Da L’imbarco per Citera; Da Il santo e il pittore; Da Gemelli – Ruggero Savinio

Da L’imbarco per Citera; Da Il santo e il pittore; Da Gemelli – Ruggero Savinio

4 Luglio 2023 Off di Francesco Biagi

[Anticipiamo alcuni testi di Ruggero Savinio che saranno pubblicati nel n. 9 (2023) di Altraparola] 

 

Da L’imbarco per Citera

 

Cetona, notte. Il mio sonno è interrotto spesso: frammenti di sonno e di sogni, assediati dai frequenti stimoli urinari della vecchiaia.

Tiro giù le gambe dal letto, infilo i piedi nelle pantofole, o, scalzo, voglio raggiungere il bagno.

Per non svegliare Annelisa, che dorme al mio fianco, non accendo la luce. Al buio mi oriento toccando e strisciando la mano sulle colonnine del letto.

Imbocco la porta che lasciamo sempre socchiusa. Poi tocco e struscio la mano sopra i miei quadri appesi in ingresso.

Procedo come un agorafobico. L’intimità coi quadri mi rassicura. Verso la loro materia ho un doppio sentimento: paura di consumare la superficie dipinta con lo strusciarvi le dita e riconoscenza verso questa materia, che di solito vivo con soddisfazione e tormento.

Adesso prevale la soddisfazione, perché la materia mi accoglie e mi indica il cammino; è un solido punto d’arresto, che mi permette di riprendere la marcia verso il bagno.

I quadri sotto le mie dita sono un riassunto delle mie incertezze rappresentative. Le figure non procedono verso una chiusa definizione, ma si aggrovigliano, si frantumano, si sfigurano.

La loro disfatta materialità sospende o rallenta la marcia verso il chiaro.

La summa precettistica, che uno si porta dentro, è la base della sua «maestria». Naturalmente i precetti vanno insieme con la loro pratica o col loro rifiuto.

Fin da giovane ho incorporato l’interdetto paterno per la veste fisica dei quadri, i cosiddetti valori pittorici, che confinano i quadri di qua dalla loro precisione rappresentativa, o meglio, dal loro ben orientato discorso, e li mantengono alla superficie, o, diceva mio padre, alla crosta.

È stata la mia pratica con la sua scoraggiante incertezza e la sola certezza di non sapere che mi ha fatto immaginare certe volte un «elogio della crosta» e una difesa pietosa delle fratte immagini, che la mia pratica riesce a far nascere.

La pittura testimonia il momento d’arresto, l’adesione abbandonata allo zoccolo materiale e difettivo per riprendere il cammino verso la pienezza.

 

Quindi, Watteau parte per Londra. Vari motivi ve lo conducono. Certo, la possibilità di vendere quadri. In Inghilterra ci sono tanti amanti della pittura; vogliono comprare quadri, ma non ci sono pittori. I pittori arrivano dalle Fiandre e dalla Francia. Tanti pittori francesi sono installati a Londra. Watteau fa il ritratto di Dorigny, mentre Baron Simon, Dubosc e Philippe Mercier incidono suoi quadri.  Mercier finirà qualche Watteau.

A pochi passi da lui il giovane Hogarth dipinge La venditrice di granchiolini, testimonianza che ha visto i francesi al lavoro.

Non solo denaro. Se non la «febbre di denaro», come dice Michelet, un’altra febbre lo arde: la malattia e la voglia di guarire. La malattia l’ha ridotto all’estremo. La tisi, mentre ti consuma, ti dà una strana vitalità.

E poi, a Londra, c’è un luminare della medicina che è anche un suo collezionista. Il dottor Mead ha due quadri suoi: Watteau si affida alle sue cure. Senza successo, tanto che ricorre a un guaritore, un ciarlatano, Misaubin, che poi mette in ridicolo in un disegno.

