«I am not what I am». Note sul male e il falso – Alessandro Settimo

«I am not what I am». Note sul male e il falso – Alessandro Settimo

5 Maggio 2023 Off di Francesco Biagi

 

I

 

«Oggigiorno il falso non è forse così evidente, così onnipresente, che ciò che è vero si trasforma tanto più in un’apparenza, in un’apparenza sconvolgente?»

(P. Handke, Di notte, davanti alla parete con l’ombra degli alberi).

 

I.1. Poche sono le figure che, al pari dello Jago shakespeariano, consentono di delucidare gli infrangibili intrecci tra falsità e malvagità. Jago è il malvagio – e falsario – per antonomasia. La più riuscita concrezione figurata del male. Negatività incontrastata. Apsicologica incarnazione del Maligno. Jago non ha infatti punto ragioni di odiare Otello, benché si stilli il cervello per reperirne, quali che esse siano. L’«inferno (hell)», la «notte (night[1] sono l’elemento dell’alfiere di Otello. Victor Hugo non si peritò di sostenere che Othello «è la notte (c’est la nuit[2]. Notte in cui domina l’irrealtà, nonché una allucinata logicità. Coincidente al fondo colla ragna, colla «ragnatela sottile (as little a web[3], coll’intessuta «rete (net[4], cui la pericolosa intelligenza, tutt’al servizio del negativo, che Jago personifica, inevitabilmente mena.

 

I.2. Se Jago, con la sua «intelligenza e l’aiuto di tutti i diavoli dell’inferno (my wits and all the tribe of hell[5], è malvagio ‒ e lo è proprio perché latore della falsità, intenzionalmente ordita – allora Otello, in certo senso, è stupido perché assassino. Senso che Sándor Márai una volta ha così compendiato, e magistralmente: «Dirò che tutto sommato gli uomini, quando sono “malvagi”, sono meno pericolosi di quando sono stupidi. E di uomini stupidi ce ne sono tantissimi»[6]. Othello è la messa in scena del fastoso sposalizio tra malvagità e stupidità. Tra Jago e Otello. Sì che esso, cioè Othello, non è meno pièce di Jago che di Shakespeare. Il feroce marito di Emilia, l’amico di Roderigo, l’intrigante soccorritore di Cassio, in breve Jago, oltre che sagace «critico (critic[7], è finanche regista. Sottile direttore d’orchestra. Il plot, l’ordisce lui. Fa le veci di Shakespeare. Ne è un alter ego. Da quest’angolo visuale, Jago sarebbe addirittura un esemplare caso, pioneristico o tardivo, di quella platonica «teatrocrazia»[8] che – dell’Occidente – appare essere strisciante, letale essenza.

 

I.3. Jago, teatrocratico pioniere. E lo è tanto più nell’istante in cui si rifletta non solo allo Jago di Shakespeare, ma sinanco a quello di Verdi e Boito. Lo Jago nichilista. Lo Jago di Credo in un Dio crudel. Jago luogotenente del nulla, nato dalla viltà d’un germe o d’un atòmo, scellerato poiché uomo, consapevole del fango originale e delle vane fole cui la massa damnationis – l’umanità – stolidamente indulge, propaga il male. Lo opera tramite il falso. Imbastisce una delle innumerevoli sembianze di quello pseudós che, in Othello, si pretende vero. Più vero perfino della verità medesima. Insino all’esito ultimo d’ogni falsità: l’omicidio di Desdemona. L’unica innocente del dramma. Stritolata dai due estremi – in vero complementari – tra i quali corre fatalmente la spola della tragedia shakespeariana: Scilla Jago e Cariddi Otello. La doppiezza e l’ottusità. «Io non sono quello che sembro (I am not what I am[9], sussurra infido, serpentino Jago. «Gli uomini dovrebbero essere come sembrano (man should be what they seem[10], sospira scorato e irretito Otello. Del quale dirà Jago, sardonicamente, a Lodovico: «È quello che è (He’s what he is[11]. Jago trasfigura l’Othello in una macroscopica farsa, una lugubre carnevalata, una tronfia falsità che ostenta fattezze veritiere. Falsità totale. Ove la verità è epifenomenicamente «ridotta a un momento nel movimento del falso»[12], benché proprio traverso essa «i più neri peccati (the blackest sins)» siano rivestiti «di apparenze celesti (with heavenly shows[13].

