Recensione di Francesco Nappo al romanzo di Roberto Marrone “La fabbrica fantastica”, con una selezione di brani

Recensione di Francesco Nappo al romanzo di Roberto Marrone “La fabbrica fantastica”, con una selezione di brani

22 Luglio 2023 Off di Mario Pezzella

Pubblichiamo una selezione di brani dal  romanzo di Roberto Marrone, “La fabbrica fantastica” (Edizione Libreria Dante e Descartes, Napoli 2023), preceduti da una recensione di Francesco Nappo (Ringraziamo l’editore per aver concesso la pubblicazione)

 

Una crescente inquietudine popolare trascorre per la città di Napoli tra furti sacrileghi, crolli ed incendi, in sequenze impressionanti e opache di fatti per lo più effettivamente accaduti che confluiscono in un’invenzione narrativa fortemente coinvolgente ma priva di rimandi allegorici. È questa la materia narrativa del romanzo di Roberto Marrone “La fabbrica fantastica” (Edizione Libreria Dante e Descartes, Napoli 2023).

L’autore, inoltre, nulla concede ad accattivanti suggestioni di tipo estetizzante che lo scenario potrebbe indurre. Le vicende narrate appaiono inseparabili dai processi sociali che le hanno condizionate, anche se non riducibili ad essi. Marrone non vi interpola spunti analitico-politici. Anche i momenti ironici del racconto non spengono mai il dolore e la pietà che lo intridono. C’è qualcosa di incommensurabile alla possibilità di un soggetto nei discorsi dei personaggi, nelle loro rappresentazioni dei fatti narrati. Questi tramano un racconto impropriamente diacronico, perché la connessione di personaggi, eventi e scene nel continuum narrativo non cancella un loro tratto essenziale, quello di presentarsi come tessere di un mosaico o movenze di un coro errante e fervido.

Nel popoloso quartiere di Montesanto, in un gelido mattino, è apparso e scomparso uno straniero di imponente statura, dalle pupille di un azzurro cupo, stretto in un lungo impermeabile. Non pochi abitanti del quartiere lo hanno visto e ne sono rimasti sgomenti. Il personaggio, infatti, è comparso mentre si andava scoprendo la sottrazione di un venerato manto dalla statua della Madonna nell’Arciconfraternita dei Pellegrini. Ne erano venuti, insieme all’ispezione ed alle indagini della Polizia, convulsi assembramenti nei quali i due avvenimenti convergevano nell’assillo di una domanda duplice: a che ora era apparso lo straniero e per dove si era dileguato? I pareri erano discordi ma ognuno evanescente, tranne quello perentorio e stizzoso di una venditrice abusiva di banane, irosamente certa di poter definire tempi e luoghi.

Comunque, il senso di quelle domande sembra esulare dall’identità dello straniero e riguardare la sua apparizione in quanto tale. La confabulazione dei presenti, cioè, non è ansiosa ricerca di un deus ex machina, angelico o criminale che fosse, cui imputare gli avvenimenti sconcertanti che li turbano. Ciò che li attrae e li tacita, forse, è l’impossibilità di giudicare univocamente quegli accadimenti.

La parte iniziale del romanzo mostra, io credo, la vena che corre lungo la sequenza narrativa e i suoi intrecci e ne restituisce la traccia ideale. Tutte le storie individuali e collettive che gemmano da questo avvio prologale del romanzo hanno la stessa “stimmung” sui generis apocalittica. Essa corrisponde alla riluttanza a pronunziarsi sulle cose che stanno succedendo raccogliendole in serie causali riconoscibili, anche quando ciò sembra plausibile. Più che incertezza del giudizio ciò appare rinunzia ad esso.

Tutto questo non riguarda solo gli eventi pubblici sconvolgenti che si susseguono ma anche le vicende personali, anche quelle dei personaggi più lontani dal substrato antropologico popolare: Loredana e Lucilla, le giovani donne laureate, più o meno precarie, che cercano di uscire da esperienze sentimentali fallimentari; Gennaro, il corniciaio evoluto che soccomberà al riemergere improvviso del suo passato criminale ormai del tutto consumato dentro di lui; Antonio, il giovane chirurgo del Policlinico che cerca rifugio, dopo un sofferto divorzio, nella dedizione professionale; i ragazzi e le ragazze di un Centro sociale della periferia orientale desertificata che suscitano curiosità e poi attrazione in una gang rionale soprattutto grazie alla sensibilità del loro giovanissimo capo, che morirà in uno scontro a fuoco con la banda di un altro quartiere presumibilmente mandata dall’organizzazione camorristica dominante sul territorio.

Tutti i personaggi, sia pur diversamente, sembrano amare la loro vita e la loro terra più di quanto sappiano comprenderla. Lo stesso straniero, il personaggio enigmatico da cui il romanzo ha preso le mosse, si rivelerà essere probabilmente l’attore solitario di un tentativo migratorio illegale dall’Est Europa, tentativo sommerso da quella lunga mareggiata sociale che minaccia di penalizzarlo. Nel congedarsi da essa avventurosamente e tornare forse al suo Paese, egli sente una profonda gratitudine per quella gente che lo ha accolto senza avere il bisogno di conoscerlo, per una città che gli ha dato asilo e scampo. L’ultimo saluto che rivolge loro sono le sue lacrime mentre si addormenta sul treno che lo porta lontano.

I personaggi, più o meno rilevati e rilevanti, non riescono ad assumere il ruolo di testimoni dei fatti che pure li interpellano intensamente. Per giorni e settimane ne parlano con straniato pathos, come di cose di somma importanza. Ne parlano ma, in fondo, non tentano neppure una definizione approssimata di essi. Perfino l’episodio cruento della sparatoria in seguito alla quale morirà Gennaro (il corniciaio ingiustamente accusato da suoi ex sodali di malavita di essersi appropriato di una cospicua parte di un bottino criminale spettante al capo-banda) non riesce a trovare testimonianze chiarificatrici della identità di Gennaro ,sia da parte di Loredana con la quale egli stava vivendo un rapporto di amore sia da parte dei ragazzi del Centro sociale che avevano cominciato a frequentare la sua bottega, avendo per lui ammirazione e fiducia. Lei e loro, del resto, nulla sapevano della minaccia mortale che incombeva su di lui e dei suoi moventi. Ora possono solo onorare l’amore e l’amicizia che, rispettivamente, li avevano legati a lui. Per Loredana questo significherà aprirsi ad Antonio, il chirurgo che aveva inutilmente tentato di salvare Gennaro. Per i ragazzi del Centro sociale significherà trafugare il corpo di Gennaro dall’Obitorio, come a sottrarlo alla rappresentazione sociale della morte con un gesto provocatorio e macabro da avanguardia novecentesca, ma senza “ismo” alcuno.