Mentre Watteau è a Londra, 1720, c’è il fallimento di Law e della Compagnia delle Indie. Watteau vi aveva investito molti risparmi. Julienne è riuscito a salvargli seimila franchi, che gli dà al ritorno.

Un disegno, La tempesta, rappresenta i fatti: una barca è in balia delle onde, sulla riva un personaggio tende la mano per salvare il viaggiatore in pericolo.

Watteau torna da Londra. Quando? Come al solito le date nella sua vita sono incerte.

Dovendo dare un senso a questa incertezza potremmo rifugiarci in una spiegazione spirituale: Watteau è sganciato dalla cronologia e dalla stessa biografia, perché lui coincide col suo secolo. Watteau è il Settecento: gioco elegante, schermaglia amorosa, malinconica e straziata ricerca della felicità.

Comunque, il 21 agosto 1720 è a Parigi. Abita da Gersaint, genero di Sirois.

Per rimettersi in esercizio, se dégourdir les doigts e sdebitarsi, vuole dipingere un’insegna per la bottega del suo ospite.

Gersaint non è convinto, vorrebbe qualcos’altro, un quadro da cavalletto. Forse dubita che Watteau, stremato, possa condurre una pittura così ampia. È stanco, debole, lavora due ore al giorno, la mattina, ma L’insegna arriva a conclusione in otto giorni.

La fretta di concludere è forse un capofitto nella pittura, intesa anche come materia, oscurità, morte e desiderio di rinascere. Un quadro di congedo, un riassunto del passato e un anticipo dell’avvenire: tanto Manet, tanto Degas.

 

Nello studio alto lavoravo sul terrazzo, all’ombra dei tendoni.

La forza della pittura e la sua potenza mi spingevano a un parossismo isterico.

Col solito ritmo fra attività e pausa contemplativa a momenti mi sporgevo dal terrazzo sul piazzale.

La pausa non era per niente contemplativa. Sentivo un comando di buttarmi, la tentazione di aderire definitivamente alla pittura, al mondo, e di sparire nello sfondo.

È la vita, la vita, la vita che ci invita.

 

La realtà mondana, le facce, i corpi, le braccia, le gambe, gli abbracci, lo spazio carnale. Le piante, gli alberi, lo spazio vegetale. Watteau, a Nogent, voleva dipingere paesaggi: li ha dipinti? Ne L’insegna ha dipinto il cagnolino che si spulcia, ripreso da Rubens.

Per Aragon «il soggetto de L’insegna è la pittura moderna». Lui vede ne L’insegna una critica sistematica della pittura e dei pittori che hanno preceduto Watteau.

Il quadro introduce nella bottega dalla strada o dal cortile. All’origine c’era sulla sinistra un carro di fieno poi cancellato. Anche altre cose sono cambiate. La tela rettangolare era centinata: seguiva l’andamento della porta della bottega, che, come le altre botteghe del Pont Nôtre-Dame, poi demolite, che vediamo in un quadro di Hubert Robert, si aprivano ad arco. Per ottenere la dimensione rettangolare sono state tagliate due strisce alle due estremità, e portate nell’alto della composizione, che era divisa in due tele sovrapposte, raccordate a metà in corrispondenza della porta vetrata.

La critica della pittura, che l’ha preceduto, forse è invece un omaggio. Ci sono copie, o meglio d’après: Rubens, Van Dyck, Ruysdael; sulla parete di sinistra della bottega la pittura olandese del Seicento, su quella di destra la pittura chiara e leggera: quella moderna che piace a Gersaint. I quadri appesi al muro de L’insegna raccontano un passaggio del gusto: dal Grand Siècle, liquidato dagli imballatori che mettono in cassa il ritratto del Re Sole, al Settecento leggero, trasparente e amoroso. Caylus, con la critica pignola e surcigliosa, nega a Watteau l’azione, la storia. «Le sue tele non hanno alcun oggetto. Non esprimono l’effetto di nessuna passione e quindi sono sprovviste di uno dei più stimolanti effetti della pittura, cioè l’azione». Secondo Caylus fanno eccezione quattro quadri, di cui uno è L’insegna di Gersaint.

