalisi o la filosofia dell’esistenza. Discosto dal sionismo politico, meglio disposta nei confronti del sionismo culturale, fu insomma una rappresentante tipica di quella deutsch-jüdische Symbiose, già di per sé problematica, che il nazismo stroncò definitivamente.

Il libro di Giobbe e il destino del popolo ebraico fu, com’è intuibile, un unicum nella sua produzione e un libro cui teneva molto, per quanto di sé e del suo dolore per il popolo ebraico vi aveva profuso. Alla circolazione dell’opera fece ombra, a suo tempo, il costituirsi dello stato d’Israele, che distolse lo sguardo di molti (anche di molti ebrei), dalla tragedia appena consumata e da quanto la ricordava. Dell’impianto complessivo del lavoro poteva inoltre spiacere a parecchi ebrei l’identificazione, in toni mistici e metafisici, del destino ebraico con una vocazione sovranazionale, anzi universale, il cui assolvimento veniva letto come troppo intrinsecamente connesso con l’accettazione della diaspora in chiave provvidenziale. E forse anche il convincimento forte, cui la portava la sua religiosità, che il vero esilio d’Israele non sarebbe cessato con l’acquisizione di una patria terrena, e neppure con il ritorno in Palestina, poiché “anche Sion è ancora galuth [esilio]” (116),[7] finché non viene il regno messianico.

Ritornare alla riflessione su Auschwitz condotta in questa “opera prima” della teodicea ebraica riserva anche non poche sorprese. Si apprende ad esempio quanto possano essere ininfluenti, nell’economia di una meditazione di questa natura,[8] le discussioni sull’unicità o meno del fenomeno sho’ah, sulle sue peculiarità, e perfino il possedere dei dati più precisi sulla sua entità. Per altro verso può stupire la quantità di motivi che, qui presenti allo stato di semplice spunto o di accenno, sono stati più tardi sviluppati dalla successiva riflessione, che certo non vi ha attinto.[9] Non molto è invecchiato, infatti, delle argomentazioni che vi si svolgono, una volta che si sottragga il marcato pessimismo suscitato della (allora) recente notizia delle nuove armi atomiche, dal primo sentore della guerra fredda incipiente e dalla prospettiva di un inevitabile scontro armato per la Palestina. Alla resistente freschezza del testo contribuiscono per molta parte la passione, la finezza e l’originalità dell’autrice. Ma la perdurante attualità gli deriva anche dalla forza del testo biblico che interpella e, non da ultimo, dalla natura bloccata, circoscritta e obbligata del discorso che a qualsiasi teodicea è concesso condurre, con i suoi pochi, contati argomenti.

 

Giobbe chiave di lettura per Israele

 

Ecco, le nazioni sono come una goccia da un secchio,

pesano come il pulviscolo sulla bilancia

Is 40, 15

 

La peculiarità dell’opera della Susman contrae un cospicuo debito con la costellazione culturale in cui l’autrice originariamente si è trovata immersa e in seguito ha consapevolmente fatto propria. La sua dimestichezza con la tradizione ebraica, talmudica e biblica, è quella di un ebraismo liberale, che le consente di disporre in diversa posizione, anche fortemente innovativa, le scelte di temi, di figure di riferimento, di significati e problematiche. Con l’ermeneutica tradizionale, infatti, la Susman sa di poter dare a una singola figura biblica un valore collettivo,[10] e che è perfettamente lecito che Giobbe possa simboleggiare un popolo o l’umanità. Ma innanzitutto la sua formazione liberale le permette di svincolarsi da un canone interpretativo che, usualmente, ha visto prefigurate le sofferenze del popolo ebraico non in Giobbe, bensì piuttosto nella figura del servo sofferente di Isaia 53. All’identificazione di Giobbe con Israele ostava, nell’ esegesi ebraica più tradizionale, forse, il fatto che nella Scrittura (Gb 1,1) si lascia intendere che Giobbe non è ebreo. Tuttavia per lei questo può passare in secondo piano; il libro di Giobbe, facendo parte della Scrittura ebraica, è di per sé offerto a Israele come suo “specchio” (125). Si può inoltre ragionevolmente ipotizzare che questa scelta in controtendenza sia stata giustificata da una scoperta personale. La sua accurata conoscenza del libro di Giobbe (già utilizzata in un saggio del 1929: Das Hiob-Problem bei Franz Kafka [Il problema-Giobbe in F.K.]), di fronte alle tremende notizie dai campi può averle fatto balzare agli occhi la fitta rete di analogie che l’ha convinta a questa identificazione.

L’elemento strutturale che sorregge tutto l’impianto del lavoro è l’impossibilità di dare una lettura ebraica “forte” della sho’ah, se non considerandola come un momento estremo, ma tutt’altro che estraneo al destino millenario del popolo ebraico. Tuttavia proprio in forza dell’ultima tremenda persecuzione, che ha portato l’ebraismo fino alla soglia dell’annientamento, il destino storico del popolo ebraico si può ora intendere in modo illuminante solo se se ne vedono le vicende sulla falsariga della storia biblica di Giobbe. Sono principalmente queste le intuizioni originarie che la Susman si impegna a sviluppare corroborandone la validità nel confronto con il testo scritturistico.

Pur non misconoscendo le altre figure bibliche nelle quali si potrebbero veder rispecchiate le sofferenze del popolo ebraico, come il capro, “la vittima di espiazione che nel terzo libro di Mosé è richiesta per l’annuale riconciliazione di Dio con la comunità” (94) o lo stesso “servo sofferente del Signore” che espia, a beneficio degli altri uomini, colpe che non ha commesso[11], è innanzitutto l’esilio la prima evidentissima dimensione che istituisce l’identificazione con Giobbe del popolo ebraico, poichè è “ciò che lo [scil. il popolo] distingue malato e disprezzato dalla comunità umana.” (50) Ma, secondo la Susman si può percorrere l’intera vicenda del popolo d’Israele rinvenendo in parecchi, se non in tutti, i punti decisivi delle analogie con le situazioni che segnano la storia di Giobbe. Come gli ebrei all’inizio furono “il popolo della promessa, in cui si erano manifestate grandi cose per mano di Dio” (51), così la peripezia di Giobbe vede come primo scenario una condizione prospera e felice in cui egli “chiamava Dio per Nome, lo serviva, credeva di possederlo.” (33) Per entrambi sopravviene una prima catastrofe, un rovesciamento improvviso e totale della sorte: la perdita dei beni e degli affetti per Giobbe, l’esilio per gli ebrei; la sofferenza è grande, ma non provoca una crisi devastante e la radice ultima della fiducia in Dio non è strappata. “Nudo sono uscito dal ventre di mia madre, nudo me ne andrò. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, benedetto il nome del Signore” (37) Così anche il popolo ebraico disperso e angosciato nell’esilio cerca di individuare le sue colpe per la distruzione del tempio (56) e si pone in un atteggiamento di espiazione consapevole.[12] Tuttavia la Susman sottolinea come questo primo recupero, questa accettazione della sventura, sorretta da un senso religioso pur sincero, manifesti un grado di consapevolezza imperfetto. E, come il popolo, anche Giobbe sta “ancora al riparo e all’ombra della sua ovvia certezza di Dio. Egli parla ancora di Dio, non con Dio.” (37) Ossia, dall’esterno, oggettivandolo, nello stesso registro che useranno più avanti i suoi amici.

Decisiva e veramente critica sarà solo la seconda catastrofe, con la quale tanto su Giobbe che sul popolo incombe la distruzione totale, che produce un incontro-confronto con il nulla, “un nulla fiammeggiante, che è diretto su di lui come annientamento” (38). Questa è la vera prova, dove tutto si gioca, dove può avvenire il più fatale insuccesso oppure prodursi il salto di qualità, nascere una nuova consapevolezza. Per Giobbe si tratta della ributtante lebbra che consuma la sua vita, per il popolo della distruzione perpetrata dai nazisti. Essa è caratterizzata da un orizzonte di totale negatività, precarietà, solitudine, nell’assenza di qualunque possibile riconduzione alla sfera religiosa: “Solo nella persecuzione, nella minaccia annichilente Giobbe è ancora in grado di riconoscere una relazione di Dio con la sua vita” (42). Di fronte a un assalto così brutale e nella desolazione che accompagna le più nefaste prospettive Giobbe, come il popolo, si riesamina e si interroga, per poter interpretare quanto gli accade in termini di castigo, si scruta e cerca la propria colpevolezza ma non la trova. Questo è il momento più buio, quello di “una perduta connessione tra sofferenza e colpa”, quando per Giobbe come per il popolo la relazione tra “giustizia divina e giustizia umana si è spezzata incomponibilmente” (53). Entrambi tuttavia perdurano, ostinati, nella propria convinzione di innocenza; Giobbe non cede alle argomentazioni degli amici, né accoglie il disperato suggerimento della moglie e si getta invece in un lungo monologo rivendicando contro Dio i propri diritti di innocente ingiustamente vessato. Così pure “il popolo in esilio vive … in un unico appassionato processo con Dio.” La Susman sostiene non esservi “alcuna grande prestazione dell’ebraismo nell’esilio (fino alla tarda produzione letteraria di Kafka, che non chiama più per nome il partner del processo), la quale non sia nel suo nucleo una teodicea, il tentativo di una giustificazione di Dio davanti al suo popolo o una giustificazione del popolo davanti a Dio.” (56)