Il contagio mediatico di tanti inquietanti avvenimenti crea in città testimonianze ubique, ma nemmeno le persone più direttamente coinvolte risultano interpreti pienamente attendibili. Il concatenarsi casuale di fatti sconcertanti indebolisce la percezione di nessi causali pure a volte ricostruibili immediatamente o mediatamente, per esempio in termini di responsabilità amministrative e politiche. Ma qui non si palesa semplicemente un limite cognitivo, per altro inevitabile in quel contesto, ma un’attitudine spirituale, l’èthos di una esperienza del linguaggio. Non è tanto la consapevolezza del carattere manchevole, se non friabile, dei giudizi affidati alle frasi ciò che emerge, ma l’essenza stessa della testimonianza che si è chiamati, ognuno a suo modo, a dare degli sconvolgimenti in corso in una dimensione urbana dove già solitamente concrescono ordine e dissesto.

Di cosa “testimoniano” i “testimoni”? Questa domanda promana dal racconto dello stupore dolente che impregna quelle giornate convulse e muove la povera potenza ctonia dello stàsimo metropolitano. L’immediata percezione del lettore, inoltre, è che l’abito comunicativo di quella situazione straordinaria sia lo stesso che è presente nella condizione normale della convivenza popolare. L’autore, del resto, attribuisce a tutti quelli che vivono la concitazione di quei momenti un’attesa di normalità, un desiderio di “come sempre”, a medicare le angosce di quel sommovimento. Il “come sempre” richiama prioritariamente la dimensione temporale degli avvenimenti. Infatti, il vecchio Don Bernardo agli inizi del racconto pone fine ad una diatriba di popolani dialettofoni di Montesanto, circa l’ora in cui lo straniero è scomparso, con un parodico “sul finir della notte”, in un italiano da melodramma.

Ma in cosa consiste quell’ èthos comunitario che unisce il normale allo straordinario nell’uso di quella gente? Roberto Marrone sceneggia con finezza psicologica e acume linguistico la singolarissima molteplicità napoletana di profili personali, schivando la loro tipizzazione manierata e soprattutto restituendo quella molteplicità al suo humus simbolico più pregnante e pervasivo: quella cultura cattolico-popolare che nessun potere ha potuto espugnare né protervia intellettuale sottomettere. Essa, penso, è il cuore di questo romanzo e ne segna i passaggi decisivi. Essa, fa della inattitudine a “giudicare” la possibilità di “essere nel mondo senza essere del mondo”, prudenza e potenza che a Napoli animano innanzitutto il culto umile e sontuoso che parla ai semplici ed ai minori. Nei capannelli delle congreghe rionali ai piedi delle edicole votive, come, all’opposto, nelle assertive assemblee delle “Tute bianche”, le parole non “sono adeguate alle cose” eppure non sono né smarrimento né fuga di fronte all’accadere. Suonano comunque come irrecusabile esperienza di un possibile che si concede anche ai fatti più oscuri o più amari. Sono quelle parole un modo di verità? In che senso sono autentiche testimonianze di vita?

Per questo suo tema essenziale il romanzo di Roberto Marrone si fa prossimo (e la mia lettura di esso si fa debitrice) a quanto scrive Giorgio Agamben in “Quando la casa brucia” (2020), forse il più filosofico-poetico dei suoi scritti. Ne riporto uno dei suoi luoghi eminenti:” Il testimone non è il soggetto della conoscenza. La verità che è in questione nella testimonianza non può mai darsi come tale alla coscienza intenzionale, il cui sapere si articola necessariamente nella forma di un discorso che dice qualcosa di qualcosa. La testimonianza comincia quando il soggetto della conoscenza ammutolisce. L’esperienza che sigilla le labbra del soggetto dischiude quelle del testimone. Ciò non significa che il soggetto sia semplicemente messo da parte, che non abbia nulla a che fare col testimone. È proprio il suo ammutolire a costituire la possibilità della testimonianza, è per lui – in suo luogo- che il testimone testimonia. Il soggetto della conoscenza non precede la testimonianza, avviene per così dire a posteriori attraverso di essa”.

È un passo di densissima ascendenza filosofica e teologica che pone in risalto un aspetto dirimente anche per l’interpretazione di questo romanzo: la differenza che Agamben disocculta tra la testimonianza e il soggetto che la rende. Nell’immediatezza soggettiva del suo dire, egli osserva, il testimone afferma o nega qualcosa di qualcosa, ma non è la coerenza interna del suo discorso né il riferimento a fatti e circostanze accertabili a garantire la sua credibilità. Finché il testimone rimane un soggetto, niente e nessuno può garantire la verità di quanto dice. Il soggetto, infatti, può farlo solo in forza di enunciati predicativi più o meno probabili, di valutazioni soggettive limitate, comunque, dal loro stesso contenuto.

Nondimeno, io credo, nulla resterebbe della testimonianza senza il soggetto che la rende se non la vacua ed ineffabile allusione al “Totaliter aliud”. Qui, infatti, il giudizio dell’io loquente, affonda in un “Tutto è possibile” che è timor Dei ed insieme onor Dei, inseparabilmente. Del resto, lo sfondo ontologico di ogni giudizio umano è pensato da Giorgio Agamben, heideggerianamente, come irriflessiva unità del linguaggio nominante e di quello dell’essere nominato che nel nominare tace e si rivela. Qui il veridico non è la mera sincerità del soggetto testimoniante ma la pura e semplice dicibilità del mondo che la silenziosità dei giudizi soggettivi immersi nel linguaggio non può annientare.

L’avaro pragma e il tacitarsi a se stesso del giudizio discorsivo presuppone, cioè, una costituzione misterica dei soggetti che ne destituisce la hybris ma non li dissolve, rivolgendo piuttosto ad essi, io credo, lo sguardo misericorde e postumo del ricordo storico e della caritas. Tale costituzione misterica dei soggetti, non ha nulla a che fare con la indicibilità del mondo.