Ma qual è l’azione de L’insegna? È un’azione quotidiana, perfettamente ritmata dai personaggi, nei quali i critici si divertono a riconoscere i modelli reali.

Gersaint ha detto che Watteau ha dipinto tutto dal vero, dunque il gioco dei riconoscimenti è aperto. Ma, dipinto dal vero, vuol dire che Watteau ha fatto un’opera originale, non un lavoro da copista.

L’«avidità» di Watteau è un desiderio di reale. Basta con gli spazi sognati e le allusività poetiche, adesso la realtà vince. Forse, se potessimo fare un po’ di biografismo che la segretezza di Watteau scoraggia, la realtà entra col corpo offerto della belle servante.

La realtà, il realismo. Sono cresciuto in un tempo in cui la realtà e il realismo dovevano indicare un’appartenenza matura, virile e politica al mondo. Per certi miei professori negli anni dell’università ogni ricerca di bellezza poetica era considerata un soprammondo, le Grazie di Foscolo, Il viaggio a Citera di Watteau.

Adesso il sognante adolescente è diventato un uomo: L’insegna di Gersaint è una cosa seria.

Ma ogni più modesto scampolo di realtà, soprattutto se non piegato a nessun discorso, può contenere un desiderio di totalità, lo stesso che un itinerario poetico raggiunge.

Anche io mi sono dibattuto a lungo fra l’evocazione e la realtà. Adesso anche in me la realtà preme, alla fine del mio tempo. Forse, di là dal principio di piacere, la morte può contenere chissà quale apertura.

Un compagno segreto si nasconde in queste pagine: Ernst Bloch, il campione del pensiero utopico. Il Principio Speranza, (Das Princip Hoffnung), l’avvicinamento a Citera è il moto umano per eccellenza.

Come l’incantamento retrospettivo per le ere felici, le età dell’oro – che mi hanno sollecitato a lungo – lo Spirito dell’Utopia percorre il tempo storico all’indietro, verso un tempo mitico, o, in avanti, verso un tempo mitico altrettanto.

Certe volte Bloch lo vuole scorgere nelle realizzazioni del socialismo reale. Poi lascia la DDR e torna in Occidente.

Io nutro un po’ di delusione quando penso che l’approdo alla pienezza felice può essere affidato solo alle figure dipinte.

In certi momenti «eroici» del maggio ’68 a Parigi, qualche rivoluzionario più rispettoso e attento è riuscito a impedire che altri sbiancasse a calce l’affresco di Puvis de Chavannes nell’aula magna della Sorbonne. Quelli volevano sostituire all’immagine della vita felice rappresentata la sua realtà storica.

Quanto alla delusione di confinarsi nel simbolo, o meglio nella metafora, penso che la nostra vita stessa, la sua naturalezza, è metaforica.

 

L’insegna restò quindici giorni esposta a segnalare la bottega di Gersaint, ammirata da tutti, poi fu acquistata da Julienne, l’amico del cuore, e, dopo varie vicende collezionistiche, diventò proprietà di Federico II e collocata nel castello di Charlottenburg, dove sta ancora. Sul lato destro del quadro sono visibili le tracce delle sciabolate austriache ricevute durante un attacco.

Il 9 febbraio del 1721 Rosalba Carriera annota nel suo diario di aver fatto visita a Watteau; il 21 scrive di aver incominciato un suo ritratto per conto di Crozat. Forse il ritratto è quello che si trova nel Museo di Treviso.

Nello stesso febbraio il «Mercure de France», giornale diretto dall’amico de La Roque, scrive che Watot (strana grafia, soprattutto da parte di un amico), insieme con Natier «et un autre» ha ricevuto da Crozat l’incarico di copiare in disegno i quadri di proprietà del Re e del Reggente in vista di riprodurli in incisione.

Sembra che Watteau non ne faccia niente: è molto malato.

