Potenza e impotenza della distopia: due o tre cose su Squid Game – di Alessandro Simoncini

Potenza e impotenza della distopia: due o tre cose su Squid Game – di Alessandro Simoncini

24 Giugno 2023 Off di Mario Pezzella

1. Nella loro introduzione a Squid Game. Società, cultura, rappresentazioni, Simona Castellano e Marco Teti compiono due operazioni meritorie[1]. La prima è quella di sottrarsi, ma solo in prima battuta, al genere del commento. Invece che chiosare i contenuti della famosa serie coreana, citando i lavori di Troy Stangarone, Castellano e Teti ricordano infatti opportunamente la natura di merce cultural-spettacolare di Squid Game sottolineandone il posto di rilievo nel nuovo modo di produzione culturale. I due autori sottolineano infatti che la serie è «l’esempio di massimo successo della strategia» con cui Netflix è riuscita a catturare un pubblico globale investendo in produzioni legate a un ambito locale (facendo leva nel caso specifico sull’effetto nostalgia prodotto dal richiamo ai giochi dell’infanzia)[2]. Specificando che, insieme ad altre produzioni autoctone finanziate da Netflix, nella Corea del Sud Squid Game ha permesso «un notevole incremento del numero di abbonati quantificabile percentualmente in oltre il 120%,», i due autori sostengono che l’obiettivo di Netflix è contemporaneamente quello di «costruire il proprio servizio di sottoscrizione [di un abbonamento mensile] nei [singoli] mercati nazionali stranieri» e quello di usare i contenuti locali attrattivi «per accrescere la richiesta del suo servizio nei mercati di tutto il mondo»[3]. Il secondo merito dell’introduzione di Castellano e Teti è quello di rilanciare un quesito con cui Steven Aoun ha sollevato il rilevante problema teorico intorno a cui ruoteranno le pagine che seguono: Squid Game è «una feroce critica della società capitalistica» e dei suoi peggiori esiti neoliberali oppure è una grande allegoria-parodia degli aspetti «controversi, problematici, persino tragici» della società sudcoreana: della miseria capitalista, cioè, di una società in cui la rabbia crescente e la disperazione che essa suscita vengono convertite in oggetto di consumo e intrattenimento all’interno «del sistema oppressivo del capitalismo globale»[4]? A questa domanda, che nell’introduzione del libro è lasciata aperta, rispondono i contributi di Marco Pedroni e Salvatore Cingari.

Pedroni mostra come in Squid Game il contesto coreano funga da sineddoche del capitalismo globalizzato neoliberale: un capitalismo che spinge i subalterni non solo a riconoscere l’ordine meritocratico come l’unico possibile ma anche «a interiorizzare la propria inutilità come una colpa»[5]. Per Pedroni, cioè, Squid game mostra l’azione pervasiva di una «violenza simbolica» che – per dirla con Pierre Bourdieu – pur restando «invisibile agli stessi oppressi» fa però di loro «un esercito di complici del potere»[6]. O se si vuole un esercito di diseredati che, per sfuggire a una vita di indebitamento e di fallimento considerata peggiore della morte, individuano nel gioco del calamaro – rappresentato nella serie come iperbolica estensione del gioco d’azzardo e della competizione neoliberale – la sola possibilità di riacquistare la «sovranità su se stessi» dentro un universo distopico-totalitario allestito per sodisfare il godimento sadico di un’élite globale: un’élite in cerca di emozioni forti che per godere spinge la competizione e lo spirito del neoliberalismo fino ai suoi esiti più letali[7]. Tuttavia, pur affrontando «i temi della disuguaglianza, del debito, della disperazione», per Pedroni – che qui richiama le tesi di un interessante testo di Brendan O’ Neil – Squid Game non produce una vera critica del capitalismo, essendo piuttosto «una forma espressiva dello stesso capitalismo»[8]. Non solo e non tanto perché la serie coreana «ha determinato un aumento del valore di mercato delle azioni di Netflix di 19 miliardi di dollari», ma soprattutto perché questo paradossale anticapitalismo offrirebbe allo spettatore solo una consolatoria «condanna morale» – in fin dei conti borghese – di alcuni «singoli ripugnanti miliardari», senza fornire una vera «critica dei meccanismi sociali che causano il divario tra dominanti e dominati»[9]. Con la sua meditazione distopica sulla vita offesa – sostiene Pedroni con Luc Boltanski e Eve Chiapello (e con toni adorniani)[10]Squid Game sussumerebbe alla macchina del capitalismo di piattaforma non solo la critica del sistema, ma anche il senso di rivolta che questa stessa critica produce negli spettatori. Squid Game, trasformerebbe questa critica e questo senso di rivolta in «occasione di nuovo consumo e dunque di nutrimento per il sistema»[11]. In altri termini «nel rappresentare la rivolta – scrive Pedroni convocando Mark Fisher – Squid Game la doma», producendo un «anticapitalismo gestuale», e contribuendo così a prevenire «forme di contestazione e mobilitazione collettive estese»[12]. «Spenta la televisione» – continua –, lo spettatore-consumatore può tornare alle sue occupazioni «mentre la miseria rimane»[13]. In fin dei conti la serie coreana offrirebbe una catarsi al consumatore-spettatore, spegnendo in lui l’idea che le cose si cambiano con l’azione collettiva e spingendolo invece a identificarsi con personaggi «buoni» come Seong Gi-hun: il quale, per quanto autentico – conclude Pedroni –, «non si oppone al sistema ma decidendo di giocare ne accetta le regole»[14].