 

I.4. Il falso – prima radice, cellula originaria del male – è anzitutto un esperire immersivo. Congegnato (Jago) o subìto (Otello). Un esperimentare la contraffazione del mondo, gnosticamente inesfuggibile. Gnosticamente inesfuggibile. È difatti, quello gnostico, l’unico punto prospettico da cui autenticamente giovi guardare – estraniandosene – al mondo. Giovamento che è qui sinonimo di quell’elusione delle Forze o Potenze mondane del Male e del Falso, in quest’esoterico – ma oltremisura concreto – lógion sunteggiabile: uscite dal mondo.

 

I.5. Il temperamento gnostico, sì come lo gnosticismo storico, non si sa donde provenga, donde sia diretto. È leggero zeffiro che soffia incatturabile; commistione di indecifrate discendenze; rifiuto intransigente, ma accorto, del mondo. Del male, del falso. Lo gnostico non ama essere riconosciuto. «Non fornisce documenti. Coltiva l’anonimato»[14]. L’invincibile disaderenza a questa géena o machina machinorum che usiamo chiamare: mondo – il quale non è altro «se non una trappola»[15], un lugubre «compartimento stagno»[16] cui sottrarsi (phygé cui già sollecitava Platone) – nello gnostico conduce il più sovente a un cosmopolitico, amorale (di là, di qua del bene e del male) straniamento.

 

I.6. Di così fatto sentire, per dirne una, crediamo avesse cognizione un poeta della levatura di Sergio Solmi. Nella cui opera, tanto poetica che prosastica, la ritornante presenza della manicheistica machina mundi pare almeno ossessiva. Se in La vita sbaglia i tempi, i modi s’ode lo stridìo della «antica / macchina di dolore»[17], e in Sopra un mio vecchio tema e Dal balcone, rispettivamente, si discorre di una «macchina / ronzante che procede e queta oscilla»[18] e di un «duro quaderno di spazio / e di tempo»[19], in Scrittori negli anni ci s’imbatte in locuzioni altrettanto insondabilmente gnostiche del tipo: «prigione terrestre», «mostruosa macchina cosmica», «meccanica necessità»[20]. Locuzioni trapunte, verisimilmente, di allusioni che vanno da The Time Machine di H.G. Wells all’«uccello preso nel paretaio»[21] di Satura. Dal manicheismo alle speculazioni sull’arte egizia di Jules Laforgue. Arte il cui «principio era l’incubo della morte in questa vita, il folle bisogno di scongiurarla: allora: questa lotta sublime contro la morte: imbalsamazioni, piramidi, destinate a nascondere mummie, ipogei e labirinti (principe était le cauchemar de la mort dans cette vie, le besoin fou de la conjurer: alors: cette lotte sublime contre la mort: embaument, pyramides, destinés à cacher les momies, hypogées et labyrinthes[22].

 

I.7. La lotta dello gnostico è tale «lotta sublime contro la morte». È, chioserebbe Spinoza, «meditazione della vita»[23], non già della morte. Ergo del male, del falso. Costituenti infinitesimali, stoicheía del cosmo, della realtà. La realtà: brulla valle di lacrime recinta da sublunari arconti. Di tra i quali, è senz’altro Jago. Egli non è, in fondo, che un funesto demiurgo. Un sofista della platonica caverna. (Otello è uno dei cavernicoli). Un membro di quella «banda di demoni gnostici (company of Gnostic demons[24] che asfitticamente gremisce le distopie kafkiane. Le quali giustappunto si rivelano nient’altro che maldigeriti impasti di assurdità falsità malvagità: vergogna.