La dicibilità del mondo, indisgiungibilmente possibile e attuale, qui sembra darsi laddove l’esistenza umana cessa di consegnarsi all’ assoggettamento organizzato della natura e della socialità, sembra darsi laddove la finitudine espressiva dell’io si rimette alla potenza inespressiva del linguaggio al di là della rappresentazione e dei giudizi dei soggetti. Questa anamnesi del nesso di espressivo ed inespressivo all’interno del linguaggio emoziona, nella narrazione di Marrone, la fede rammemorante dei popolani partenopei, amabile ossequio all’apparire del mondo, sophia della percezione di una presenza non oggettiva che è irrappresentabile tutela provvidente.

Così, nell’ultima parte del libro, la danza improvvisata di un anonimo giovinetto esile ed elegante, all’esordio del grande raduno di tutte le Paranze dei quartieri per la festa della Madonna della Neve, prelude sognante e profetica alla sua propria sospensione, al suo arrestarsi al centro del palco montato nello stadio abbandonato. Egli, in quel momento, mormora parole nuovamente pensate:” Il tempo è un elastico: c’è dentro tutto, anche quello che è scomparso e ogni tanto riappare”. Allora, scrive Marrone: “Il battito profondo e prolungato dei tammorrari fece eco alle sue parole e diede spazio ai canti dei vattienti (flagellanti n.d.r) che si mescolavano alla musica funky e ai suoni delle bande musicali. Tutto intorno a lui sembrava abbracciarlo: la musica, i cori, gli slogan che cominciarono lentamente a salire dagli spalti”.

(12 Aprile, 2023 – Francesco Nappo)

 

Brani selezionati dall’ultima parte del romanzo di Roberto Marrone “La Fabbrica Fantastica”, denominata “Un’altra via”.

1

La trattativa per stabilire il luogo dell’incontro era sta­ta lunga, ma alla fine, con l’appoggio delle paranze dell’area vesuviana e in considerazione del fatto che ad agosto ricorrevano le celebrazioni della Madonna della Neve di Ponticelli, l’avevano spuntata quelli della zona orientale. Le Paranze della cintura a est della città si erano dunque conquistate il privilegio di scegliere data e luogo del raduno. Optarono per lo stadio abbando­nato a ridosso della ex Strada Statale 162. Si tenne lì, sotto una luna glabra che a malapena rischiarava la notte, la prima riunione di tutte le Paranze dell’area metropolitana.

Fu aperto un varco nella rete di recinzione sotto le gradinate nord perché un cumulo gigantesco di balle di rifiuti accantonati e alcune carcasse d’auto impedi­vano l’accesso dall’ingresso principale.

Erano da poco trascorse le otto di sera e i guaglioni della Madonna dell’Aiuto Immediato, vestiti di bianco e con la fascia celeste, vigilavano i varchi d’ingresso per evitare incidenti, mentre la gente continuava ad accal­carsi in attesa di entrare.

Il palco era stato montato al centro del campo di gioco. Un nugolo di volontari andava su e giù sul ta­volato di legno, fissando gli ultimi bulloni dei tubolari che costituivano l’impalcatura.

Diversi ragazzi armeggiavano intorno a un gruppo elettrogeno. Tra loro Nicola riconobbe alcuni guaglioni del rione.

Il caldo delle luci dei generatori si mischiava all’u­midità della sera, provocando una nebbia che avvolgeva ogni cosa. Poco più in là, nella parte bassa degli spalti, Zaho continuava a parlottare con Bip che filmava l’e­vento per trasmetterlo in rete.

Un ragazzo con impercettibili passi di danza, come se stesse ascoltando una musica che almeno per il mo­mento stava solo nella sua testa, conquistò il centro del palco. Si muoveva con eleganza, ondeggiando le brac­cia e le mani piene di anelli. Minuto ed esile, simile a uno sciamano che raccoglie nelle pieghe del tempo una verità smarrita e la annuncia. Pizzicò con la mano la corda di una chitarra elettrica e pronunziò una frase quasi senza pensare: «Il tempo è un elastico: c’è den­tro tutto, anche quello che è scomparso e ogni tanto riappare». Poi smise di danzare, immoto al centro del palcoscenico, inghiottito dall’alone di fumo artificiale dei gruppi elettrogeni. Il battito profondo e prolungato dei tamorrari fece eco alle sue parole e diede spazio ai canti dei vattienti che si mescolavano alla musica fun­ky e ai suoni delle bande musicali. Tutto intorno a lui sembrava abbracciarlo: la musica, i cori, gli slogan che cominciarono lentamente a salire dagli spalti.

Mariolino sedeva al limite della gradinata e muo­veva le gambe nel vuoto come se avesse voluto domare l’insopprimibile voglia di raggiungere i propri compagni sotto il palco, nell’arena. Soffriva a rimanere fermo sugli spalti ma doveva rispettare la promessa di non allonta­narsi. Dalla vita di strada si era portato dietro solo quel­la forma di disciplina mista a rispetto per i più grandi. Senza un motivo apparente pensò a Mirko. Nel rione si diceva l’avessero squagliato. Gli capitava spesso di pen­sare a lui; per un periodo si erano frequentati. Era bravo Mirko, solo che gli avevano fatto credere che bastasse solo il coraggio per farsi largo nella vita.

Lui invece era stato più fortunato! Grazie al Nin­no e ai ragazzi che occupavano i Palazzoni Bianchi si era salvato. Aveva aperto gli occhi su un altro mondo e adesso fiutava un’altra via.

Avrebbe voluto comunicarli, Mariolino, quei pen­sieri, ma non sapeva dirle quelle cose; eppure, a modo suo, le intuiva.

Il Parigino, intanto, si era concentrato sulla lettu­ra degli striscioni che le diverse paranze avevano appeso alla ringhiera degli spalti. Su uno c’era scritto: «Io sono la vita, la verità e la via» su un altro: «La preghiera è arte», su un altro ancora «Madonna proteggici sotto il tuo arco».

Zaho gli indicò lo striscione degli occupanti con la scritta: «È reale solo la periferia!». Campeggiava su un enorme catafalco sul quale era montato un’Idra a più teste composta da figure di cartapesta. Nella testa centrale vi era raffigurato la figura allegorica di un ban­chiere sul cui cappello spiccava il logo del Fondo Mo­netario Internazionale con una falce enorme che spar­geva morte. Le altre teste invece simboleggiavano figure grottesche di governanti europei e italiani, giornalisti, giudici e personaggi oscuri del sistema con la pistola in una mano e la calcolatrice nell’altra.

“La realtà, a volte, non fa alcuna anticamera presso la ragione. Fede, devozione popolare e protesta, mondi da sempre separati, possono incontrarsi all’improvviso” si entusiasmò Zaho.