Su questo punto Cingari ha una posizione molto diversa. Scrive infatti che lungo tutto l’arco della vicenda, perfino nei momenti in cui la lotta per la sopravvivenza tra i giocatori si fa più atroce e disperata, «Seong oppone pervicacemente il senso della “cura dell’altro” a quello della “performance competitiva” e al valore di scambio incarnato icasticamente nel montepremi miliardario»[15]. Seong è certamente l’uomo capace di non presentarsi al parto della figlia, ma solo perché nello stesso momento – continua Cingari – «stava accudendo un amico in grave difficoltà»[16]. Seong è infatti capace di «immediata empatia per le sofferenze altrui», oltre che di «capacità di ascolto e cura verso i più deboli»[17]. Insomma per Seong «non esistono soltanto gli individui e le famiglie, secondo la morale di Margaret Thatcher, ma anche gli altri»[18]. Non stupisce quindi che, rinunciando a una nuova vita da vincente a Los Angeles, con i miliardi vinti allo Squid Game Seong decida di assistere le famiglie di alcuni giocatori perdenti e di restare in Corea «per cercare di smascherare i criminali organizzatori del gioco», incarnando così materialmente e antropologicamente la resistenza al capitalismo neoliberale[19]. Contrariamente a Pedroni, quindi, per Cingari Squid Game restituirebbe una critica reale del capitalismo neoliberal-meritocratico e individuerebbe nella «cura» un principio, se non antagonista, almeno alternativo a partire dal quale gli spettatori possono riflettere e destarsi dal torpore della passività neo-spettacolare: magari proprio identificandosi in Seong, «un uomo semplice» – «un ex operaio sconfitto nella lotta per i diritti» – dotato di «una forte e divergente coscienza morale e sociale»[20]. E proprio per questo Seong risulta capace di «condividere subito la sua fortuna, prendendosi cura del fratello di Kang e della madre di Cho»[21]. Insomma Seong come figura del conflitto – della «cura contro la gara», scrive Cingari – e Squid Game come critica espressiva del capitalismo neoliberale: una critica capace di metaforizzare «l’analisi della contemporaneità svolta dal filosofo sudcoerano Byung-Chul Han, secondo cui oggi il sistema esercita lo sfruttamento attraverso la libertà delle persone»[22]. E lo fa in una società della prestazione in cui «chi fallisce – come scrive Han – invece di mettere in dubbio la società o il sistema, ritiene se stesso responsabile, si vergogna del fallimento» e finisce spesso nella depressione[23].

 

2. Tenendo sullo sfondo la «disputa» Cingari-Pedroni, è ora utile prenderne in esame un’altra, che potremmo ricostruire attraverso l’esame delle posizioni di due filosofi influenti come Byung-Chul Han e Slavoj Žižek. In due recenti interviste d’occasione, Han e Žižek hanno dedicato pochi ma densi cenni a Squid Game: cenni che sembrano fornire risposte, anche in questo caso molto diverse, al quesito posto da Castellano e Teti.