 

I.8. Si ponga per esempio mente a Der Prozess. Allorché «intorno alla gola di K. si posarono le mani di uno degli uomini, mentre l’altro gli immergeva il coltello fino al cuore e lo girava due volte»[25], allorché cioè K. viene per dir così strangolato dal falso e accoltellato dal male, ecco che vediamo i suoi morituri occhi volgersi ai detti assassini, esattamente come l’uomo di campagna della parabola sulla Porta della Legge interpella moribondo il Guardiano che gli interdice il passaggio. In quel preciso istante, l’istante dell’accoltellamento e strangolamento di K., forse con un sussurro, forse con cinica amarezza, forse con rabbia, udiamo siffatte parole sortire dalle strette, ritorte labbra del protagonista: «Come un cane!». K. muore come un cane. «Ed era come se la vergogna dovesse sopravvivergli»[26].

 

I.9. Peculiare vergogna, cotesta kafkiana. Consimile a quella «più vasta»[27] vergogna che travolgerà Primo Levi anni più tardi (non molti). E che così possiamo definire: vergogna di essere uomini. Vergogna che – compresero bene Gilles Deleuze e Félix Guattari – non si percepisce soltanto nelle situazioni estreme, come quelle di Levi o Antelme, ma finanche nel dettaglio più insignificante di quell’ordinaria esistenza, bassa e volgare, triviale e orrida, indissociabile dalle nostre – presunte, presuntuose – democrazie occidentali. Dalla propagazione insolente, massmediatica di valori, ideali, opinioni che sono in vero camuffati disvalori, incubi, cagneschi guaiti. «L’ignominia delle possibilità di vita che ci sono offerte appare dall’interno (L’ignominie des possibilités de vie qui nous sont offertes apparaît du dedans[28].

 

I.10. All’epoca, all’eone, non si può sfuggire. Con esso, non cessiamo di comprometterci. E la «vergogna di aver accettato compromessi», la leviana zona grigia, ci ha letteralmente «insudiciati»[29]. Oramai l’intollerabile «non è più un’ingiustizia eclatante, ma lo stato permanente della banalità quotidiana (n’est plus une injustice majeure, mais l’état permanent d’une banalité quotidienne[30]. Non di meno, è proprio cotesto sentimento dell’Intollerabile, cotesta vergogna dell’Impero incrollabile del Falso e del Male, lo stimolo più potente alla filosofia. O più generalmente alla scrittura. Suprema bardatura dell’anonimia – anomia – gnostica. «La vergogna di essere uomini, c’è forse una ragione migliore per scrivere? (La honte d’être un homme, y a-t-il une meilleure raison d’écrire?[31].

 

I.11. Vergogna, potenza della scrittura, financo ontogenesi ‒ se ha ragione Deleuze a discernere una «vergogna più profonda che viene da altrove, consustanziale all’essere (honte plus profonde venue d’ailleurs, consubstancielle à l’être[32] ‒ si coappartengono e convergono nell’arcigno reame dell’ingiustizia. Per lo più impensato, giacché insostenibile. E pure, pensarlo, questo tetro reame, equivale – suggeriva Michel Alexandre ‒ al «solo mezzo di superare la vergogna (seul moyen de surmonter la honte[33]. Confrontarsi senza posa colla catastrofe, provandosi in qual si voglia attacco e difesa, per quanto soverchiamente inefficaci, è il solo modo «per non morire di vergogna»[34]. Per serbare una difficile e sempre insidiata libertà nelle ganasce, vieppiù irrigidite, di quel platonico «bestione»[35] ‒ la Società ‒ che mai ha fine. Scriveva Stig Dagerman: «Il mondo è dunque più forte di me. Al suo potere non ho altro da opporre che me stesso – il che, d’altra parte, non è poco. Finché infatti non mi lascio sopraffare, sono anch’io una potenza. E la mia potenza è temibile finché ho il potere delle mie parole da opporre a quello del mondo, perché chi costruisce prigioni si esprime meno bene di chi costruisce la libertà. Ma la mia potenza sarà illimitata il giorno in cui avrò solo il mio silenzio per difendere la mia inviolabilità, perché non esiste ascia capace di intaccare un silenzio vivente»[36].