È qui che si compie la trasformazione di Giobbe, di cui già Kant aveva fornito, nella terminologia fredda della filosofia pratica illuminista, una adeguata lettura. Certo per la Susman tale passaggio non è più esprimibile come un oltrepassamento del “sistema di una giustizia perfettamente retributiva” (sostenuto dagli amici di Giobbe con varie motivazioni) che conduce al sistema (intuitivamente percepito da Giobbe con l’affermazione di 23,15: “Egli è Unico, e quindi fa ciò che vuole”) dell’ “incondizionatezza del decreto divino”.[13] Infatti né Giobbe, né Israele, pur trovando sbarrata qualsiasi via d’accesso alla comprensione del piano divino, hanno desistito dal rivolgersi a Dio, e neppure lo hanno rinnegato mutando la loro fede in ateismo. Anzi, in Giobbe permane paradossalmente la certezza che, per quanto assurda, la sua sofferenza non può venire che da Dio: “Chi altri potrebbe punire così?” (41); ed è proprio sentendo che sono “le frecce dell’onnipotente” quelle che sono confitte in lui, non cessa di iterare il suo “folle incessante ‘perché’ “. In altri termini il medesimo processo si è compiuto anche presso il popolo, se è vero che Israele storicamente si è ostinato a non rinnegare il suo patto con Dio, fino a trasformare profondamente la struttura del suo rapporto con lui, evolvendola in senso messianico. Infatti Israele “in luogo della grazia e della fede si è riservato una terza facoltà che, essenzialmente diversa da entrambe, tuttavia di entrambe partecipa: la speranza.” (90) È a questo punto, infatti che riprendendo un cenno fatto da Franz Rosenzweig in una lettera a Eugen Rosenstock,[14] la Susman ricorda che: “L’unica domanda che dal giudice celeste verrà posta ad ogni anima che compare davanti a lui, secondo una espressione del Talmud, suona: – Hai sperato nella salvezza?-” (90) Già in Giobbe è accesa questa speranza, nella profonda certezza che egli esprime affermando: “Ma io so che il mio vendicatore vive”. E proprio la speranza nella salvezza, che a partire da Israele si è ampliata a speranza per tutti i popoli, è intrinsecamente legata alla vita del popolo che per primo l’ha elaborata, e viceversa. Forse proprio qui, inizia a suggerire la Susman, sta il mistero della persecuzione che si è accanita contro l’ebraismo in ogni tempo e non a caso, ancor più violentemente, ora. L’avversione contro questo popolo deriva dunque non tanto dalla gelosia che la sua elezione ha suscitato nelle genti,[15] bensì in primo luogo dal suo legame originario e mai reciso con la speranza.

Ma vi è ancora un’ultimo fondamentale parallelismo, un aspetto che solo adesso, dopo la fine dell’incubo di Auschwitz e con la sconfitta del nazismo, balza agli occhi e permette di scoprire che la sorte di Israele è anticipata nella vicenda di Giobbe. Solo ora che si può dichiarare fallito il piano nazista che mirava alla distruzione radicale degli ebrei, all’estinzione definitiva e totale del popolo, prende forza l’analogia con il destino di Giobbe, consegnato nelle mani del Satana per ogni aspetto, fatta salva la sua nuda vita. Infatti “Dio ha concesso a Satana ogni potere sul suo servo, non ha posto alla prova corporea e spirituale alcun limite – tranne quello dell’annientamento.” (73)

 

Israele tra colpa e destino

Il rigore con cui M. Susman intende il parallelo che ha istituito tra Israele e Giobbe implica quasi di necessità che un interrogativo sotterraneo, non del tutto esplicitato, percorra l’intero testo:[16] c’è una colpa vera e grave che possa venire imputata al popolo ebraico, e sia tale da permettere d’intendere lo sterminio come una punizione? Una colpa, ovviamente, che non sia quella documentata in sede biblica, la cui esistenza è sempre stata ammessa ed è ritenuta tradizionalmente il motivo della distruzione del tempio e della dispersione nell’esilio. Dunque una colpa ulteriore, di natura magari sconosciuta e forse inappariscente ma, va da sé, di grande peso. Nel tentativo di trovare risposta a questa grande questione, la quale in primis concerne il livello principale, teologico, della riflessione, la Susman non si vieta però di porre anche una domanda più precisa e circostanziata, volta a comprendere, magari su un terreno sociologico o storico, in che senso ed entro quali limiti la condotta degli ebrei possa avere contribuito a suscitare l’avversione dei loro nemici fino al grado estremo che ha innescato lo sterminio.

La riflessione su questo tema muove dall’assunto che le motivazioni pubblicamente sbandierate sono soltanto pretestuose: a dare conto di tanta tenace aggressività non bastano né la “pura estraneità della razza” né “il dato di fatto della minoranza”, né tanto meno il senso di ripulsa suscitato da un “tipo umano” insieme “formato e deformato da un millennio di antico destino d’eccezione.” (59). Chi volesse inventariare tali supposte ragioni scoprirebbe che compongono un elenco che consiste di “molte cose opposte”, le quali svelano quindi a vicenda la loro insussistenza. Tuttavia di recente si è aggiunto un rimprovero nuovo, legato alla percezione della crisi europea: gli ebrei “sarebbero l’elemento demolitore nel mondo dei popoli, mentre al tempo stesso sono il popolo più conservatore della storia.” (58) Se viene formulata in questi termini, si tratta di una accusa maligna e spropositata, benché prenda l’avvio da un dato di fatto che la Susman è disposta ad ammettere: gli “ebrei moderni”, in quanto “europei”, proprio “per la loro partecipazione all’evoluzione dell’Europa, furono profondamente coinvolti anche nella dissoluzione europea” (68). L’aspetto più drammatico di questo processo sta però nel fatto che il popolo ebraico sperimentò in sé una duplice dissoluzione: “quella dell’Europa e quella della loro propria eredità.” Mentre divenivano compartecipi, ed anche attori, di quella trasformazione profonda che destrutturava la tradizione europea e accelerava il grande processo di secolarizzazione (che ha portato, oggi, a “un mondo al quale la soluzione messianica della crisi è divenuta estranea fino alla radice”, 157), gli ebrei “si dissolsero al tempo stesso come popolo, come tipo umano unitario, fino all’irriconoscibile” (69), sia pure inizialmente con l’eccezione dell’ebraismo orientale. La totale “dissoluzione della realtà ebraica e dell’uomo ebraico stesso” costituì per gli ebrei il paradossale risultato dell’haskalah, l’illuminismo ebraico, “un’epoca in cui avevano sognato il sogno presuntuoso di essere uomini come gli altri uomini.”

La dolorosa rimeditazione della terribile entità dello sterminio sposta percettibilmente l’attenzione della Susman su un altro livello di colpevolezza, sulla colpa che Israele può avere commesso contro se stesso, divenendo, in misura crescente, dimentico di sé, della propria missione e della propria dignità. È infatti in tutta evidenza una constatazione a posteriori a far scaturire l’analisi che, per accenni, tocca qua e là questo tema; una constatazione che genera un severo giudizio soprattutto sul recente passato ebraico. Essa infatti riconosce che “il demone, reimprimendo con violenza sull’uomo ebraico il segno, ormai quasi cancellato, della sua origine non ha, come voleva, designato una razza, bensì un destino, un’eterna missione.” (107) Il punto cruciale è proprio questo: il dato costitutivo della propria origine era divenuto, per una serie di ragioni storiche e culturali, ormai quasi indiscernibile e tutta l’evoluzione recente dell’ebraismo non si muoveva affatto nella direzione del suo ripristino. Da un lato erano da riconoscere all’opera molteplici fattori di erosione, quali “la resa, l’indisponibilità delle nuove generazioni ad assumere il destino ebraico, le conversioni al cristianesimo e l’assimilazione al mondo circostante” (133), anche in conseguenza del fatto che l’identità ebraica era stata svilita e degradata, con il ludibrio e con un subdolo accanimento persecutorio, fino a suscitare persino l’ “automisconoscimento, l’autodisprezzo, e l’odio di sé” (63). Ma solamente un’aggressione della portata di Auschwitz ha avuto come contraccolpo che si riproponesse con forza il grande tema della “unità interiore del popolo”, poiché “le generazioni passate non la conoscevano più e non la concepivano più come loro compito” (132). Nel duplice eclissarsi tanto della forma esteriore, quanto dell’unità interiore del popolo veniva coinvolta, perdita ben più grave, persino la funzione di segno che l’ebraismo aveva assunto nella sua lunga vicenda storica. Anche nella sua veste di segno per le nazioni, Israele “ieri pareva per sempre offuscato e quasi spento” (165). Quello ebraico appariva dunque un popolo in declino, il cui senso “quando esso non viene sconvolto con violenza e sconcerto dalle più terribili catastrofi, ormai soltanto crepuscolarmente balugina di riflesso dalla sua preistoria” (73), un popolo deprivato quindi pure di quest’ultimo sprazzo di significato storico-ideale.