Per Han Squid Game è un’allegoria del dominio totale sull’uomo indebitato nella società neoliberale. Il riferimento di Han va ovviamente, ed esplicitamente, a Walter Benjamin per il quale notoriamente il capitalismo «è presumibilmente il primo caso di un culto che non espia il peccato, ma crea colpa/debito»[24]. È un sistema religioso «colpevolizzante/indebitante», cioè, che produce «una coscienza spaventosamente colpevole, che non sa come espiare [e] si afferra al culto – scrive Benjamin –, non per espiare in esso questa colpa/debito ma per renderla universale, per conficcarla a forza nella coscienza»[25]. Secondo il filosofo coreano, Squid Game coglierebbe magistralmente che il capitalismo è prima di tutto una potente religione: un culto sans trêve et sans merci che «ci spinge nel debito» senza possibilità di espiazione[26]. È rappresentando allegoricamente questa condizione che la serie coreana fornirebbe quindi l’immagine del «dominio totale», a cui si arriva – sostiene Han – «quando la società è impegnata solo nel gioco»[27]. Quando cioè, proprio come accade in Squid Game, per gli individui indebitati l’unica speranza di redenzione diventa «giocare a questo gioco mortale che promette loro una vincita enorme»[28]. In questo senso Squid Game metaforizzerebbe anche il modo in cui oggi il capitalismo neoliberal-digitale «sfrutta spietatamente la spinta umana al gioco»[29]: come accade nei social media – continua Han – che «incorporano deliberatamente elementi ludici per causare dipendenza negli utenti» e capovolgono così in assoggettamento totale ciò che «la gente sognava […] agli albori della digitalizzazione»: ossia che «il lavoro sarebbe stato sostituito dal gioco»[30]. Insomma Squid Game come grande metafora critica della religione capitalista, che oggi assumerebbe il volto di un’«infocrazia» dai tratti totalitari capace di trasformare i soggetti in una miniera di dati per il profitto e di intrappolarli in una «caverna digitale» nella quale essi dimorano come individui isolati e storditi, sottoposti per di più a un bombardamento comunicativo senza posa[31]. E tutto ciò grazie alla diffusione capillare dello smartphone: questo «dispositivo di sottomissione» sempre a portata di mano che agisce «come un rosario», con i suoi grani così capaci di garantire la servitù volontaria – conclude Han[32].

Di tutt’altra opinione è Slavoj Žižek. In una video-intervista alla rivista Jacobin, il filosofo sloveno ha sostenuto che in Squid Game «c’è qualcosa di falso»[33]: è apparentemente anticapitalista ma di fatto partecipa a pieno titolo a un’industria culturale postmoderna che – come ha sottolineato il filosofo sudcoreano Alex Taek-Gwang Lee citando Žižek – «vende una critica del capitalismo» consolidando così la sua presa sul mondo[34]. Guardando Squid Game – scrive Žižek – ci troviamo di fronte a una rappresentazione capace di dirci quanto è cattivo il capitale, quanto faccia a pezzi i diseredati che non pagano i loro debiti, quanto a causa sua «siamo tutti indebitati e bla bla bla»[35]. In questo modo – continua il filosofo sloveno – la serie coreana ci fa «sentire meglio con noi stessi» in quanto spettatori illuminati che, «godendo di tutti i cliché» anticapitalisti, possono finalmente sentirsi capaci di decifrare l’arcano di un mondo malvagio[36]. Così facendo però, per Žižek, Squid Game confermerebbe la nostra comoda posizione spettatoriale: una posizione passiva, o meglio «interpassiva», dalla quale possiamo goderci lo spettacolo espressionista di un capitalismo mortifero trasferendo su altri, magari su figure «buone» come quella di Seong, il nostro desiderio di agire per la trasformazione[37]. Nell’interpassività «io posso rimanere passivo, sedere comodamente sullo sfondo, mentre l’Altro agisce per me» – ha scritto altrove Žižek – e pur beandomi dello spettacolo di un anticapitalismo che mi fa sentire attivo, «io sono passivo attraverso l’Altro»[38]. Quindi l’attività che sento in me non è tale, perché – per Žižek – nell’interpassivià «siamo sempre attivi affinchè nulla realmente cambi»[39]. Come l’intero modo di produzione culturale postmoderno, anche Squid Game finirebbe quindi per riprodurre l’esperienza dell’interpassività e per normalizzare il nostro desiderio, sterilizzandone la componente «eccessiva» o rivoluzionaria[40]. E così, grazie alla nostra interpassività spettatoriale, potremmo comodamente continuare a schivare il modo con cui il Reale dell’«oscenità capitalista» si insinua davvero nella nostra vita quotidiana, ricadendo in fin dei conti nostro malgrado in una nuova figura della servitù volontaria[41]. In questo consisterebbe per Žižek il principale «inganno ideologico di un’industria culturale» che, ai tempi del capitalismo di piattaforma, continuerebbe ad alimentarsi producendo in serie «prodotti falsamente anti-establishment e falsamente anticapitalisti»[42]. E che – per dirla con il Mark Fisher lettore di Žižek – promuoverebbe l’esperienza di un «anticapitalismo gestuale» che, come si è già visto, «anziché indebolire il realismo capitalista finisce per rinforzarlo»[43]. Infatti, «fintantoché nel profondo dei nostri cuori continuiamo a credere che il capitalismo è malvagio – scrive Fisher –, siamo liberi di continuare a partecipare agli stessi scambi propri del capitalismo», e di mettere tra parentesi sia il fatto che esso «è una struttura impersonale e iperastratta, sia che questa struttura non esisterebbe senza la nostra cooperazione»[44].