Nicola il Parigino invece appariva turba­to. Sentiva nelle parole del suo amico cascami di un repertorio ideologico o, peggio ancora, d’un fideismo estetizzante in cui non si riconosceva.

«A cosa pensi?» gli domandò perplesso Zaho, ve­dendolo accigliato.

«Penso semplicemente che noi possiamo tornare indietro, loro no» disse indicando un gruppo di gua­glioni del rione che insieme ad alcuni abitanti in quel momento entrarono nella pista, reggendo uno striscio­ne su cui era scritto: «Reclamiamo i diritti, ma chiedia­mo pure i miracoli».

Dietro di loro su di una piramide di legno c’erano le insegne della Madonna della Neve: la grande protet­trice e consolatrice che ancora una volta li aveva salvati, dall’incendio del Vesuvio e dalle altre minacce.

«Che ti succede?» quasi si ribellò Zaho.

Nicola il Parigino non replicò; si alzò, discese i gra­doni che conducevano all’uscita e scomparve in mezzo alla folla, lasciando di stucco l’amico che prima fece per seguirlo, ma poi ritornò sui propri passi, continuando a riprendere la scena col suo Ipad.

L’applauso liberatorio dei presenti decretò le ultime posate, poi il carro ebbe un sussulto prima di essere inghiottito nelle viscere di quella folla straripante.

«Smarrito Dio, smarriti noi, smarrito anch’io» gridò all’improvviso un giovane dalla barba esuberante che si precipitò giù dalle gradinate fino a raggiungere l’arena.

Un uomo dall’aspetto distinto si avvicinò circo­spetto al loro gruppo.

«Ma chi l’ha detto che la tradizione è qualcosa di antiquato? In tutto questo casino che sta scuotendo il mondo, la gente ha bisogno di ritrovare le proprie radi­ci» affermò con enfasi.

Infastiditi da quell’intrusione nessuno del gruppo gli rispose. C’era qualcosa di bislacco e al tempo stesso saccente in quell’individuo che provocava diffidenza.

“No, questo non è folclore, caro professore, è qual­cosa di più, qualcosa che tu non riesci a definire nono­stante i tuoi sforzi” pensò malignamente Bip che si spo­stò ostentatamente di gradinata, lasciando senza parole il distinto signore che cominciò a dubitare dei motivi che l’avevano spinto lì, in quel posto, a quell’ora, con quella gente.

Sotto gli spalti, con i visi stravolti, i portatori della Madonna ingaggiavano una lotta impari contro la forza di gravità, alternandosi nello sforzo delle alzate e delle posate.

La gente, nel frattempo, continuava ad affluire e prendeva vita il raduno; dappertutto luminarie e ban­carelle spuntate come funghi dentro e fuori dal campo.

Grappoli di ragazzini mimavano i difficili passi della sfilata, circondando i grossi catafalchi depositati vicino al palco. Li sfioravano timidamente con le dita, poi li toccavano con le mani e infine tentavano di sol­levarli tra risate e schiamazzi. Prendevano confidenza con la Grande Madre che benigna li guardava dall’al­to e li lasciava fare. Si allenavano forse, immaginando che anche loro, tra qualche anno, avrebbero prestati gli stessi passi alla Madonna.

In quella notte però non si chiesero grazie né si formularono voti. Le effigi di tutte le Madonne furono calate e gli striscioni arrotolati.

Il silenzio calò all’improvviso tra quelle facce con­tratte dalla commozione e dalla fatica: i lamenti di do­lore e le invocazioni rimasero sospese. Avevano soste­nuto la loro fatica e con umiltà adesso aspettavano di capire. In quel momento fece la propria entrata nella pista il corteo dei tamorrari: un suono cupo e incal­zante, che somigliava a un rullio di guerra spense ogni voce, ogni ballo.

Anche i venditori di trippa, anche gli ambulanti che vendevano bibite e taralli, anche la vecchina che offriva il vino fresco, smisero di colpo il loro vociare e rimasero in silenzio. Colpito dal fragore del vuoto per­sino Bip cessò le riprese.

Fu il cantante smilzo a revocare quel silenzio come se fosse stato autorizzato dall’alto. Indicò tutt’intorno con l’indice a mo’ di esortazione e poi fece un cenno alla band che riprese a suonare. La moltitudine si animò e la sfilata riprese. Gesti consueti, mille volte consumati, ritrovavano un altro significato. I fujenti scalzi e vestiti di bianco si alternarono di nuovo sotto i cinque pali che sostenevano il carro. In quella strana notte portaro­no per l’ennesima volta sulle spalle il fardello di una ve­rità a stento sfiorata. La consegnarono ancora una volta alla Madonna perché quella era la Madre di tutti.

 

2

A volte i fatti sembrano arabeschi senza fine; altre volte il tempo rallenta e assegna a essi una durata. Ai guaglio­ni del Conocal però l’urgenza di sopravvivere non con­cedeva di sottrarsi all’alternarsi delle circostanze e degli avvenimenti. Nello spazio incerto e indefinito delle loro giornate, non restava che tirare a campare in quella sorta di eterno presente che forniva loro il piacere e l’illusione di sentirsi invincibili. Così, in vista della “grande festa”, per loro non esisteva altro tempo che quello dell’eterna sfida con gli altri, per scambiarsi orgoglio e invidia, po­tere e sottomissione; mettendo in gioco l’unica cosa che possedevano: la loro vita e la loro morte.

«Così imballi il motore! Non c’è bisogno di tenerlo tanto sotto sforzo» urlò Manubrio a uno dei ragazzi in moto, scavalcando la transenna che delimitava il caval­cavia interrotto.

Tutti nel rione lo chiamavano Manubrio, persino i più grandi. Era basso, tendente al tracagnotto e aveva i capelli biondi a spazzola e occhi azzurri e lucenti su di un viso di adolescente.

Intorno a lui grappoli di ragazzini di ogni età, alcu­ni, bambini che potevano avere al massimo otto, nove anni, con occhi sognanti seguivano in silenzio le acro­bazie delle moto dei ragazzi più grandi che erano stati scelti per la sfida.

Molto distante, alla fine del cavalcavia, un uomo con ai piedi scarpe da ginnastica e un lungo e sottile impermeabile, continuava a osservare le loro evoluzioni.

Manubrio, mostrando indifferenza, a rapidi passi si portò ai bordi dello stradone, attendendo che il primo dei quattro centauri terminasse il suo percorso di prova.