Un canonico amico, Haranger, gli procura un rifugio a Nogent-sur-Marne, in casa di Philippe Le Fèvre, un intendente dei Menus plaisirs du Roi. Watteau vi si trasferisce dopo il 3 maggio, ma prima aveva già fatto soggiorni a Nogent.

In una lettera a Julienne, proprio del 3 maggio, parla di quei soggiorni e dei paesaggi che ha dipinto. I paesaggi non li conosciamo.

Il rifugio in campagna si raddoppia nel paesaggio, acquista un’intimità più grande.

Dopo lo sforzo de L’insegna, Watteau vuole uscire dagli spazi chiusi, dalla bottega di Gersaint, da Parigi. Ha fame di verde.

Credo che l’immersione nel verde sia per lui un vero richiamo, il rifugio ultimo nella naturalezza più grande. Sente anche altri richiami del grembo materno: vuole tornare a Valenciennes.

Dice che vuole dipingere paesaggi. Noi possiamo immaginare la pittura che Watteau avrebbe saputo inventare, quella verde naturalezza che verrà più tardi con Corot, dopo aver inventato il Settecento delle grazie amorose e dell’infinito desiderio.

Fa un’altra cosa: riceve Pater come allievo, dopo averlo rifiutato a suo tempo. Vuole riconciliarsi con tutti come fanno i morenti.

Vuole anche lasciare una memoria vivente della sua maestria. Molti Watteau che circolavano nel Settecento sono in realtà dei Pater: il dubbio continua.

Poi dipinge un crocifisso per don Carreau, parroco di Nogent. Il crocifisso è scomparso.

Il parroco lo convince a bruciare le sue nuditées.

Il 18 luglio 1721 Watteau muore fra le braccia di Gersaint. Ha trentasette anni.

Addio.

 

Da Il santo e il pittore

 

Dunque, dice Annelisa che ha ascoltato il mio racconto, tu hai presentato i tuoi personaggi con le vicissitudini di entrambi, e il legame che unisce l’uno all’altro, di là dalle differenze operative. Uno che tu chiami santo come fosse una professione, come quella dell’altro, del pittore…

Ma sì, le dico, l’occupazione in cui trascorre la vita di Filippo possiamo assomigliarla alla scelta di una professione. Lui è santo come Barocci è pittore. Quello che mi interessa è capire se qualcosa unisce le due scelte di vita. Ma mentre dico scelta, mi accorgo di trascurare proprio ciò che unisce l’attività dei due e che la rende lontana da un lavoro ordinario: la vocazione.

Sicuro, dice lei, la vocazione non ha niente a che fare con la scelta. Uno non si decide a diventare santo: è vocato alla santità come un pittore, presumibilmente, è chiamato a dedicarsi alla pittura.

Ecco, infatti, la cosa che avvicina un santo a un pittore: la chiamata. Ma, aggiunge lei, noi ci avventuriamo, qui e adesso, in un territorio desertificato: è una consapevolezza giornalistica che le chiamate sono state erose dalla crisi delle vocazioni.

Sì, adesso, dico io, ci avviene spesso nelle situazioni rituali, a Pasqua per esempio, di vedere che passano la porta di casa nostra estranei sacerdoti di estranei luoghi. Forse si potrebbe indagare se, insieme alla scomparsa dei sacerdoti con il loro aspetto modellato dai secoli, è scomparso anche l’aspetto del pittore. Sai, mi ricordo che Dieter, il pittore amico di cui solo ora ho saputo che è morto, giudicava l’eccellenza di un artista proprio dal suo aspetto, dai tratti del volto e dall’espressione.

Sì, dice lei, è proprio un espediente da pittore: è l’anima che appare in un visibile assoluto, senza nascondimento o mascheratura.

La mascherata, dico io, adesso invece è condizione obbligata per dichiararsi artista. Ma non voglio sembrar rivendicare non so quale purezza originaria a cui tornare. Non dobbiamo tornare alla purezza, ma trascendere, invece, l’occasione artistica, proprio per arrivare alla sperata perfezione, e questo è lo stesso cammino dei santi.