 

3. Dal punto di vista adottato in questo testo, non importa tanto chiedersi se abbiano ragione Han, Žižek, Cingari o Pedroni. C’è del vero e del falso in tutte le loro posizioni. La distopia urticante di Squid Game è certamente capace di sottoporre a critica la logica competitivo-meritocratica del capitalismo neoliberale e i suoi peggiori esiti social-darwinisti. Ma è anche vero che questa critica, prodotta dall’industria culturale di ultima generazione, è proposta a un pubblico di spettatori che la consumano come merce-spettacolo, ed è sussunta alla valorizzazione capitalistica attraverso il lavoro algoritmico delle piattaforme.

Sembra quindi più rilevante chiedersi se il florilegio di distopie che negli ultimi decenni ha affollato il mediascape delle piattaforme, contribuendo a ridisegnare il nostro immaginario, abbia prodotto o meno effetti emancipatori[45]. L’ipotesi, che qui si formula in modo problematico, è che nonostante tutte le buone intenzioni, proprio mentre il capitalismo si affermava su scala globale come l’unico sistema economico e come il modo di vita vincente – avvitandosi simultaneamente nella drammatica policrisi che conosciamo –, queste distopie abbiano contribuito a consolidare una tonalità emotiva da «apocalisse capitalista»: un’apocalisse senza vie di fuga e «senza redenzione (eschaton[46]. In questo senso Roberto Ciccarelli ha sostenuto che, pur contenendo in sé le potenzialità di «un farmaco che cura il corpo politico», serie distopiche come Westworld, Handsmaid’s Tail, Black Mirror e Squid Game «hanno esteso a livello di massa questa attitudine» apocalittica e «hanno reso popolare la previsione di un totalitarismo che trasforma gli esseri umani in sopravvissuti»[47]. Hanno cioè consolidato la sensazione di vivere una «condizione postuma», insieme all’idea che il potere del capitalismo neoliberale avvolge irresistibilmente tutti gli esseri umani con i propri tentacoli. Non è quindi un caso che in queste produzioni, che pure «evocano un’opposizione organizzata contro un potere apparentemente indistruttibile […], l’aspirazione al conflitto resti limitata all’esemplarità di un apologo», e che la liberazione venga rappresentata come un caso d’eccezione che riguarda solo i singoli[48]. Cancellando la possibilità dell’emancipazione collettiva dalla rappresentazione – continua Ciccarelli –, le serie distopiche rischiano di assecondare lo spirito della «rivoluzione passiva neoliberale» secondo cui, con il noto adagio di Frederic Jameson, «è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo»[49]: un capitalismo che è rimasto «solo al mondo» e che, nelle rappresentazioni distopiche, finisce per specchiarsi «nell’incubo della sua stessa implosione»[50]. Così anche serie come Squid Game consoliderebbero «la difficoltà a immaginare e praticare una prospettiva di liberazione», spingendo lo spettatore-consumatore a introiettare l’idea che «non c’è alternativa» – o a identificarsi con qualche singolarità d’eccezione – e generando in lui «impotenza riflessiva»[51].