Ad ognuno corresse qualcosa o fornì un suggeri­mento. I quattro, l’ascoltarono in silenzio, incuranti del pubblico costituito da guaglioni sopraggiunti e dello schiamazzo prodotto dai bambini aggrappati alle tran­senne. Non osarono interromperlo e aspettarono che Manubrio finisse di parlare per chiedergli consigli.

Certo, la presenza di quell’insolita figura alla fine dello stradone senza sbocco non era sfuggita a nessu­no! Ma tutti erano concentrati a seguire le spericolate prodezze dei guaglioni in motocicletta o ad ascoltare le parole di Manubrio. Quel soprannome gli era sta­to assegnato quando lui per scommessa aveva guidato per un tratto la propria motocicletta stando all’impiedi sul manubrio. La sua autorità se l’era conquistata sul campo. Quando sfrecciava per i viali del rione la gente sospendeva ogni attività, rimanendo in attesa di un suo numero, che puntualmente arrivava. Pareva che in sella a una motocicletta anche il suo corpo si trasformasse. Riusciva persino a balzare in piedi sulla sella o a saltare più volte a terra, riprendendo la guida della moto an­cora in movimento. Dopo ogni esibizione smontava a volo, togliendo con un sol gesto le chiavi dal cruscotto della moto.

Solo sua madre si ostinava ancora a chiamarlo Franco, forse per sottrarlo ai pericoli che quel sopran­nome evocava.

Lui però era contento e non faceva niente per cam­biare. I motori erano la sua passione, gli avevano per­messo di tenere sempre qualche soldo in tasca e l’ave­vano reso noto. La sua fama si era diffusa e venivano a vederlo da ogni parte. Aveva cominciato da bambino accompagnando i grandi nei diversi servizi. Un vero professionista! Non chiedeva mai cosa si andasse a fare ma, crescendo, in cuor suo gli era venuto più di un ri­morso e aveva deciso di continuare a vivere quella sua passione, mettendosi in proprio.

Adesso preparava i guaglioni a pagamento ed era diventato il campione delle gare clandestine. Su di lui abbancavano tutti; anche quelli del sistema.

Col tempo quello stradone senza sbocco era dive­nuto la sua pista di allenamento e il suo regno.

Ai guaglioni del circolo invece l’arte della guida ve­loce l’insegnava gratis. Per la prima volta non gli pesava più trasferire i suoi segreti perché, come spesso afferma­va con tono enfatico: «Siete tutti fratelli miei!». Insie­me a loro, di lì a qualche giorno, avrebbero lanciato la grande sfida.

Dovevano dimostrare di essere i più forti e i più coraggiosi. Dovevano schiattare in corpo tutti gli altri circoli e assicurarsi il prestigio di aprire il corteo delle Paranze.

Avevano deciso di tenere segreta la loro iniziativa e non parlarne a nessuno nemmeno ai ragazzi dei Pa­lazzi Occupati; li giudicavano bravi ragazzi ma a volte un po’ esaltati e poi, non per sfiducia, ma loro erano i guaglioni della Paranza dell’Aiuto Immediato e le cose erano in grado di deciderle da soli!

Sarebbero entrati in azione in quattro, con altret­tante motociclette, dai vicoli a monte e a valle di via Toledo. A lui, Manubrio, invece spettava l’onore di per­correre la via principale, sfidando i cordoni di polizia.

Tirò il freno a mano, la motocicletta di prova im­pennò sulla ruota davanti e ricadde stridendo.

«Questo è il volo dell’angelo: è uno spettacolo! Solo che invece che in cielo, ti fa arrivare in terra» gri­dò dopo essere atterrato con entrambi i piedi a terra. Guardò in giro soddisfatto, cogliendo il consueto effet­to di stupore degli spettatori.

Mariolino, seduto su uno steccato che delimitava la strada, l’ascoltava impettito e con lo sguardo vivo. Tra di loro era nata un’amicizia e si vedevano ogni gior­no per uscire insieme o trascorrere un paio d’ore con qualche ragazza del rione. L’aveva pure presentato a quelli che occupavano i Palazzi Bianchi e Manubrio in cambio gli stava insegnando pure i trucchi del mestiere. Anche ad eseguire in maniera perfetta il volo dell’ange­lo.

 

3

«Ci siamo!» annunciò trafelato l’ispettore D’Angelo, entrando nella stanza.

Il commissario Russo non si scompose per quell’ir­ruzione.

«La notizia è certa; mi è appena stata data dai col­leghi della Digos; ho qui la relazione» continuò l’ispet­tore, sventolando una cartellina ocra.

Il commissario pronunciò uno sbiadito: «Cioè?» e si dispose all’ascolto con insolita bonomia.

«Il tizio è stato visto più volte e in giorni diversi, aggirarsi per Ponticelli e in special modo nel Rione Co­nocal. Qui ci sono le relazioni dei colleghi e alcuni ri­lievi fotografici» continuò l’ispettore e depose la cartel­lina sulla scrivania con un sorriso che gli uscì melenso.

«E ciò che ci induce a pensare?» quasi l’invogliò il commissario, volendo dimostrare in maniera forse eccessiva la propria buona disposizione. L’ispettore as­sunse un’espressione guardinga e rispose di malavoglia come un alunno nel corso di un’imprevista interroga­zione scolastica.

«Ci fa pensare una cosa molto semplice: da quando è iniziata questa vicenda questo strano individuo lo tro­viamo in quasi tutti gli episodi salienti».

«E secondo te basta?» obiettò il commissario, irrita­to dal fatto che ogni qualvolta si mostrava disponibile veniva puntualmente frainteso.

«Non ho certo detto che dobbiamo arrestarlo! Cre­do però che tutte queste, chiamiamole così, “coincidenze”, ci autorizzano a intensificare il controllo su di lui, tenendolo d’occhio in maniera sistematica».

«Allora è questo che sei venuto a chiedermi?»

«Sì, è proprio questo» confermò l’ispettore.

«Non c’è problema, predisponi la procedura e la firmo» replicò il commissario Russo.

L’ispettore D’Angelo rimase meravigliato per l’ina­spettata remissività del suo superiore. Si era preparato a far valere le ragioni della propria richiesta e invece non ce n’era stato bisogno. Si rialzò esitante dalla sedia ma, prima di richiudere la porta, cercò gli occhi del com­missario e domandò: «Tutto bene?»

«Si certo, prepara le carte» rispose il commissario a testa china.