Ma anche la reazione a questa deriva, che minacciava di trascinare lentamente l’ebraismo all’insignificanza, la risposta a questa situazione fallimentare, così come veniva vigorosamente perseguita dal sionismo non si può non ritenere a sua volta inscritta in una prospettiva, altrettanto peccaminosa, di defezione. Il giudizio della Susman sul sionismo non è univoco: da un lato l’autrice è pronta a riconoscere che “prima che il sionismo se ne facesse carico”, il popolo ebraico “era ridotto a un fantasma in movimento, uno spettro tra i popoli” (51); dall’altro è sufficientemente disillusa da sostenere che l’idea originaria di Herzl e del sionismo idealistico dei primordi si è ormai trasformata, abbandonando ogni pur larvale rapporto con la dimensione messianica, mentre tutto ciò che il sionismo sa ora proporre agli ebrei è di “divenire in tutto e per tutto come gli altri popoli.” (115) Questo però configura in termini nuovi un grave errore già commesso in passato, come risulta da un giudizio storico che la Susman formula richiamando nettamente l’identificazione di Israele con Giobbe: “tutti i suoi tentativi di abbandonare l’isolato mucchio di cenere del suo destino storico, il luogo del puro interrogare, e di trovare una forma stabile e con ciò una delimitazione in quanto è terreno, di diventare un popolo nello stesso senso degli altri popoli, sono falliti” (104).

Per quanto grave possa essere la mancanza commessa nell’ultimo secolo dagli ebrei occidentali, che hanno crescentemente trascurato la loro identità di popolo scelto da Dio per i suoi fini, la Susman non può valutarla se non come originata da una debolezza umana troppo-umana rispetto all’immane compito che Israele si è assunto. E infatti, riprendendo un motivo largamente tradizionale, l’autrice è costretta a ricondurre quella colpa alla sua vera radice, ribadendo che “ogni conferma e ogni smarrimento del popolo, ogni attribuzione di colpa, ogni accusa contro il popolo” si origina dal patto stipulato da Israele con Dio sul Sinai, scaturisce dall’avere accolto la legge “come rivelazione divina” (83). Avere accettato il dono divino della torah non come l’angusta legge cultuale di un clan nomade dei deserti mediorientali, ma come “legge dell’umanità”: questa è la colpa che i popoli fin dall’antichità hanno rinfacciato a Israele. La prospettiva liberale cara alla Susman identifica infatti senza residui la torah d’ Israele con la legge tout court; essa non è solo la legge più perfetta, la legge per eccellenza, ma è l’idea trascendentale stessa di una norma che sia “chiaro cammino per il piede dell’uomo che erra nell’oscurità, chiamata dalla notte e dal caos alla vita umana chiaramente ordinata” (83). Quello che spinge i popoli a odiare Israele a causa della torah è un sentimento misto di invidia e di disapprovazione per la presunzione di Israele, poiché, secondo la tradizione, “anche ad altri popoli venne offerta la torah“, ma essi la rifiutarono giudicandola troppo gravosa, cosicché “soltanto Israele l’accettò.” (84) Il resto dell’umanità non vuole sentire le antiche giustificazioni secondo le quali una legge così esigente non venne accettata dagli ebrei per fiducia nelle proprie forze ma di necessità, secondo il detto talmudico “Se Israele al Sinai non avesse accolto la torah, Dio avrebbe rigettato il mondo nel caos, oppure gli angeli lo avrebbero annientato.” (83) Quindi non si tratterebbe neppure di una prevaricazione, di una decisione presa indebitamente in nome di una umanità recalcitrante ad assumere il giogo della legge. Dagli ebrei semmai la legge venne accolta per la stessa ragione per cui è stata “donata”, perché il mondo potesse sussistere e scampare al furore della giusta ira divina. Questo stato di necessità solleva Israele da ogni responsabilità che possa venirgli imputata: avere assunto la torah “per l’umanità” non significa averlo fatto impegnandosi surrettiziamente in suo nome, ma agendo a suo favore. Questo è in realtà ciò che i popoli non vogliono accettare: “La colpa vera e propria di cui la legge fin dal principio carica il popolo, per quanto l’accusa umana possa anche, nella sua ignoranza, cancellarla, è affine alla colpa incolpevole di Giobbe. Israele al Sinai ha accettato la torah e non l’ha accettata per sé, ma per l’ umanità.” (83) Non vi è quindi alcuna cagione d’invidia, anzi la situazione si rivela paradossale: l’accusa che imputa agli ebrei la colpa di avere accettato la torah come legge per l’umanità cade nel vuoto, mentre sarà proprio l’impossibilità di mantenere fede al patto stipulato che si rivelerà come la vera colpa degli ebrei. Certo, alla legge è indissolubilmente legato il piano di Dio sulla creazione e il suo progetto di unificazione dell’umanità nella prospettiva messianica, e perciò il compito che Israele si è assunto come “suo destino” si rivelerà ineseguibile. Accogliendo la legge, infatti, “il popolo si è consegnato a una missione, che non può realizzare entro la vita storica e che solo alla fine della storia può essere adempiuto grazie a Colui che porta a compimento la creazione nel Regno e i popoli nell’umanità.” (84)

Tuttavia la Susman apre un’ulteriore direzione di scavo, e per giungere a mettere a fuoco l’eventuale colpevolezza del popolo ebraico esplora alcuni nodi dell’esperienza religiosa, guidata da una sensibilità che, certo di matrice biblica, mostra di avere molto appreso dalla lezione luterana. Ne emerge una imputazione che si potrebbe forse denominare come di hybris religiosa, se così si accetta di definire l’atteggiamento di chi persegue e difende, davanti a Dio, la propria innocenza.[17] Come subito si intende, sono considerazioni che sorgono al cospetto della vicenda di Giobbe, ma in trasparenza sono subito riferibili anche a Israele. Il tema non è la, più o meno esatta, percezione della propria innocenza da parte di un soggetto umano, bensì lo stato di autentica innocenza in cui questi, forse anche per suo merito, si trova incontestabilmente. La questione “inquietante e insidiosa” verte sul vero valore dell’incolpevolezza e suona: l’innocenza perseguita non potrebbe essere alla fin fine più colpevole della colpa? Nei termini della Susman: “non è infine proprio l’innocenza di Giobbe quel mistero, quant’altri mai oscuro, su cui il Satana ha posto dinnazi a Dio il suo dito, poiché di qui egli può prendere l’avvio, siccome colui che ha commesso la colpa (e così ha preso su di sé la parte dell’uomo) è più salvabile di colui che l’ha respinta per amore della purità, e in questo modo per amore di Dio si è posto al di fuori dell’ umano?” (44) Anche se questa domanda appare come un tentativo estremo di far luce sulla logica nascosta che presiede al destino di Giobbe, è però di qui che incomincia a prendere parzialmente forma una possibile responsabilità di Israele. È infatti innegabile che Israele ha voluto essere puro, che almeno in alcuni momenti della sua storia religiosa, “quella profetica come quella sacerdotale”, ha fatto ogni sforzo in questa direzione, rappresentando così “il folle tentativo di quanto è perituro e impuro di purificarsi davanti all’eternità e alla purità dell’Uno, di coinvolgere ogni anima in questa purificazione e così di affinare la massa a popolo e il popolo a umanità.” (54) La controprova della ricerca scrupolosa della propria irreprensibilità (nonché di una eccessiva fiducia negli strumenti rituali deputati a conseguirla, o a ripristinarla) è costituita dai sacrifici espiatori eseguiti a favore di altri: “In questa sfera della purificazione e dell’espiazione vicaria, e perciò necessariamente oltrepassante la propria esistenza, vivono entrambi: Giobbe e il popolo ebraico.” (55) Il rifiuto, oppure la resistenza, ad assumere la colpa come inevitabile corollario della propria condizione di uomini appare qui come la ricorrente tentazione dell’homo religiosus, che agendo in tal modo da un lato recide il proprio legame solidale con gli altri uomini, mentre dall’altro vanifica il percorso dell’iniziativa salvatrice di Dio. In questo pericoloso rovesciarsi dell’innocenza in una colpevolezza più sotterranea e radicale M. Susman pare ad un tratto vedere avviluppato Israele, e questa, se mai ve n’è una, parrebbe configurare la colpa che può avere scatenato la persecuzione tremenda. Anche se il persecutore nemmeno lo sospetta, e crede di mandare ad effetto i propri intenti di pulizia etnica (simile in questo al Satana, cui “è inaccessibile ciò che Dio in verità vuole da colui [Giobbe] che così disumanamente tormenta”), l’unico modo per “chiarire l’enormità di questo destino” è trovarne la chiave nel drammatico nodo religioso soggiacente. La “smisuratezza di questo evento” ha bisogno di ben altro sfondo che “le tenebrose passioni di un singolo”, o “di quelli che lo seguivano”; la “estrema oltreumana spietatezza” che ha operato qui esige uno scatto di comprensione verso le profondità del religioso, vuole che si ammetta che “proprio su colui che si è negato alla colpa come ‘propria’ colpa l’ira di Dio si scatena in tutta la sua violenza.” (106) Come si vede alla fine dell’ indagine la Susman è costretta a ricondurre la problematica colpevolezza di Israele ad una qualche leggibilità esclusivamente utilizzando l’arrischiata grammatica del discorso teologico, e così ad inscriverla co-originariamente nel tessuto umanamente indecifrabile del patto e dell’elezione. Ma proprio a questo livello ogni distinzione troppo netta tra colpa e destino, tra responsabilità e missione è destinata a saltare. Valgono allora più globalmente, e possono essere riproposte anche dopo Auschwitz le considerazioni fatte a proposito dell’esilio comminato al popolo ebraico come punizione: “Nella punizione che lo ha disperso nel mondo espiazione e missione sono tra loro misteriosamente intrecciate; la punizione per la colpa del popolo esprime al tempo stesso il compimento del suo destino e la sua più intima missione: la perdita del confine terreno serve all’adempimento del suo compito.” (79)