Se Ciccarelli avesse ragione dovremmo concluderne che queste intelligenti narrazioni distopiche possono forse servirci ad approfondire il racconto del dominio e dello sfruttamento, oltre che a definire ciò da cui occorrerà «difendersi per non precipitare in un futuro infernale»[52] – e qui sta la potenza della distopia –, ma non ad uscire dalla temperie da «fine della storia» in cui come spettatori-consumatori, e come componenti dello sciame che affolla il web, rischiamo di rimanere imbrigliati: e qui sta l’impotenza della distopia. La diffusione di massa del consumo di distopie, mediata dalla potenza del capitalismo digitale, rischia cioè di rafforzare la gabbia del «presentismo» in cui da tempo sembra essere rinchiusa la nostra immaginazione. Come hanno mostrato François Hartog ed Enzo Traverso, il presentismo è un «nuovo regime di storicità, dominato dalla categoria del presente, che va di pari passo con la globalizzazione»[53]: un regime di storicità «emerso negli anni novanta» in cui «un presente dilatato […] assorbe e dissolve in sé sia il passato sia il futuro»[54]. Quest’ultimo «è quasi scomparso dall’orizzonte», o si profila soltanto come «un avvenire soprattutto minaccioso», mentre «un presente incessantemente consumato nell’immediatezza o quasi statico e interminabile» tende a divenire «eterno»[55]. Il presentismo è subentrato al regime di storicità con cui la modernità aveva immaginato il futuro come vettore di cambiamento, di progresso e perfino di rivoluzione. Ora invece il presentismo «si caratterizza come un tempo sospeso tra un passato che non può essere “superato” e un futuro negato; tra un “passato che non vuole passare” e un futuro che non può essere inventato o annunciato se non come catastrofe»[56]. Nel nuovo regime di storicità tutto avviene «come se non vi fosse che il presente, sorta di vasta estensione di acqua che agita un incessante sciabordio»[57]. Al presente ci si riferisce ipertroficamente fino al punto da renderlo «perpetuo, impercettibile, quasi immobile»[58]: in una parola «assoluto e indiscutibile»[59].

Rappresentando in modo potenziato «la negatività del presente», anche se a fini critici, le serie distopiche restituiscono quasi sempre il futuro come «un pericolo mortale» talvolta «proiettato verso l’estinzione» e rischiano così di consolidare il presentismo[60]. Rischiano cioè di alimentare quella «paralisi utopica» che affossa ogni orizzonte di aspettativa e che fa apparire il capitalismo come qualcosa di insuperabile, mentre l’immaginario viene colonizzato dal tema della crisi e della catastrofe prossima ventura[61]. Non è un caso che dal 2008 ad oggi il dispositivo cinematografico e quello della serialità televisiva abbiano raramente tentato di spingere l’immaginazione spettatoriale oltre l’avvinghiante immaginario catastrofistico prodotto dalla policrisi capitalista. Come i pur preziosi movimenti sociali di contestazione al capitalismo globalizzato, il cinema e le serie non sono quasi mai riusciti ad anticipare modi di produrre, vivere e desiderare situati oltre lo spazio di esperienza dominato dal capitale. Non hanno fornito rappresentazioni dell’emancipazione collettiva e non hanno quindi proiettato l’immaginazione spettatoriale verso un nuovo orizzonte di aspettativa. Le distopie servono certamente a decifrare l’esercizio del potere. Contro il «presentismo», però, occorrerebbe dare voce all’impulso utopico verso la liberazione attraverso produzioni capaci di mostrare che il desiderio dei viventi può trovare una strada diversa da quella tracciata dal capitale e che la ricchezza del possibile può sempre essere disincagliata dalla miseria di un presente che vuole farsi eterno. Come ha scritto Jameson, infatti, non è possibile «immaginare un qualsiasi cambiamento fondamentale nella nostra società che non sia dapprima annunciato liberando visioni utopiche come tante scintille dalla coda di una cometa»[62].

 

Note: 

[1] S. Castellano, M. Teti (a cura di), Squid Game. Società, cultura, rappresentazioni, Avanguardia 21, Sermoneta, 2022, pp. 7-21.

[2] Ivi, pp. 9-10.

[3] Ivi, p. 9; T. Stangarone, Netflix’s Bet on Korean Content pays off With Squid Game, in «Diplomat», 14 ottobre 2021, p. 229.

[4] S. Aoun, The rules of the Game. Squid Game as Social allegory, in «Metro Magazine», 211, 2021, pp. 81-89.

[5] M. Pedroni, Meritocrazia, capitalismo, diseguaglianza. La serialità televisiva come strumento di critica sociale?, in S. Castellano, M. Teti (a cura di), Squid Game, cit., p. 39.