Rimasto solo, il commissario aprì il fascicolo. Non lesse il rapporto, guardò le fotografie, concentrando­si sul volto di quel singolare individuo. Era la prima volta che vedeva lo sconosciuto dopo averne sentito parlare. Risultava impossibile stabilire la sua età poiché pur avendo i capelli bianchi, aveva un fisico asciutto e slanciato. Indossava un leggero soprabito che gli scen­deva fin quasi alle caviglie e portava ai piedi delle scar­pe da ginnastica. Poteva essere chiunque: uno straniero in visita in città, uno studioso un po’ eccentrico, un clochard senza fissa dimora o addirittura un prete. No­nostante lo strano abbigliamento non aveva affatto un aspetto dimesso; anzi, quel modo di vestire essenziale gli conferiva una certa eleganza.

«Sì, è chiaro! Porta addosso solo indumenti neces­sari per un viaggio» pensò il commissario, aggrappan­dosi a quell’intuizione, però subito dopo non poté fare a meno di porsi un’altra domanda: «Da dove viene? Occorre trovare un pretesto, uno qualsiasi, per fermarlo e interrogarlo» si ripromise, alzandosi di scatto dalla sedia per raggiungere la finestra.

Quel posto era il suo pensatoio: era lì che prende­va le decisioni importanti. Come sempre si incantò a osservare la gente in strada. Nessuno passeggiava, tutti camminavano spediti come se avessero fretta. Ciascuno era rinchiuso nei suoi pensieri, tanti parlavano al cellu­lare con interlocutori remoti, mimando gesti nel vuoto.

Fece alcuni passi indietro e si lasciò cadere sulla se­dia, afferrando con entrambe le mani i braccioli.

Stette immobile in quella posizione per un po’ di tempo, poi si raddrizzò con la schiena e adagiò le mani sulla scrivania. Con la punta delle dita sfiorò la cartel­lina e la riaprì. Riguardò la sequenza fotografica. Una foto ritraeva lo sconosciuto mentre aspettava il treno nella Stazione della Circumvesuviana di Ponticelli. In un’altra attraversava il vialone, guardando intorno come se un motivo guidasse i suoi pensieri. Pareva cercare qualcosa o qualcuno. In un’altra ancora, invece, fermo sotto un palazzo guardava in alto. Era sempre sereno. Un’ultima foto invece lo ritraeva di spalle sul punto estremo di un cavalcavia interrotto, mentre osservava sotto di lui il paesaggio che si spandeva tra la campa­gna bruciata, i palazzi e l’autostrada. Appariva irrag­giungibile nella sua solitudine. Il vento gli gonfiava il soprabito; visto da dietro dava l’impressione che stesse per spiccare il volo come un uccello che apre le ali per levarsi in aria.

[….]

 

6

Per sfuggire alle moto dei falchi, aveva imboccato una scalinata, correndo a perdifiato. Ansimava come un ani­male braccato. Scavalcò con un salto il muro che deli­mitava un terreno coltivato e si distese sotto un albero di magnolia dalle possenti radici, respirando a bocca aperta per non fare rumore. Non lontano un nervoso scalpiccio di passi si mischiava a voci concitate. Era sta­to un lungo inseguimento. Rimase immobile nell’erba fino ad avvertirne il respiro che si confondeva col suo. Si alzò solo quando vi fu di nuovo silenzio e riprese il cammino senza più voltarsi indietro. Attraversò giardi­ni e campi incolti e abbandonati. Una fitta vegetazio­ne che miracolosamente era scampata alla speculazio­ne edilizia, si arrampicava ostinata, risaliva le pendici della collina fino a Castel Sant’Elmo. Guardò di sotto, in quel pulviscolo di luci. Percorsi verticali, antiche vie fatte di gradinate che si perdevano nei vicoli.

Il buio della sera era scalfito solo dalle voci che continuavano a levarsi da laggiù.

Quando riprese il cammino ricominciò a piovere. Attraversò un vecchio sentiero ostruito da un grovi­glio di arbusti e rovi spinosi e raggiunse una masseria abbandonata ricoperta quasi interamente dal verde

violento della gramigna e da cespugli di piante selvati­che.

Salì gradini sbrecciati fino a uno stanzone con enormi finestre senza più infissi. Utilizzò una scala da pagliaio per raggiungere un abbaino con le travi di le­gno che parevano ancora abbastanza solide. Si sarebbe riparato lì.

Con un rapido gesto si tolse l’impermeabile che depose su di una sedia sgangherata. Si tolse anche la tuta divenuta ormai un involucro rigido pieno di chiaz­ze dai colori indefiniti. Provò a lavarla in un vecchio lavatoio dove l’acqua miracolosamente ancora arrivava e l’appese ad una gruccia di un armadio sgangherato, senza più ante.

Si accorse di un taglio sull’avambraccio destro. Sanguinava appena. Non riusciva a ricordare come se l’era procurato. Come se avesse urtato qualche cosa: forse uno spezzone di ferro, forse lo sportello di una macchina o uno spigolo di muro. Sporse per un po’ il braccio fuori da un finestrone, sperando che la pioggia sciacquasse la ferita.

Tutto intorno era umido e sentiva freddo. Per ri­scaldarsi accese un piccolo fuoco in un angolo dello stanzone, raccattando spezzoni di legno che erano spar­si un po’ dappertutto.

Il forestiero rabbrividì. Si rammentò del suo ma­noscritto. Era rimasto nella chiesetta sopra ai Miracoli: qualcun altro l’avrebbe trovato.

Tentò di rialzarsi, la stanchezza gli rendeva legnosi i movimenti, come se il corpo si ribellasse a ogni sua decisione. Avvertì un brivido lungo la schiena che gli alterò il respiro. Si rincantucciò vicino al fuoco per ri­trovare un po’ di calore. Addosso aveva solo una calza­maglia. Ricordò le grida della gente che l’esortava indi­candogli le vie per sottrarsi alla cattura.

In lontananza scorse il bagliore rosso di un lampo e vide in quell’attimo i palloncini rimasti impigliati nei rami secchi di un albero. Era tutto quello che rimaneva della festa!

La sua tuta volteggiava sotto i colpi del vento fin dentro l’armadio scoperto: si gonfiava, si ingobbiva; pa­reva ribellarsi all’appiglio precario della gruccia.

Rimase a lungo attonito a osservare quella muta lotta. Nel silenzio avvertì un suono lontano: parevano tamburi.

S’assopì. Il suo non fu sonno ma il paziente ascolto della pioggia.