 

la furia contro Israele

Ma proprio perché non si possono rintracciare chiari elementi che denuncino la colpevolezza di Israele, sorge un’ulteriore cruciale domanda: perché la furia assassina si è scatenata proprio nei confronti del popolo ebraico? La Susman non si nasconde come questa feroce aggressione possa essere stata innescata proprio dalla peculiare condizione dell’ ebraismo, che costituisce un unicum nel mondo dei popoli. Cercando di definire il significato dell’unicità ebraica ai molteplici livelli in cui essa si manifesta sul piano storico-concreto, ma non meno su quello metafisico e religioso, l’autrice si sforza di rinvenire altrettanti punti d’innesco della persecuzione e portare così allo scoperto i motivi della volontà criminale di annientare proprio questo popolo.

Per comprendere il dato di fatto che gli ebrei sono diventati “in modo chiaramente visibile, e al tempo stesso sommamente misterioso, il centro degli odierni eventi mondiali” già prima, ma anche subito dopo il conflitto mondiale, non basta rimarcare, come faceva L. Ragaz in Israel, Judentum und Christentum [Israele, ebraismo e cristianesimo] che il popolo ebraico sarebbe un “sismografo nel mondo delle nazioni” (48), ma bisogna intendere come mai la “potenza oscura” che ha lucidamente perpetrato “la dissoluzione del mondo delle nazioni e di tutto l’umano in generale” abbia deciso di innescare tale processo proprio annientando gli ebrei, “muovendo dalla dissoluzione di questo minuscolo nucleo” (49). L’ ebraismo è stato preso di mira, sostiene la Susman, in quanto esso sta in un rapporto profondo con l’umanità della specie umana intera. Una dettagliata analisi della storia del popolo ebraico nell’esilio, con l’esaltazione della sua fedeltà alla propria missione costitutiva (non priva di reminiscenze e agganci alle teorizzazioni sviluppate da Rosenzweig nella terza parte della Stella della redenzione)[18] serve quindi a delineare le ragioni per cui “la storia d’Israele” trova la sua verità nell’essere “immagine originaria e rappresentanza della storia umana” (55), come è attestato e fatto risaltare dalla “intera profezia”.

E tuttavia il popolo ebraico, almeno nei suoi tratti esterni percepibili, non rispecchia, anzi non rassomiglia in alcun modo a questi altri popoli per i quali custodisce una componente metastorica indispensabile. Esso “dalla distruzione del tempio fino a oggi” è infatti nella sua essenza costituito come una “realtà invisibile” e ciò lo contrappone “senz’alcun riguardo al tempo o allo spazio, come puro mistero, in sigillata estraneità alla visibile realtà degli altri popoli” (72). Unico tra le genti, esso appare “privo di tutti i fondamenti di un’esistenza come popolo” (73) poiché, come già sosteneva Rosenzweig, gli elementi fondanti della sua (come di qualunque) identità etnica: la lingua, la terra e la legge, gli sono stati posti sotto sequestro divino e sono ormai suoi soltanto come lingua sacra, terra santa e legge santa. La Susman insiste sulle conseguenze geo-politiche di questa situazione che ha confinato l’ebraismo in una condizione di nomadismo e di insicurezza (“non ha casa in cui potrebbe essere presso di sé, trovar riparo. Vive senza protezione, senza mura”, 65). Ma così al popolo ebraico si è venuto a poco a poco cancellando anche ogni profilo esterno di riconoscibilità, “il chiaro, estremo contorno che gli altri popoli hanno” ed esso “è diventato un popolo invisibile”, non già occultato a tramare nell’ombra (come sospettano gli antisemiti), bensì certo sempre più “invisibile non solo agli altri popoli ma persino a se stesso” (66), fino a percepirsi come “un oscuro, insolubile enigma”. Da millenni tuttavia si è sviluppata in esso una forma di esistenza collettiva che si presenta come una scandalosa smentita e un affronto contro il concetto consueto, “naturalistico” su cui in Europa si è voluta fondare la concezione di ciò che sarebbe autenticamente popolare: la nazione. Nell’ebraismo questa opposizione all’idea naturalistica di nazione è, secondo la Susman, costitutiva poiché gli “è data insieme alla chiamata al Sinai”, ed è sopravvissuta fino ad oggi, come attesta ancora l’espressione di Oskar Goldberg[19] “secondo la quale tutti i popoli sono ‘istituzioni, oppure imprese contrarie alle leggi di natura’ ” (115) Gli ebrei rappresentano così, essi soli, una più originaria declinazione di quanto è autenticamente “popolare”, proprio perché testimoniano, con il loro semplice esistere, l’autosufficienza del popolo in quanto tale, solo e puro, privo di Stato e di forme istituzionalizzate che si manifestino come strutture di potenza. Tale è l’interpretazione e l’assunzione orgogliosa, da parte della Susman, dell’anomalia ebraica, di quel Blut [sangue] privo di Boden [suolo] (e quindi di radicamento nel territorio con la forma statuale), additato dagli antisemiti come un insufficiente fondamento di nazionalità, una pecca cui anche i sionisti intendevano porre rimedio. Ma anche su questo terreno diviene evidente, appunto, la distanza che separa la Susman, di formazione ebraico-liberale, dal sionismo.

La plurimillenaria persistenza di un popolo che non ha affidato le proprie sorti alla potenza, che ha vissuto di una vita comunitaria senza munirsi di forme istituzionali e politiche capaci di farsi valere e imporsi nel concreto delle rivalità e dei conflitti tra le nazioni, non può che apparire scandalosa al massimo grado quando, come nella guerra mondiale, viene chiamata in campo la violenza bruta, che scatena sopraffazione e strage. Perciò “il demone della morte … non casualmente ha scelto come suo avversario più potente il popolo ebraico privo di potenza.” (145) La cui estraneità alla politica di potenza delle nazioni era tale, che non suscita alcuna meraviglia se “contro il destino disumano del popolo ebraico” neppure uno “dei popoli che lottavano per la libertà del mondo, si è levato”. Anche questo dato di fatto riconferma alla Susman la sua salda convinzione che la vocazione ebraica è di natura sovranazionale. Tanto “nella chiamata di Dio” che “nell’odio dei popoli” è leggibile un unico inequivocabile messaggio; Israele è chiamato a un compito apparentemente paradossale: a “strutturarsi come popolo, e nel suo stesso esser popolo dare forma al sovranazionale.” (147). Questo suo persistere come popolo ricusando sempre di farsi nazione è dunque un nucleo essenziale della missione dell’ebraismo; equivale a ricordare a tutti i popoli della terra una diversa modalità di assunzione dell’identità collettiva, altrettanto forte e radicale, ma meno conflittuale e più autentica. A ciò è strettamente connessa un’altra caratteristica degli ebrei, storicamente attestata nel lungo periodo, la loro non casuale predilezione per la pace, “sigillo della creazione”, e l’intima ripulsa della guerra, poiché questa suscita “il nulla e il caos”, a cui l’uomo “non è capace di comandare”. La Susman ricorda come nell’intera storia ebraica “la guerra è rigettata come peccato mortale”, e sostiene che perfino le guerre bibliche, “anche le guerre per Dio sono, in quanto guerre, servizio agli idoli” (139). Memore di sé e del proprio compito, quello ebraico è infatti l’unico popolo che si è opposto fin da tempi remotissimi (l’allusione è a 1Sam. 8), a quella deificazione dello stato che, associandosi nell’epoca attuale alla crescente tecnicizzazione, ha prodotto il meccanismo cieco e distruttivo che ha scatenato la guerra. Una profonda distanza separa infatti gli ebrei da quella “verità del saggio greco secondo cui la guerra è il padre[20] di tutte le cose”, la quale può ben essere vera “secondo la natura” e venire tranquillamente accettata dalle genti. Tale distanza si fa ripulsa della guerra perché affonda radice nel sustrato più profondo della concezione ebraica del mondo, nel basilare concetto biblico di creazione, di cui qui viene additata una implicazione decisiva. Per gli ebrei infatti è ben più certa “la verità della creazione, che l’uomo non è solo una cosa tra le cose della natura, bensì è lui stesso un centro vivente, un cuore che batte … lui stesso la vivente decisione tra morte e vita, tra guerra e pace” (146).