[6] Ibidem. Sulla violenza simbolica intesa come «quella forma di violenza che viene esercitata su un agente sociale con la sua complicità», ossia come «forma incorporata del rapporto di dominio» che fa apparire «questo rapporto come naturale», cfr. P. Bourdieu, Il dominio maschile, Feltrinelli, Milano, 1998, p. 45.

[7] M. Pedroni, Meritocrazia, capitalismo, diseguaglianza, cit., p. 40. Sul tema della sovranità il riferimento di Pedroni è a G. Bataille, La sovranità, SE, Milano, 2009.

[8] M. Pedroni, Meritocrazia, capitalismo, diseguaglianza, cit., p. 43. Cfr. B. O’Neill, Squid Game and the problem with anti-capitalism, in «Sp!ked», 22 ottobre 2021, on line. Tesi simili si trovano in F. Newton, Why You’re Watching Squid Game, in «Jacobin», 21 novembre 2021, on line; R. Hadadi, A Game of Marbles Turns Squid Game’s Anti-Capitalist Critique Inside Out, in «Vulture», 7 ottobre 2021, on line; Z. Williams, Squid Game owes its popularity to anxieties of modern life, in «The Guardian», 9 ottobre 2021, on line.

[9] M. Pedroni, Meritocrazia, capitalismo, diseguaglianza, cit., p. 43.

[10] L. Boltanski, E. Chiapello, Le nouvel esprit du capitalisme, Gallimard, Paris, 1999.

[11] M. Pedroni, Meritocrazia, capitalismo, diseguaglianza, cit., p. 44.

[12] Ibidem. Per la categoria di «anticapitalismo gestuale» cfr. M. Fisher, Realismo capitalista, Nero, Roma, 2017, p. 43.

[13] Sembra davvero difficile sostenere che Squid Game possa, di per sé, prevenire forme di contestazione collettiva. Altra cosa è sostenere che, spingendo all’identificazione con personaggi illuminati e isolati come Seong Gi-hun, non favorisca necessariamente un’attitudine critica nello spettatore.

[14] Ibidem.

[15] S. Cingari, Squid game. Ovvero della distopia meritocratica, in S. Castellano, M. Teti (a cura di), Squid Game, cit., p. 29.

[16] Ivi, p. 30.

[17] Ibidem.

[18] Ibidem.

[19] Ibidem.

[20] Ivi, p. 34.

[21] Ibidem.

[22] Ivi, p. 32. Sulla categoria di «critico-espressivo» applicata al cinema, cfr. M. Pezzella, Estetica del cinema, Bologna, Il Mulino, 2010.

[23] S. Cingari, Squid game. Ovvero della distopia meritocratica, cit., p. 32.

[24] W. Benjamin, capitalismo come religione, Il Melangolo, Genova, 2013, p. 43.

[25] Ibidem.

[26] S. C. Fanjul, Byung-Chul Han: «The smartphone is a tool of domination. It acts like a rosary», in «El Pais», 15 ottobre 2021, on line.

[27] Ibidem.

[28] Ibidem.

[29] Ibidem.

[30] Ibidem.

[31] B-C. Han, Infocrazia. Le nostre vite manipolate dalla rete, Torino, Einaudi, 2023, pp. 13 e 77.

[32] S. C. Fanjul, Byung-Chul Han, cit. Per Han lo smartphone è lo strumento tecnologico che aggiorna le forme devozionali della religione capitalista. È un «confessionale digitale». «Il “mi piace” – scrive – è un “amen” digitale. Continuiamo a confessarci. Ci spogliamo per scelta. Ma non chiediamo perdono: al contrario chiediamo attenzione». Cfr. anche B-C. Han, Psicopolitica. Il neoliberalismo e le nuove tecniche del potere, Roma, Nottetempo, 2016, dove lo smartphone è descritto come «l’oggetto devozionale del digitale» attraverso cui il singolo si sottopone a una nuova forma di servitù volontaria. «Mentre clicchiamo like – sottolinea Han – ci sottomettiamo al rapporto di dominio». Riprendendo il parallelo tra capitalismo e religione, Facebook diventa allora per lui «la chiesa, la sinagoga – letteralmente, l’“adunanza” – globale del digitale» (ivi, p. 22).

[33] Jacobin, Slavoj Žižek on Squid Game, Dune, and James Bond, 28 ottobre 2021, on line.

[34] A. Taek-Gwang Lee, The desire of Squid Game, in «The Philosophical Salon», 20 dicembre 2021, on line. Del resto, sostiene Lee, il colosso californiano già produceva e distribuiva The Social Dilemma: «un documentario che critica l’industria dei big data e la stessa Netflix».