 

7

Fu scosso all’alba da un rumore assordante. Lanciò uno sguardo oltre il finestrone sopra di lui, alcuni elicotteri della Polizia volavano a bassa quota: sfioravano la colli­na e poi si alzavano rapidamente. Perché continuavano a dargli la caccia? Niente di quello che era successo di­pendeva da lui. Il fatto di essere straniero non giustifi­cava tanto accanimento.

Non aveva voglia di fuggire di nuovo: i tendini in­dolenziti gli impedivano ogni movimento.

Era incredulo per la piega che aveva preso tutta quella storia; non riusciva a rintracciarne le cause e le motivazioni, e non riusciva nemmeno più a riconosce­re sé stesso.

Rimaneva in attesa della luce: sul bordo tra il buio e il chiarore. Si aggrappò, sollevandosi a uno spunto­ne di ferro che fuoriusciva dal muro, raccogliendo le sue ultime forze. Da lassù il dorso bruno del Vesuvio gli sembrò più vicino. Poi il suo sguardo indugiò su quell’enorme macchia di grigio ferroso che aveva invaso le colline e i dintorni della città: un vomito prolungato e crudele di cemento. Notò dei bagliori a margine del mare oltre il promontorio di Posillipo. Sembrava un in­cendio. Doveva essere Bagnoli.

«Scenderò lungo i fianchi della collina fino a rag­giungere il mare» stabilì.

Dette un’ultima occhiata allo stanzone desolato. Era giunta l’ora. Bisognava muoversi.

Ridiscese le scale fino al pianterreno e uscì fuori all’aperto. Il cielo era basso, respiro affannoso. Forse era solo foschia.

Sentì i suoi passi pestare la ghiaia e gli parve di ri­trovare il coraggio. Cominciava a far chiaro. Da quanto tempo non vedeva l’aurora!

Proseguì senza mai fermarsi, scavalcando muretti dissestati, andando lungo campi ricoperti da ciuffi di vegetazione spontanea che si alternavano a fazzoletti di terra coltivati. L’odore della terra bagnata era intenso.

A un certo punto si fermò, sostando sotto una grossa quercia e si incantò a osservare i pini mediterra­nei e i lecci che ostinatamente continuavano a crescere in quella boscaglia diradata che ora mutava colore sotto la luce gelida dell’alba. Quel paesaggio non gli parve più estraneo.

Riprese il cammino, stando attento a non essere vi­sto. Doveva andare ad ovest, camminare sempre, cam­minare fino a incontrare il mare. Attraversò agrumeti fino a scorgere un pezzo di città. Imboccò delle scale che lo portarono fino alla Stazione della cumana. Entrò sen­za che nessuno lo fermasse e raggiunse la banchina in direzione Torregaveta. Guardò dentro la galleria. Scrutò in quel buio senza cercare nulla. La pioggia riprese lieve. Si tolse il cappuccio e rimase immobile.

Aprì la bocca e assaporò le gocce di pioggia.

Un lampo di paura l’attraversò di nuovo ma lui non si mosse, rimanendo fermo ad aspettare il treno.

Il viaggio durò mezz’ora. Scese all’ultima fermata. Alcuni passeggeri attendevano sonnolenti, infagottati nelle loro abitudini. Imboccò deciso l’uscita. Fuori la stazione non c’era anima viva. Solo un vento tagliente che sembrava voler spazzare le nubi livide.

Si incamminò a passo svelto e attraversò la piazza giungendo sul pontile. Alla sua sinistra, sulla spiaggia, notò un gruppo di pescatori. Un paio di loro erano im­pegnati ad assicurare le sartie attorno alla vela di una vecchia imbarcazione. Altre ruvide mani, temendo la furia delle onde, si affrettarono a mettere al riparo le barche sulla spiaggia. Erano occhi quelle fessure pro­sciugate dal salmastro. Rimasero immobili a osservarlo. Uno dei pescatori fece ampi gesti con le mani al suo indirizzo. Lui non rispose.

Fece a passo accelerato il tratto finale del pontile.

Si era alzato il vento, un vento forte, improvviso, estraneo come ogni segnale di pericolo.

A destra e a sinistra c’era ormai solo il mare.

Il cielo scatarrava in lontananza.

La matassa di nuvole parve aprirsi per un momen­to e all’orizzonte si intravide una luce su quel mare cre­spo e grigio.

Il forestiero aspirò l’odore improvviso di salsedine e rimase immobile a guardare il bianco delle onde più lontane. Si sentì piccolo, ma avvolto in tutta quell’im­mensità e, come se fosse una preghiera, cominciò a sus­surare parole inventate… un canto.

 

8

La stazione dei Campi Flegrei appariva deserta. Le nu­vole di fumo prodotte dal movimento delle locomotive dirette al deposito di Cavalleggeri d’Aosta, si confonde­vano con la nebbia. Nell’atrio, alcuni africani discuteva­no a voce alta indicando il tabellone elettronico su cui era segnato l’orario dell’Espresso per Villa Literno. Due agenti della Polizia ferroviaria, gli passarono davanti: di tanto in tanto lanciavano occhiate in giro e poi rideva­no tra loro in maniera complice. Su una banchina in­termedia, uno sparuto gruppo di persone aspettava la metropolitana. Diede un’occhiata in giro e notò le in­segne di un bar. Vi si avvicinò circospetto e attraverso i vetri appannati sbirciò all’interno; poi entrò e prese po­sto su di uno sgabello presso il bancone. Avrebbe atteso lì la partenza del treno: non poteva rischiare di essere fermato senza documenti.

Da due giorni era in fuga senza nemmeno sapere il motivo. Si sentiva spossato e non aveva potuto far ritorno nella stanza della piccola chiesa sopra i Miracoli che per quasi un anno aveva rappresentato il suo rifu­gio. Era stato costretto a lasciare tutto lì: lo zaino, il suo quaderno, gli strumenti di lavoro e la sua cobza. La sua cobza: chissà se qualcuno l’avrebbe mai suonata!

Ordinò un cappuccino per riscaldarsi. Cominciò a sorseggiare e onde di ricordi si inseguirono dentro di lui: anche la sequenza degli avvenimenti appena tra­scorsi gli risultava confusa. Provò a ripercorrere gli ulti­mi momenti. La notte trascorsa sulla collina, il viaggio con la Cumana fino al mare di Torregaveta e il ritorno a Montesanto, l’attesa impaziente dell’uscita dei fedeli nascosto dietro a una colonna della Chiesa della San­tissima Trinità dei Pellegrini, l’allontanarsi furtivo dalla porticina laterale per quei vicoli affollati, tra la gente che a quell’ora di pomeriggio faceva rientro a casa.