Come si vede, si tratta di considerazioni che attengono in prevalenza al piano della (per quanto idealizzata) realtà storico-fattuale, benché non prive di un inevitabile radicamento nella sfera del significato religioso globale dell’ ebraismo. Ed è su questo versante che l’analisi si deve spostare per scandagliare un altro fondamento sommerso della persecuzione, la quale talora pare farsi forte anche della convinzione che l’esistenza dell’ebraismo nella storia non sia più giustificata, che esso, esaurita ormai la sua missione, non possa più fare altro che spegnersi e che questo solo gli sia lecito. È un’interrogazione profonda e terribile che la Susman riconosce presente all’interno stesso del mondo ebraico (fortemente tentato dall’assimilazione), nella percezione della vita stessa di Israele come un mistero, della sua continuità e persistenza come sempre problematica e, sul piano meramente storico, ben difficilmente motivabile. È innanzitutto la sua sorprendente vitalità, “questa enigmatica forza, che ha tenuto in vita proprio questo popolo” più volte in condizioni difficilissime, esiziali per qualunque altro, a suscitare la questione: “da dove gli viene e che cosa significa” (73)? Infatti non solo tutto in esso, “privo ogni fondamento di un’ esistenza come popolo”, implicherebbe una grande fragilità, e persino la sua stessa sorte, che è quella di un “popolo costantemente stravolto e distrutto”, parrebbe ormai irrimediabilmente compromessa, ma anzi ancor più periclitante si rivela al momento attuale la dimensione di senso che quella sua esistenza si era data. È infatti la percezione che questo “suo senso ormai soltanto crepuscolarmente balugina di riflesso dalla sua preistoria” (73), a porre oggi più dubitativamente la domanda martellante: l’ebraismo “deve poi vivere? E perché deve vivere?”

Questa grave insicurezza si è generata, tra l’altro, in quanto gli ebrei, a lungo andare, sono divenuti permeabili all’ipotesi, insistentemente ribadita nei secoli dalle chiese cristiane, del totale esaurimento del compito religioso dell’ebraismo, e l’hanno riconsiderata a loro volta. Se il senso e la missione storica del popolo ebraico consistevano nel recare all’umanità il “messaggio di salvezza” che è stato sviluppato e diffuso universalmente dal cristianesimo, (oppure secondo altri il monoteismo, ormai assurto a contenuto religioso irrinunciabile), la chiesa da gran tempo argomenta: “dopo che il mondo ha accolto il suo dono e lo ha accolto come proprio possesso, [l’ebraismo] può e deve ancora avanzare la pretesa di amministrare qualcosa di proprio?” (92) E il rovello di questa posizione liquidatoria si è fatto strada anche all’interno della coscienza e della comunità ebraica, nella misura in cui essa condivide teologie o filosofie della storia egemonizzate dal cristianesimo. A questo dubbio non si può sfuggire neppure se si guarda alla missione storico-politica dell’ebraismo, proprio come la Susman l’ha intravista, “di essere annunciatore, servitore, schiavo del senso di umanità”. È ora una domanda che muove “dall’interno”, dal popolo stesso, quella che chiede se esso “può e deve professarsi a favore del sovranazionale, che è il suo compito, fino alla conseguenza paradossale di rinunciare con il proprio essere al compito che costituisce questo suo essere”? (92) In altri termini: è possibile pensare che il perfetto compimento della vocazione sovranazionale del popolo ebraico implichi la sua autodissoluzione come popolo? Potrebbe forse proprio questo essere il suo estremo servizio reso all’ideale universalistico? Ovviamente, non c’è alcun dubbio che per la Susman non è così; anzi, il massimo impegno in questa direzione implica proprio che gli ebrei rimangano il vivente, perdurante paradosso di un popolo senza nazione.

Quindi il momento in cui si è abbattuta la più accanita persecuzione era, soprattutto per l’ebraismo europeo-occidentale, quello di una cruciale debolezza e crisi d’identità. Anche per questo la Susman si sente obbligata a una risposta che investa ai livelli più profondi l’essenza ebraica e si spinga fino al versante metafisico. È quanto, per altro verso, esige la natura stessa dell’ “avversario” che, com’è stato per Giobbe, travalica l’umanamente concepibile e anzi ha imposto una lotta mortale “con potenze inafferrabili che si celano dietro a un agire solo in apparenza umano.” (61) Si tratta di un conflitto immane tra potenze. Da un lato, “ostilmente concentrata” contro l’ebraismo, si è scatenata “la potenza originaria, che si leva dalla profondità dell’essere umano stesso” (62) e rappresenta la “realtà naturale”, da cui il popolo ebraico si è dissociato; dall’altro resiste la potenza priva di mondana potenza, ma tanto più forte per ciò che rappresenta, dell’ebraismo. Quindi a ben guardare quello antisemita “nella sua reale profondità è un odio metafisico”. Se si spinge a fondo l’analisi, esso infatti “non è diretto contro una comunità empirica, bensì contro ciò che essa fonda”; rappresenta la forza aggressiva di un’intera ipotesi evolutiva dell’ umanità, e di quella più diffusa e vincente. D’altro canto unicamente in tale veste metafisica esso è un odio perfettamente adeguato alla costituzione profonda di Israele, che solo in modo molto secondario e derivato vive “della sua esistenza fisica”, mentre prioritariamente si regge sulla “realtà invisibile del suo senso, sempre di nuovo suscitato dal destino” (133). Infatti quando la Susman vuole tentare di definire esaurientemente l’ebraismo deve asserire che esso “non è una realtà esternamente delimitata: è uno sconfinato senso” e in quanto tale è principalmente (come afferma anche W. Benjamin nelle tesi Sul concetto di storia) un fulcro di “resistenza contro il caos, contro il tempo che scorre vuoto e insensato.” È dunque contro questo significato trascendente dell’ebraismo che si è ingaggiata la lotta estrema, come denuncia la “stessa pazza furia” suscitata dagli avversari, spropositata ed eccessiva se volta contro il misero referente concreto, “il popolo attuale dissolto, divenuto irriconoscibile”, ma non incomprensibile se “in profondità” essa intende scagliarsi contro “l’Israele eterno.” (147)

Il profilo metafisico dell’ebraismo deriva (e si dettaglia) dalla sua chiamata iniziale ad essere il popolo del Dio irrappresentabile, dal Nome impronunciabile, di cui nessuno può vedere il Volto e vivere. Fin da quel primo inizio il popolo d’Israele rasenta, come Freud ha ben visto, il confine con la morte, ma non per un’oscura fascinazione verso l’autodissolvimento o in obbedienza a un istinto di morte. Secondo la Susman è vero che gli ebrei, in quanto “chiamati a immagine e somiglianza del senza-forma” sono anche chiamati “alla propria morte”, ma solo nel senso di una “dedizione della [propria] vita” fino all’estremo limite. La chiamata di Israele si configura in tal modo come assoluta, e in essa la funzione della chiamata alla morte è duplice: liberatoria nei confronti del mondo e del presente, ed evocatrice del futuro escatologico verso cui è protesa. Essa “strappa immediatamente l’anima dal molto, da immagine e metafora, e la conduce verso l’Uno e Tutto e perciò la strappa fuori da tutto il passato e presente nel futuro privo di forma nel puro regno di ciò che non è ancora.” (76) In sintonia con le riflessioni di Ernst Bloch, la Susman rende la sua personale testimonianza alla vocazione messianica di Israele innanzitutto dichiarando il primato ontologico del futuro: “infatti soltanto il futuro è il reale, a fronte di tutto il reale a metà, il frammentario sempre già mezzo passato del presente, esso è il regno della salva perfetta realtà.” (77) Esclusivamente verso questo futuro è da sempre impegnato il popolo ebraico, cui è vietato dedicarsi “contemplando o dando forma, al presente”, cui non è lecito affannarsi a compiere “opera [propria] o altrui”. L’unico compito veramente suo è “ciò che nel futuro deve diventare, per [suo] tramite, reale: l’umanità una, strappata alla lotta e dalla miseria del molto, riunita dalla forza unificante del suo ] cuore.” (77) Vocazione escatologica significa dunque al tempo stesso promozione dell’utopico e missione universalistica di unificazione dell’umanità. Per questo gli ebrei, in quanto popolo messianico, appartengono intrinsecamente al destino comune di tutta l’umanità, lo veicolano, lo scandiscono e lo segnano. È perciò vero al massimo grado, per la Susman, che con lo sterminio degli ebrei si è attentato a nulla meno che alla possibilità di unificazione degli uomini sulla terra: “nella crisi del popolo ebraico si tratta di una crisi dell’umanità; è terreno dell’umanità, terreno messianico che noi in Sion calpestiamo; Sion non è solo un centro spaziale, è un centro del destino della terra.” (114)