[35] Jacobin, Slavoj Žižek on Squid Game, cit.

[36] Ibidem. Per un’interessante analisi di Squid Game in accordo con le tesi di Žižek, cfr. G. Walker, Squid Game: All You Need Is Death, in «Full Stop», 15 dicembre 2021, on line. Secondo Walker la serie coreana ci fa sentire meglio con noi stessi in quanto «parte della classe illuminata che crede nel progresso» e che si gode «segretamente il massacro dei degenerati della low class che non hanno mai pagato i loro conti». Ben lungi dal pensare che dovremmo «organizzarci per la lotta di classe», però, quando scorrono i titoli di coda – sostiene Walker – cerchiamo subito «qualcos’altro da guardare».

[37] A. Taek-Gwang Lee, The desire of Squid Game, cit. Il concetto di interpassività è stato coniato da Robert Pfaller, che per definirlo nel modo più semplice racconta questa storiella: «un uomo va al bar, ordina una birra e la paga. Ma poi chiede a qualcun altro di berla al posto suo. Finita la birra, il nostro eroe lascia soddisfatto il bar» (R. Pfaller, Estetica dell’interpassività, in «Agalma», 7-8, 2004, p. 62. Cfr. Id., Interpassivity: The Aesthetics of Delegated Enjoyment, Edinburgh University Press, Edimburgo, 2017). Il soggetto interpassivo evita quindi il proprio desiderio e lo trasferisce su altri, pensando in questo modo di poter ottenere il godimento. Ma così facendo egli rinuncia alla propria capacità di agire e quindi alla propria libertà (che comporta sempre la responsabilità).

[38] S. Žižek, Leggere Lacan. Guida perversa al vivere contemporaneo, Torino, Bollati Boringhieri, 2009, p. 47.

[39] Id., Chiedere l’impossibile, Verona, Ombre corte, 2013, p. 132.

[40] A. Taek-Gwang Lee, The desire of Squid Game, cit.

[41] Ibidem.

[42] Jacobin, Slavoj Zizek on Squid Game, cit.

[43] M. Fisher, Realismo capitalista, Nero, Roma, 2018, p. 43.

[44] Ivi, pp. 45 e 48. «Il Capitale – continua Fisher – è un parassita astratto, un vampiro insaziabile, uno zombie infetto. Ma la carne viva che trasforma in lavoro morto è la nostra. Gli zombie che contagia siamo noi» (ivi, p. 48).

[45] Al di là della qualità estetica delle serie distopiche, certamente ottima nel caso di Squid Game, il mediascape delle piattaforme che ne rede possibile la visione è «un ecosistema caratterizzato da un insieme di contraddizioni». Si è infatti osservato che esso «sembra paritario ma è gerarchico; è quasi interamente aziendale, ma sembra essere al servizio pubblico; in apparenza è neutrale e disinteressato, ma la sua architettura contiene uno specifico insieme di principi ideologici; le sue ricadute appaiono locali, mentre la sua portata e il suo impatto sono globali; sembra sostituire alle logiche “top down” e alla forte presenza dello Stato le logiche “bottom-up” e l’empowerment dei consumatori, ma lo fa tramite una struttura altamente centralizzata che rimane opaca ai suoi utenti». J. Van Dijck J, T. Poell, M. de Waal, Platform society. Valori pubblici e società connessa, Milano, Guerini, 2019, p. 45.

[46] R. Ciccarelli, Una vita liberata. Oltre l’apocalisse capitalista, Roma, Deriveapprodi, 2022, p. 68. Il termine «policrisi» è utilizzato per la prima volta in E. Morin, A. B. Kern, Homeland Earth: A Manifesto for the New Millenium, Hampton Press, London, 1999.

[47] Ivi, p. 289.

[48] Ibidem.

[49] F. Jameson, Future City, in «The New Left Review», 21, 2003, on line. Ma recentemente Jameson ha puntualizzato così: «quando ho detto che è più difficile immaginare la fine del capitalismo che la fine del mondo, non volevo certo intendere che fosse impossibile». F. Jameson, Prefazione, in M. Gatto, Fredric Jameson, Roma, Futura edizioni, 2022, p, 12,

[50] Lo sostiene Francesco Muzzioli in un intervista sul suo libro Scritture della catastrofe. Istruzioni e ragguagli per un viaggio nelle distopie, Meltemi, Milano, 2021, reperibile in https://www.letture.org/scritture-della-catastrofe-istruzioni-e-ragguagli-per-un-viaggio-nelle-distopie-francesco-muzzioli.