Sono d’accordo, anzi mi piace, dice lei, questo tuo elevare quel che facciamo, insomma quelle cose che riusciamo a tradurre dal silenzio, le mie poesie e le tue pitture, sopra la produzione ordinaria.

Certo che non si tratta di ordinaria produzione. Chi parla di produrre nel caso di un artista? È formare una cosa che niente ha a che fare con oggetti prodotti, a cominciare dalla mancanza d’uso; non sappiamo che farcene di quello che mettiamo in forma…

Certo, dice lei, è quello che si chiama la perfetta autosufficienza delle opere, o, se preferisci, la loro perfetta inutilità. Quello che facciamo, a dire il vero, non serve a nessuno. Sì, un quadro o una poesia non sono indicazioni per l’agire, come i segnali stradali o i bugiardini nella scatola dei medicinali.

Ma questo lo sappiamo, lei continua, e il renderci conto della cosa ci ha sempre provocato problemi.

Sì, la gente spesso non capisce come qualcuno possa baloccarsi con una cosa che non serve a niente, ma se l’utilità di questa cosa possono giudicarla dal successo economico, allora l’opinione della gente è disposta a cambiare.

Adesso, dice lei, il criterio per dar valore a un’opera è soltanto il prezzo attribuito: quanto costa.

Veramente, dico io, questa riduzione dell’arte all’economico ci sembra contraddirne il destino: l’assoluta gratuità. Mi ricordo una nota nel diario di Klee: il suo stupore di potersi conquistare il modo di mantenere sé, la moglie e il figlio con quello che riusciva a rappresentare sulle tele. Ma, adesso, noi evitiamo quel che, a mio parere, è il più importante: non il prodotto, ma la produzione. Dovremmo interrogarci sulla scelta, o, ancora meglio, sulla vocazione che conduce qualcuno sul cammino dell’arte, e qualcun altro su quello della santità. Vedi che torniamo ai miei due personaggi…

Annelisa: abbiamo definito pressappoco i tratti paralleli dell’artista e del santo, essi sono, come sembra, la gratuità e anche la mancanza di scopo. Il tuo Filippo, a quanto pare, non voleva fondare proprio niente, e la sua Fondazione, l’Oratorio, è una creatura della sua vita. Una vita esemplare ha prodotto un’esemplare istituzione, senza che lui volesse istituire niente. Si voleva tenere anche lontano dalla sovrana istituzione della Chiesa. Diceva di partecipare per forza di obbedienza. Anche noi artisti manteniamo un sospetto su quello che si chiama istituzione artistica: ci sembra che tradisca la pura indifferenza che ci muove.

Sì, ma insomma, per stringere il problema, dice Annelisa, che cos’è che muove il santo e il pittore: che pienezza si aspettano alla fine del percorso?

Non lo so dire. Forse è una pienezza propriamente indicibile, l’assurda volontà di unificare in uno tutto quel che è separato, e chiamare questa unione col nome che a ciascuno è familiare e desiderato: felicità.

 

Da Gemelli

 

Adesso vedo Amalasunta, una figura con la faccia massiccia, il collo grosso, in testa qualcosa fra il berretto da casa e un copricapo regale tempestato di pietre, conservata ai Musei Lateranensi. Niente a che fare con la figuretta disarticolata di Osvaldo Licini. Licini dice, a una domanda del critico Marchiori, che Amalassunta è la luna bella, amante dei solitari, che rischiara il cielo leopardiano di Monte Vidon Corrado.

Ci siamo stati a Monte Vidon Corrado, a casa di Licini, qualche anno fa. Quel viaggio aveva il senso di un pellegrinaggio. Era stato rimandato dal tempo dei miei inizi di pittore, quando la pittura era divisa in diversi settori. C’era una pittura figurativa, più o meno collocata nella tradizione del tardo ottocentismo; c’era poi il neorealismo, e c’erano i tentativi di un’arte d’avanguardia che, al momento, era astratta.