Quando la Susman scrive la guerra mondiale è terminata, e si può ormai dichiarare fallito il piano di sterminio concepito dai nazisti per eliminare per sempre la questione ebraica, benché l’ipotesi di una inevitabile prossima crisi in Palestina, e di scontri cruenti nella genesi dello stato ebraico non permettano di considerare senza apprensione il futuro storico-politico degli ebrei. Tuttavia proprio nell’immane tragedia che li ha travolti, come nelle prove che li aspettano, per quanto rischiose e foriere di lutti, alla scrittrice pare di poter intravvedere anche l’annuncio inatteso di una nuova stagione, il segno di un riguadagnato senso e ruolo per l’ebraismo intero. Il popolo ebraico pare ora tornare al centro della storia, “non rimane… a giacere come un pezzo scartato, morto di passato nella corrente di una storia che gli è estranea, è immesso nella corrente, accade di nuovo qualcosa con lui.” (147) Per cui, appellandosi alla grande tradizione ebraica, la Susman mette il suo lettore in grado di accedere alle ingenti risorse rese disponibili da una intelligente, e consapevole, elaborazione del lutto, e gli ricorda il detto del midrash: “Quando il re Assuero consegnò ad Hamann il suo anello con sigillo, e in tal modo sancì la sua crudele persecuzione degli ebrei, allora fece per Israele più che tutti i profeti” (119).

 

Le rivelazioni del tremendum

“Perché la tua veste è così sanguigna e il tuo abito come quello di chi pesta nel tino?” Dio risponde: “Io pesto da solo il tino e nessuno dei popoli è con me. Li ho pigiati nella mia collera e calpestati nella mia ira. Perciò il loro sangue è schizzato sulle mie vesti e ho insudiciati tutto il mio abito. E mi guardai attorno e non c’era nessun aiutante … E ho calpestato i popoli nella mia collera e li ho resi ebbri nella mia ira e sparso il loro sangue sulla terra.” (Is 63,2-6) 156

 

L’amore terribile, ovvero la trascendenza

La grande capacità euristica della figura di Giobbe, risolutiva chiave ermeneutica per comprendere la vera dinamica della esperienza religiosa ebraica, è in grado di dare conto delle sofferenze di Israele in ogni tempo proprio perché permette di portare alla superficie, nella sua accezione biblica, quello che dopo Rudolf Otto si designa nel sacro come il versante del tremendum. La Susman, che dedica un breve cenno critico alla “teologia della crisi” di Karl Barth, certo non ignorava le categorie di Otto, ma, per il registro proprio del suo testo, non le utilizza esplicitamente. Così come non fa riferimento alla filosofia dell’esistenza jaspersiana quando legge la vicenda di Giobbe nei termini di una situazione-limite e le attribuisce una valenza conoscitiva assolutamente privilegiata. “Il senso del libro di Giobbe” starà quindi a significare “che solo l’esistenza gettata ai suoi estremi limiti sperimenta qualcosa della oscura, inconcepibile potenza al di là dei suoi limiti.” (134) Solo qui avviene lo svelamento di una “ultima verità, nascosta all’essere come al pensiero, di cui la dannazione e la morte hanno sentito dire”, ma per giungere a questo punto è necessario che il Giobbe-Israele sia “solo e malato e oppresso a morte sul suo mucchio di cocci” e sperimenti il perfetto occultamento di Dio. Per quanto gridi e lo cerchi, egli non trova più Dio al suo fianco, anzi percepisce, sia pure oscuramente, che Dio “gli ha inviato un’altra potenza estranea e terribile; ha delegato follia e crimine, ha autorizzato il più orrendo di tutti i delitti a sua distruzione.” (130) È esclusivamente nelle tenebre di questo abbandono che per la Susman, in sintonia con una grande tradizione mistica, si rende accessibile il vero significato dell’espressione: “Dio ama il suo popolo Israele”. “Infatti questo amore è di un tipo suo proprio, terribile.” (129)

Il senso estremo dell’intero destino ebraico si illumina a questo punto, in una profonda esegesi della parola biblica che meglio enuncia l’esigenza totale ed esclusiva dell’amore divino: “Tutto tu devi essere con l’ Eterno tuo Dio”. Con una scrittura tesa e ispirata la Susman ci mette di fronte a una lucida analisi della logica assoluta che presiede all’amore divino: “La vita di Giobbe davanti al suo volto, le vittime, il servizio del suo servo, il cerchio illuminato a giorno della sua vita non gli bastavano; Egli vuole anche la notte, le tenebre, l’ambito della morte; costringendolo a scendere nelle infime profondità della vita, Egli vuole la prova che il suo servo in nessuna fibra gli si sottrae, che questi nel vivere come nel morire non vuole se stesso, ma solo Dio.” (130) Questa rivelazione, che rischiara la storia di Giobbe, è anche la scoperta del senso che può essere celato in Auschwitz. Un senso paradossale, chiuso e difeso come una fortezza, che si può cogliere “solo da dentro”, dall’interno del “bastione formato da milioni di vittime innocenti assassinate” (129). Un paradossale “anello del destino”, che è stato forgiato da mani sanguinarie intorno al popolo ebraico (e largamente anche intorno a una parte di questo popolo ormai dimentica di sé) si lascia leggere quindi esclusivamente attraverso una totale inversione: come l’anello dell’ “amore stesso” di Dio per il suo servo Giobbe, per il suo popolo Israele. Un amore assoluto, esigente fino all’eccesso, che pretende che l’amato resista nella sofferenza per poterne essere degno. L’autrice sa di esporsi sul baratro dell’ “a malapena dicibile”, di percorrere una cresta affilata, in bilico tra delirio e insensatezza. Ma non può che affidarsi alla paradossale compresenza delle pretese opposte che si celano nella prova cui Giobbe è sottoposto, perché “la distruzione che, muovendo da Satana, vuole il suo perire, vuole da parte di di Dio il suo resistere e sopravvivere.” (131)

Ma la forma paradossale e terribile di questa relazione di amore in cui il partner divino può entrare soltanto se e in quanto mette mortalmente a rischio l’essere umano è l’unica che possa tentare di rendere il senso della infinita distanza qualitativa oggettivamente esistente tra Dio e uomo. Di questa verità esiste un’ulteriore illustrazione proprio nel libro di Giobbe, nella cosiddetta risposta di Dio, che, come la Susman non manca di sottolineare, non è per niente rivolta a soddisfare delle domande ma ad evidenziare una sproporzione. Infatti nell’arco di questa teofania, insieme all’illustrazione delle caratteristiche del creato,”sgorgano le controdomande di Dio all’uomo e gli indicano, come creatura del creatore, il suo posto nella creazione.” (137) Esse infatti sono tutte domande dell’onnipotenza divina, che mettono a nudo l’impotenza dell’uomo e tuttavia mostrano anche quanto Dio prenda “sul serio, con estrema serietà, l’uomo che gli si contrappone”. Se nella sofferenza la pochezza umana era evidenziata dal no di Dio, qui, sostiene la Susman, è il sì divino, la sua forza affermativa di creatore, che con l’ostensione del cosmo “traccia il confine della potenza dell’uomo.” L’incommensurabilità tra l’opera divina e le possibilità umane culmina nella domanda: “Chi mi ha fatto per primo qualcosa, che io lo contraccambi?” (139) Ed il riconoscimento della trascendenza divina viene acquisito da Giobbe nella confessione: “Ho parlato da stolto, questo è troppo alto per me e non capisco.” (140) Rispetto alla creazione l’uomo è dunque in un rapporto problematico, sostiene la Susman: “con il suo sapere è escluso, con la sua vita è incluso”, cosicché deve, con Giobbe, rendersi conto che “la sua parte non è il capire, bensì vivere dell’incomprensibile.” Questo, che Giobbe da un punto di vista umano aveva sempre saputo, lo apprende ora dalla prospettiva di Dio, in un diretto confronto con lui.

Ma ancora nell’epilogo del libro di Giobbe la Susman sa trovare traccia di questa pedagogia della trascendenza di Dio, cui tutto il testo biblico è dedicato. La finale reinstaurazione di Giobbe in una esistenza felice non è una pia postilla aggiunta al testo, ma ne fa parte integrante e ne estende il messaggio introducendo la prospettiva escatologica. Infatti per l’autrice proprio il fatto che Giobbe “torni a ricevere una seconda volta tutto quanto è suo, anche ciò che per natura propria è irrestituibile, è un superamento della morte, è un miracolo del regno di Dio.” (141) E costituisce la conferma insieme del potere e della benevolenza di un Dio, che nell’alto della sua trascendenza “non risponde alla domanda del destino umano, ma può cambiarlo.”