[51] R. Ciccarelli, Una vita liberata, cit., p. 289. Sull’impotenza riflessiva nel tardo capitalismo, cfr. M. Fisher, Realismo capitalista, cit., pp. 58-73.

[52] D. Palano, Introduzione. Per una mappa degli immaginari distopici nel XXI secolo, Polidemos, Milano, 2022, p. 31.

[53] F. Hartog, Tempi del mondo, storia e storiografia, in «Novecento», 13, 2005, p. 150.

[54] E. Traverso, Malinconia di sinistra. Una tradizione nascosta, Milano, Feltrinelli, 2016, p. 21. In questo senso – scrive Traverso – «il presentismo ha una doppia dimensione. Da un lato, è il passato reificato da un’industria culturale che distrugge ogni esperienza tramandata; dall’altro, è il futuro abolito dal tempo del neoliberismo: non la “tirannia dell’orologio” […], ma la dittatura della finanza, un tempo di accelerazione permanente […] senza “struttura prognostica”».

[55] Id., Regimi di storicità, cit., p. 57.

[56] E. Traverso, Malinconia di sinistra, cit., p. 21. La disillusione seguita allo scacco delle rivoluzioni del ‘900 – secondo Traverso – ha determinato una condizione in cui «la speranza nel futuro è stata abbandonata a favore di un eterno presente» (ibidem). Questa tesi fa da sfondo anche a Id., Rivoluzione 1789-1989: un’altra storia, Feltrinelli, Milano, 2021.

[57] Ivi, p. 58. Sul punto cfr. L. Scuccimarra, Modernizzazione come temporalizzazione. Storia dei concetti e mutamento epocale nella riflessione di Reinhart Koselleck, in «Scienza&politica», 56, 2016, p. 110. Scuccimarra osserva come per Hartog, «venuto meno il ruolo centrale che il futuro aveva giocato nell’ordine temporale della modernità», nel presentismo contemporaneo sembra «essere scomparsa la possibilità stessa di pensare il mutamento, l’apertura progettuale, cioè, a forme di organizzazione alternative al modello dominante». In tale contesto – continua Scuccimarra – «l’unica dimensione di innovazione ancora ammessa riguarda l’amministrazione dell’esistente, in conformità a quell’imperativo di modernizzazione permanente che troviamo variamente declinato nell’ideologia delle società tardo-capitalistiche». Per una stimolante analisi della temporalità neoliberale intesa come «presentismo circolare», o come eterno ritorno dell’uguale che fa da sfondo ai processi del comando e della valorizzazione capitalistica, cfr., F. Milanesi, Il tempo inquieto. Per un uso politico della temporalità, Ombre corte, Verona, 2023, pp. 90-131.

[58] F. Hartog, Regimi di storicità. Presentismo e esperienze del tempo, Sellerio, Palermo, 2003, p. 57.

[59] M. Ricciardi, Il presente assoluto. Macchine, rivoluzioni e algoritmi, in Into the black box (a cura di), Capitalismo 4.0. Genealogia della rivoluzione digitale, Meltemi, Milano, 2021, p. 110, dove la categoria di presentismo è analizzata con riferimento agli effetti prodotti sul nostro regime di temporalità dagli effetti della «quarta rivoluzione industriale» e della razionalità algoritmica.

[60] R. Ciccarelli, Una vita liberata, p. 289. Secondo Fisher c’è stato un momento, prima della svolta presentista, in cui «i film e i romanzi distopici erano esercizi di immaginazione in cui i disastri agivano come pretesto narrativo per l’emersione di modi di vivere nuovi e differenti». M. Fisher, Realismo capitalista, cit. p. 26.

[61] G. Battiston, Enzo Traverso, la rivoluzione, il neoliberalismo autoritario e la nuova sinistra, in «Lettera22», 4 gennaio, 2023, on line.

[62] F. Jameson, Il desiderio chiamato utopia, Feltrinelli, Milano, 2007, p. 11. Cfr anche il recente Id., Il senso dei futuri possibili, in «Jacobin Italia», 25 Gennaio 2023, on line. Sull’utopia in Jameson, in prima battuta cfr. M. Gatto, Fredric Jameson, cit. pp. 125-134.