Io mi muovevo in mezzo a queste antinomie, cercavo una via che non trascurasse la figura senza piegarla al racconto neorealista e nemmeno negarla nella spiritualizzazione astratta. In questa situazione Licini era uno scampo. Indicava una via diversamente autonoma, lontana dal rigorismo astratto e dal descrittivismo della pittura neorealista rivolto ai fatti primari della vita, opprimenti e muscolari.

Era poi invitante che Licini, pur essendo alternativo al guttusismo ferocemente politico, facesse parte dello stesso schieramento: era comunista e addirittura sindaco del suo paese natale.

Il paese era questo: Monte Vidon Corrado, che io vedevo adesso finalmente, dopo il mio giovanile innamoramento. Infatti io l’amavo, per le cose che ho detto, e anche per l’aspetto che conoscevo dalle fotografie: il viso spirituale e risentito, veramente lunare, a conferma della sua vocazione leopardiana e notturna.

Saltavo volentieri l’intermezzo del rigorismo astratto, che piaceva a Carlo Belli. Io amavo i suoi Angeli ribelli e le Amalassunte. Non ho mai capito perché Licini raddoppiasse la s del nome, forse per avvicinare la regina gota alla celeste Assunta.

Mi viene in mente adesso un collegamento famigliare e paterno, riferito agli angeli. Mio padre dipingeva angeli anche lui, battaglianti o caduti, e gli angeli gli erano presenti anche nella scrittura. Ma quello era un tempo angelico, da Rilke a Cocteau, e aveva senso, proprio in mezzo a quel secolo.

Io pensavo spesso a Licini che, durante le riunioni dell’amministrazione comunale, tracciava i suoi disegni essenziali sulla carta intestata del Comune.

Veramente il mio innamoramento, come spesso succede, aveva avuto un decrescente andamento. Alla fine avevo cominciato a pensare che l’abbreviazione di Licini, in un mondo di forme immaginarie, lo avvicinava a certi altri casi di abbreviazione immaginativa: a Miró o a Cocteau.

Fra i settori che ho nominato, per dare un quadro della situazione della pittura al tempo dei miei inizi, ho trascurato quello dove Licini si sarebbe potuto collocare, e forse era stato collocato: quello di una pittura fantastica, dov’era collocato anche mio padre e altri pittori che sembravano rappresentare un fantastico italiano.

Se facessi quei nomi sentirei di abbassare il valore di mio padre pittore e di Licini. Infatti, loro niente hanno a che fare con Clerici e Leonor Fini. Quei pittori sono dei manieristi, mentre la pittura di mio padre e il Licini delle Amalassunte non accarezza il mondo che descrive, anzi, non lo descrive, ma lo inventa di sana pianta a partire dal mito, che in loro due diventa personale: il mito greco in uno e nell’altro cristiano.

Quando, poi, ho conosciuto tutto l’arco della pittura di Licini, ho scoperto la forza convincente del suo primo periodo, quello figurativo. Sono paesaggi, figure, nature morte. I paesaggi non potrebbero essere più somiglianti al paesaggio marchigiano, che intanto conoscevo. L’andamento lunato delle colline è il terrestre rovesciamento dello spazio celeste navigato da Amalassunta; l’arco falcato delle corna del toro è, anche questo, accordato all’arabesco sinuoso del paesaggio e delle nature morte.

Coglievo una differenza fra mio padre e Licini. Mentre in mio padre la retta trionfa, certe volte a zig zag, con una perentoria volontà affermativa, in Licini è la curva che raccorda tutti gli oggetti e li invita, con un andamento sospeso, nel nulla. Scoprivo, nei quadri giovanili di Licini, la vocazione della pittura, che, nel frattempo, avevo cominciato a considerare veramente essenziale: quella di sparire.