Così ancora nella chiusa della sua trattazione la Susman torna sul tema dell’inarrivabile altezza del mistero della volontà di Dio, e riallacciandosi proprio all’epifania del creato a Giobbe introduce un ulteriore tema della tradizione ebraica, la sentenza che “l’uomo non vede fino alla fine” (166). Le preme però qui sottolineare non tanto la lezione di modestia che ne deriva, quanto l’apertura infinita di speranza che vi è connessa; infatti l’uomo nel suo radicale non-sapere-niente dovrà onestamente ammettere di ignorare anche se il mondo, oggi “totalmente estraneo alla redenzione, alla redenzione non sia, forse, quanto mai prossimo.” (168) Così ripete anche un frammento poco noto di Kafka: “Non costituisce smentita al presagio di una liberazione definitiva se il giorno prima la prigionia resta ancora immutata, o persino si aggrava, o addirittura se viene espressamente dichiarato che essa non finirà mai. Tutto ciò può anzi essere necessario presupposto della definitiva liberazione.”

 

Satana tra i figli di Dio

Fin dall’inizio del libro di Giobbe, nel suo “prologo in cielo” il lettore è avvertito che un rapporto ambiguo e complesso lega Dio alla figura di Satana, che dovrebbe essere il suo “avversario” per eccellenza. La Susman fa notare subito questa relazione e ne riferisce le inquietanti modalità. Mentre ci si attenderebbe una opposizione radicale e si amerebbe vedere il fautore del male come “una potenza che viene dall’esterno, una potenza rigettata da Dio” ci si trova di fronte a un “Satana che ha accesso a Dio, anzi al consiglio di Dio”, sta tranquillamente in mezzo agli angeli, “i figli di Dio”, gode della sua “confidenza” ed è persino “in grado di convincerlo” a consegnargli Giobbe per metterlo satanicamente alla prova (34). È questa, nella sua veste biblica, la conseguenza di una scelta che, fin dall’inizio immemoriale della tradizione religiosa ebraica, ha creduto di dover scartare il dualismo metafisico e di non porre al centro della fede una coppia oppositiva di divinità di pari potenza, come più tardi farà invece il manicheismo. Alla figura maligna rimane quindi soltanto un ruolo di deuteragonista, dotato di un’autonomia assai problematica. Comunque possano venire intesi, i suoi rapporti con l’onnipotenza dell’Unico restano oscuri e laddove, come nel libro di Giobbe, si tenti di configurare in modo più ravvicinato l’interazione, si andrà incontro a conseguenze onerose. Il percorso che la Susman non si esime dall’affrontare conduce infatti passo passo al riconoscimento della vera funzione del Satana, anche se ciò vuol dire sollevare il velo sull’inquietante e sull’inconcepibile. Infatti senza questo ardire e senza l’accesso a questi margini estremi del discorso biblico, la riflessione non attingerebbe un livello adeguato alla sfida costituita dalla realtà dello sterminio.

Infatti la singolarità della posizione di Giobbe è costituita da una duplice consapevolezza. Innanzitutto egli ha la percezione che una “potenza estranea, inquietante, nemica a lui e a Dio stesso, si è insinuata tra lui e Dio” (47) ed ha cancellato il suo antecedente e armonico rapporto con Dio. Non gli è però meno presente la convinzione profonda che ciò non sarebbe potuto accadere senza il consenso di Dio stesso. In questo secondo, e più oscuro, convincimento si concentra ormai tutta la sua fede e la sua ortodossia. Per l’ebreo fedele che ha di fronte a sé Auschwitz la situazione, secondo la Susman, non è diversa. Non solo il nome di Satana si è ingigantito “al di là di quanto [ci] era noto come satanico”, inquinando il nome umano, che a sua volta si è “accresciuto di satanico”, ma il nome stesso di Dio si trova così profondamente “intrecciato con quello di Satana” che si impone la necessità di “districare e leggere altrimenti e nuovamente la firma divina.” (121) Questo diviene possibile soltanto riflettendo sul dato di fatto che il popolo intero non è stato annientato, ma, pur “aggredito nel modo più duro, minacciato nel modo più terribile di distruzione, è il sopravvissuto” (150). E non solo ha salvato l’esistenza e la coscienza della sua missione storica, ma deve riconoscere che “dalla mano del Satana stesso” è stato “ricacciato in quanto gli è più peculiare”, ricondotto alla sua appartenenza originaria e vocazionale (121). Dal suo “essere stato aggredito da Satana”, il popolo riceve nella storia una risposta che travalica la storia, che comprende la prospettiva del futuro messianico. E di conseguenza “comincia mirabilmente a decifrarsi la firma del nome divino profondamente intrecciata con quella dell’avversario” (150s.)

Non appena si riesce ad articolare la domanda che chiede se non sia “poi Satana stesso, in quanto ha assalito Giobbe” con tanta crudeltà da produrre “in lui la trasformazione dal nucleo più intimo”, alla fin fine anche “colui che gli ha donato la possibilità della nuova vita”, il rovesciarsi della prospettiva diviene illuminante sul terribile senso del tutto. Siccome questa nuova vita restituita a Giobbe, secondo la Susman, è leggibile soltanto in termini escatologici, il contenuto segreto che l’intrico indecifrabile, l’aggrovigliato “nodo della potenza di Dio e della potenza di Satana” porta con sé sotto il suo “tenebroso travestimento”, non è altro che la “speranza messianica” (151). Sarà dunque necessario riconoscere a Satana in quanto “esecutore del destino messianico” d’Israele la qualifica insolitamente positiva di essere un incaricato, o addirittura un “inviato di Dio”?

La Susman ha così trovato un sentiero malcerto e tortuoso che le permette di scendere fino ai recessi meno frequentati, alle faglie più profonde che la teodicea abbia visitato e intende percorrerlo fino in fondo. Quanto ne emerge è la misteriosa funzione dell’avversario e la sua tenebrosa collaborazione con Dio. Perché l’uomo possa alla fine discernere e districare in sé e nella storia il groviglio delle potenze frammiste, infatti “Dio invia Satana” al quale “ha conferito una grande potenza, che si nutre della sua”, della potenza stessa di Dio. Infatti Egli non potrebbe affidare questo compito “se non a chi ha parte alla sua potenza”. Nel libro di Giobbe è allora celato “un ultimo, estremo mistero”, il cui disvelamento è reso possibile dalla constatazione che il popolo ebraico “riceve la sua forza vitale” proprio dalle “distruzioni” a cui è sottoposto per la sua fedeltà e, in ultima analisi, a conferma di un amore terribile.

“E così noi alla fine impariamo a comprendere l’incomprensibile, cioè che Satana è tra i figli di Dio. Solo puramente di per sé, sciolto dalla sua missione, come puro avversario di Dio egli è totalmente il nostro nemico. Accoglierlo nella totalità del nostro destino come l’inviato, come un figlio di Dio, come la rivelazione della sua potenza, sperimentare nell’assalto distruttivo del male l’intera estensione della potenza di Dio, e la domanda ardente del suo amore, vuole dire vivere della profondità della speranza messianica.” (154)

Tuttavia questa verità decifrata nella riflessione, colta nel balenare di un’intuizione e di una vertigine mistica, per la Susman non potrebbe certo comporsi in un orizzonte trascendente pacificato e rassicurante. La sua attenzione infatti torna a volgersi subito all’impossibilità di trattenere questa consapevolezza per più di un attimo dentro all’esistenza. Perché, come immediatamente postilla, alle spalle del Satana “sperimentare colui che lo invia e che perfino nel più tenebroso inferno della tentazione non abbandona l’anima,” vuole dire nella realtà venire totalmente esposti, dialetticamente, nella solitudine e nell’annientamento. “Vuol dire vivere della domanda del ventunesimo salmo, che è l’autentica domanda di Giobbe, la domanda del popolo torturato a causa di Dio, la domanda dell’esistenza umana spezzata fino in fondo, che è l’ultimo grido di Cristo crocifisso.” (155) “Dio mio, Dio mio, perché mi abbandoni?”

Questo, che si è detto, chiude il cerchio delle meditazioni di Margarete Susman sulla sho’ah e compone in tutta la profondità il quadro della sua straordinaria teodicea. Ma qualcos’altro le è sfuggito, una parola in più ha eluso la sorveglianza della coscienza suggerendo un rapporto ancora più stretto, più confuso e profondo, tra Dio e il suo oppositore. In una prima presentazione infatti, dopo aver rilevato che Satana “non è bandito in un tenebroso regno dell’abisso, bensì vaga libero qua e là sulla terra in mezzo agli uomini e là non soltanto fa i propri affari ma… disbriga anche gli affari di Dio”, la Susman non si vieta di insinuare che, proprio nel libro di Giobbe: “a stare al colloquio iniziale, sembra quasi che questi affari siano gli stessi” (33). L’osservazione che segue, peraltro, sottolinea anche una analogia di comportamento tra i due: pure “Satana, come Dio stesso, sembra trasformare la propria figura”, e lo fa “a seconda del compito”. Il che rafforzerebbe ulteriormente, secondo la Susman, “l’impressione inquietante di una stretta parentela”. Una parentela che sembra oltrepassare quella tra Dio e gli angeli (nel libro di Giobbe: “i suoi figli”), e rinserrare Dio e Satana “in un rapporto molto più prossimo e intricato.” La stupefacente parola che sfugge ora alla Susman è che si tratta di un rapporto di famigliarità nel senso più stretto del termine, dal momento che precisa: “Appunto, in un rapporto famigliare, se noi concepiamo la famiglia come quel profondissimo e intricatissimo rapporto vitale nel quale scaturiscono, dal fendersi della radice dell’identità, la estrema coappartenenza e l’inimicizia mortale.” La ridondanza di questa postilla e, se voleva essere metaforica, la sua estrema imprudenza, ci spingono sulla via di quella verità che forse la Susman voleva ancora celare o si proibiva di enunciare. Che Dio e il Satana non solo sono entrambi capaci di trasformarsi, e perfino di scambiarsi ruoli e maschere, ma forse, in profondo, sono le anime contrapposte, e reciprocamente dipendenti, di un unico essere.