L’aveva riportato lì il mantello con dentro gli og­getti preziosi. Era quello il loro posto! In quel luogo sorto originariamente per dare ricovero ai pellegrini e ai viandanti come lui.

Era tutto avvolto nell’originario drappo rosso e adagiato a terra nel presbiterio, alle spalle dell’altare, nel piccolo vano che porta al coro. Prima di uscire, si era voltato e si era genuflesso quasi di nascosto davanti alla croce della navata laterale; poi, era uscito in fretta, stando attento a non essere scorto da nessuno.

“Se nessuno mi perdona, mi perdono da solo” scherzò con sé stesso, ritrovando l’ironia di un tempo. Si perdonò così pure quell’antico scrupolo di rimettere ogni cosa al proprio posto che si portava dietro dal suo mestiere di muratore.

Al momento di partire, le sue manie e le sue vec­chie abitudini riaffioravano. Avevano resistito anche a quelle latitudini! In quella terra straniera che sembrava infuriarsi all’improvviso e poi di colpo acquietarsi.

Per la prima volta, dopo tanto tempo, iniziava a sentirsi al riparo da quel mondo che stava per lasciare e che non poteva più sostenere né tantomeno rifiutare.

Gli rivenne alla mente la frase scritta in quel qua­derno ritrovato nella sacrestia: «La rosa sboccia nel mi­stero della notte». Una scrittura elementare e ogni pa­rola aveva un colore diverso. Forse era la frase di un ospite come lui.

Dunque, la vita era un mistero pieno di possibilità: occorreva solo percorrerla!

Con ogni probabilità, in quello stesso momento, persone come lui in altre parti del mondo continuava­no a campare, svolgendo semplicemente la propria esi­stenza: vivevano il mistero della vita senza alcuna pre­tesa di prevedere il loro destino né tantomeno quello dell’umanità intera.

Forse era questo il significato delle posate e delle alzate dei baldacchini: interrogare i limiti delle possibi­lità umane. Forse era per questo che i fujenti continua­vano a esistere incuranti della loro inattualità.

Diede ancora un sorso al suo cappuccino, poi con circospezione si guardò in giro. Temeva che qualche poliziotto potesse entrare da un momento all’altro.

Una giovane donna seduta a un tavolino in un an­golo ingannava il tempo sfogliando un libro; ogni tan­to si soffermava su qualche pagina come se fosse stata colpita da un concetto: alzava la testa, lanciando uno sguardo vago all’ambiente circostante e poi, all’improv­viso, si rituffava nella lettura, ricreando di nuovo di­stanza tra sé e il mondo intorno. Forse attendeva qual­cuno. Più in là due addetti alle pulizie bevevano caffè e scherzavano ad alta voce con il barista, aspettando che terminasse il loro turno. L’uomo che gli sedeva accanto sfogliava con indolenza un giornale e ogni tanto lancia­va un’occhiata alla punta delle sue scarpe. Tutti erano in attesa di qualcuno o di qualcosa. D’altronde, ogni luogo ha la sua prerogativa. I bar delle stazioni sono punti di ricovero ma anche spazi di transito. Una volta fuori da quella porta, ciascuno prende la propria strada e affronta la propria sorte.

Tirò un sospiro di sollievo quando gli altoparlanti della stazione annunciarono la partenza del treno per Venezia. Era il suo treno! Stava lasciando quella terra che l’aveva prima accolto e avvolto nel manto dei suoi vicoli e poi l’aveva ricacciato.

Ripensò a quella donna, al suo viso, alla sua com­posta sofferenza; rivide l’incavo del suo collo e i suoi capelli sciolti sulle guance. Quando era scivolato via dalla Chiesa dei Pellegrini era risalito fino a piazza Montesanto e aveva sostato a lungo sotto il suo balco­ne nella speranza di rivederla per l’ultima volta prima di andare via. Ripensò anche ai guaglioni, ai loro visi di bambini trasformati troppo presto in facce da uo­mini; ricordò le espressioni innocenti che di tanto in tanto affioravano nonostante la loro esistenza rabbiosa. Fin dal primo momento l’avevano chiamato forestiero, ma l’avevano accettato senza mai domandargli nulla. Li lasciava lì, senza speranza ma non disperati. L’eccesso delle loro illusioni li proteggeva.

Lui invece si consentiva l’ultimo abbaglio: il ritor­no. Avrebbe cercato un lavoro, un lavoro qualsiasi in grado di assicurargli una vita fatta da piccoli gesti quo­tidiani simili a preghiere mute che sarebbero servite a scandire le ore di ogni giorno.

Senza aspirare a niente se non allo svolgersi del tempo che, simile a una carrucola, avrebbe riavvolto il bene e il male di ogni azione umana.

Sì, certo, si consentiva il ritorno, lusinga estrema.

Tirò un sospiro di sollievo e guardò il vecchio oro­logio a muro che gli stava di fronte. Mancavano cinque minuti. Raccolse la busta che aveva posato sullo sga­bello di fianco, salutò e uscì, imboccando di corsa il sottopasso fino alla banchina indicata dal display. Un uomo smilzo dai baffetti sottili arrancava dietro di lui continuando a ripetergli trafelato: «Ce la faremo… ce la faremo».

«Treno per Venezia è in partenza dal binario 4…effettua le seguenti fermate…»

Ce la fecero entrambi.

Lui entrò in un vagone vuoto e prese posto vicino al finestrino. Fuori era ancora possibile scorgere la luce residua della sera.

Lo sferragliare delle rotaie rimescolava di continuo i suoi pensieri. Come in un sogno, ripensò alla sua casa paterna, agli amici, ai compagni di lavoro che forse come lui erano andati via dalla terra in cui erano nati. Un buio lo colse di sorpresa e gli interruppe ogni ricor­do. Il treno era entrato in una galleria. Poi di nuovo la luce! Tra due colline riuscì a distinguere ancora l’indaco del mare.

Un’inaspettata sensazione di conforto lo pervase. La notte imminente gli avrebbe fatto di nuovo com­pagnia: ciò che era segreto a lui non faceva più paura. All’indomani un’altra luce l’avrebbe avvolto; in un’altra città.

Per prendere sonno reclinò la testa sulla parte alta della poltrona e guardò fuori dal finestrino. Era stanco. Si schermò gli occhi col palmo di una mano. La sentì bagnata. Erano lacrime.