 

un tempo su uno dei piatti della grande bilancia venne posto

il mondo mentre sull’altro venne appoggiata una semplice

foglia di loto sulla quale era scritto il nome di Dio

– e il il piatto su cui stava la foglia di loto si abbassò (30)

 

Uno dei dettagli più sorprendenti del lavoro di M. Susman è che, nel suo primo capitolo, per sottolineare la sproporzione tra divinità e mondo preferisca ricorrere a questo apologo indiano e non cerchi di utilizzare versetti biblici di analogo significato. Siccome però, a mio avviso, questo testo esprime una sensibilità che solo con molte difficoltà si potrebbe conciliare con l’idea ebraica di un mondo creato da Dio, vorrei cercare di leggerlo sinteticamente come un indizio, a conferma di un’interpretazione.

Il Libro di Giobbe e il destino del popolo ebraico mostra infatti le tracce di una trasformazione radicale nella posizione teologica in cui la sua autrice era stata educata. Nell’opera è evidente la crisi proprio di quel monoteismo etico in cui la teologia liberale aveva creduto di poter ravvisare la conquista perenne che l’esperienza religiosa d’Israele aveva recato all’umanità. Facendo sua l’esperienza di Giobbe per tentare di decifrare Auschwitz in termini religiosi, la Susman si trova di fronte a una vertiginosa epifania della trascendenza che rischia di dissestare l’intero spazio religioso giudeo-cristiano.

Ed è esattamente per questo che Auschwitz segna una svolta epocale anche nella coscienza religiosa occidentale, una virata di immane portata, che viene avvertita solo molto lentamente e con difficoltà. Infatti, se non vogliamo seguire Hans Jonas nelle sue propensioni gnostiche,[21] l’attributo divino su cui grava la più forte tensione non è l’onnipotenza, ma la comprensibilità e quindi, alla fin fine, l’idea stessa di rivelazione. In altri termini: dopo essere divenuto, con la secolarizzazione, da gran tempo afasica, l’immagine giudeo-cristiana di Dio accresce, per effetto di Auschwitz, la sua enigmaticità in maniera devastante per l’esperienza religiosa di ascendenza biblica.

Dietro al suo volto, i cui tratti sono in dissolvenza, pare intravvedersi il profilo di altre, più impassibili ed incuranti fisionomie divine, forse quelle cui sono rimaste da sempre fedeli le esperienze religiose, ad esempio, degli indiani, un profilo distaccato, duro ed estraneo, appena temperato, talvolta, da un enigmatico sorriso.

 

Note:

[1] Inizialmente apparsa sulla rivista “Mind” nel 1948, e poi in A. Flew – A. Mc Intyre (curr.), New Essays in Philosophical Theology , London 19697; da cui l’ed. it. Nuovi saggi di teologia filosofica, Bologna 1971, p. 131s.

[2] Con il saggio Über das Misslingen aller philosophischen Versuche in der Theodizee, ora in AM, VIII, pp. 253 ss.; ed. it. Sull’insuccesso di ogni tentativo filosofico in teodicea, in I. Kant, Questioni di confine, cur. F. Desideri, Genova 1990, pp. 23-38.

[3] Assumo la citazione da M. Brocke – H. Jochum, Der Holocaust und die Theologie – “Theologie des Holocaust”, in M. Brocke – H. Jochum, Wolkensäule und Feuerschein. Jüdische Theologie des Holocaust, Kaiser München 1982, pp. 238-270.

[4] Quanto poco un atteggiamento schiettamente religioso possa esimersi dal porre la questione di Auschwitz emerge ampiamente dal volume a cura di P. Amodio, R. De Maio e G. Lissa, La sho’ah tra interpretazione e memoria, Vivarium, Napoli 1999 (Atti dell’omonimo convegno internazionale, Napoli 5-9 maggio 1997), che è la sede originaria del presente saggio. Si ringraziano i curatori per averne permessa la ripubblicazione.

[5] Cfr. M. Brocke – H. Jochum, Der Holocaust und die Theologie – “Theologie des Holocaust”, cit. p. 239.

[6] Jüdischer Verlag, Frankfurt am Main 1996 (con un Vorwort nach fünfzig Jahren di Herrman Levin Goldschmidt). Alla prima era seguita una riedizione nel 1948, con prefazione dell’autrice, e poi una seconda, immutata, con prefazione di Heinrich Schlier e introduzione di H. L. Goldsschmidt, nel 1968. L’edizione italiana: Il Libro di Giobbe e il destino del popolo ebraico, uscì per Giuntina (Firenze 1999) a mia cura dopo la pubblicazione del presente saggio.

[7] Di qui in poi i numeri inseriti nel testo tra parentesi tonde rinviano alle pagine della recente edizione tedesca di Das Buch Hiob und das Schicksal des jüdischen Volkes cit.

[8] Va da sé che riflettere su Auschwitz in una prospettiva religiosa e nell’ottica di una, più o meno articolabile, teodicea non significa affatto voler attenuare né sminuire in tal modo le concrete e precise responsabilità degli uomini che, a ogni livello e grado, hanno commesso gli innumerevoli crimini che in Auschwitz si compendiano.

[9] Basti come esempio l’imperativo che da Auschwitz intima a Israele di vivere, uno dei punti cardine del lavoro di Emil L. Fackenheim, God’s Presence in History. Jewish Affirmations and Philosophical Reflections, N. Y. University Press New York 1970; ed. it. La presenza di Dio nella storia. Saggio di teologia ebraica, Queriniana Brescia 1977, pp.114ss., così anticipato dalla Susman: “La resistenza contro l’autodissoluzione … come la chiara certezza che compiere l’autodissoluzione sarebbe una acconsentire a Satana stesso, un disconoscimento della mano che si cela dietro a quello. … la distruzione che, muovendo da Satana, vuole il suo perire, vuole da parte di Dio il suo resistere e sopravvivere.” (131)

[10] È questa infatti una delle regole ermeneutiche canoniche.

[11] Su cui si diffonde ampiamente alle pp. 94s.

[12] La Susman richiama il detto tradizionale: “Galuth è espiazione per tutto.” (81; 113)

[13] Cfr. I. Kant, ed. it. cit. p. 32.

[14] Cfr. F. Rosenzweig- E. Rosenstock, La radice che porta, Lettere su ebraismo e cristianesimo, Marietti, Genova 1992, p. 115.

[15] Come sosteneva invece F. Rosenzweig, citando dal Talmud Bab., tr. Shabbat 89a: “fu al Sinai, cioè per aver ricevuto il dono della torah, che Israele si procurò per sempre la sinna, l’odio delle nazioni”. Cfr. ivi, p. 107.

[16] Ben al di là del capitolo tematicamente titolato “Die Schuld” [La colpa].

[17] Il problema non è proposto in modo univoco dalla teologia biblica, ma ancor più si complica nel libro di Giobbe, nel quale l’incolpevolezza del protagonista ha la funzione di un necessario presupposto.

[18] Cfr. Franz Rosenzweig, Der Stern der Erlösung, Nijhoff Den Hag 1981, trad. it. La stella della redenzione, Marietti Casale Monferrato 1985, soprattutto il cap. “Il fuoco o la vita eterna”, pp. 319-59.

[19] Un dato singolare della trattazione della Susman è la stima che vi viene manifestata alla figura e al pensiero di Oskar Goldberg (1885-1952), uno dei personaggi più enigmatici e discutibili dell’ ebraismo tedesco di primo Novecento, assertore di un “ebraismo magico” di stampo esoterico. Goldberg figura infatti tra le poche auctoritates ebraiche da lei esplicitamente citate.

[20] Cfr. Eraclito, fr. 22B53 Diels-Kranz. Polemos è maschile in greco, come Krieg lo è in tedesco.

[21] Il riferimento è a Hans Jonas, Der Gottesbegriff nach Auschwitz. Eine jüdische Stimme, trad. it. Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica, Il melangolo, Genova 1989.

 

(Immagine di copertina: foto di Margarete Susman, Literaturachiv Marbach)