 

I.12. Si torna così al silenzio gnostico dinanzi al Male e il Falso. Dinanzi al «documentario della simulazione globale»[37]. Imbastito dal realismo capitalista. E ammannitoci notte e giorno, senza luogo tempo scampo, a pio titolo pubblicitario. Specchio della mostruosa, stravolta e inesauribile vox populi. La cui melensa sentimentalità, accumulata rancura sociale, ammirazione per la ferocia, incancrenita dabbenaggine e ipocrisia, appronta –  è manifesto – il fertilissimo terreno dell’ininterrottamente rigurgitante Fascismo. «Sacre nozze fra la Stupidità e la Potenza»[38].

 

I.13. Topologico sito – arduo situarlo, è ubiquo – di tali nozze, e sacre, è il carcere. Del quale Giovanni Comisso, scrittore anarchico e inafferrabile, in una lancinante pagina de La mia casa di campagna, confidava non riuscire a capacitarsi, talmente inaudita parendo, agli occhi suoi, cotesta specifica istituzione di homo sapiens. Talmente tracotante sembrandogli l’uomo possa pensare, poetare, lavorare macchiato dall’onta del sussistente, mai tramontante fenomeno della prigionia. «Mi vergognai di appartenere al genere umano»[39]. L’istinto alla carcerazione è tanto «schifoso per l’uomo» da non poter non «arrossirne di vergogna»[40], scrive altrove Comisso. E confermando, in codesta maniera, una sinora non smentita intuizione di Giuseppe Rensi secondo la quale ogni artificiale formazione dello zoón politikón si risolve, al postutto, in orrende intraprese superorganiche che gli uomini, proprio perché fittizie, adergono al disopra di sé, restandone dipoi «inestricabilmente imprigionati»[41]. Ingoiati e incatenati.

 

II

 

«La falsità ha da un punto di vista superiore un lato ancor più brutto di quello comune. Essa è il fondamento di un mondo falso, il fondamento di una inestricabile catena di errori e di complicazioni. La falsità è l’origine di ogni male»

(Novalis, Frammenti).

 

II.1. Ma si rivada a Kafka. Alla parabola sulla Porta della Legge. Fuori di essa è l’intransitorio falso. Dentro, di converso, è supposto esserci il vero. Tuttavia, colui che varca la soglia, colui che accede, non potrà che uccidersi, come Otello. Accecarsi come Edipo. (Penetrare la Porta della Legge significa perpetuarla: ecco in che hanno fallito tutte le rivoluzioni del XX secolo, e oltre). Fuori della Porta si uccide (Otello uccide Desdemona). Dentro la Porta ci si uccide (Otello spira a cospirazione svelata). Sono dunque i cardini che consentono quest’insaziata uccisione – i cardini della Porta – quelli cui vi ha ad appuntare la nostra attenzione.

 

II.2. L’uomo di campagna che al principio ‒ «baldo e giulivo»[42], sì come canta l’Otello verdiano in chiusa all’atto II ‒ addiviene al cospetto della Porta, diventa nell’attesa vecchio. La vista gli si indebolisce e «non sa più se intorno a lui si fa veramente più buio o se sono solo gli occhi a ingannarlo»[43]. Epperò un bagliore risplende nella tenebra giusto nel momento in cui risulta chiaro ch’egli «non vivrà più a lungo, ormai»[44]. È il bagliore dei cardini che, al fine, si chiudono. Se è l’apertura o, per lo meno, l’articolazione dei cardini, discriminante dentro e fuori, che garantisce la «vigenza»[45], invitta, della Legge, allora possiamo ravvisare nel paziente, complicato, gnostico contegno dell’uomo di campagna, sbirciante l’anelata chiusura del portone, una strategia messianica, una sofisticata tecnica di invocazione del Messia. Il quale difatti – Kafka lo aveva compreso – non arriverà all’«ultimo giorno ma all’ultimissimo»[46].

 

II.3. Solo così (adottando cioè la strategia messianica dell’uomo di campagna) la Porta potrà chiudersi e la Legge (la matrice d’ogni male, falsità, vergogna) decadere come vuoto guscio. Ché già ora, in troppi casi davvero, la norma giuridica, e ogni norma, ogni lex, a chi venisse fatto di batterci «sopra le nocche»[47], suonerebbe a vuoto. Tanto più le parole della legge rimangono, nihilistiche, quanto più il loro senso mostruosamente si deforma. Si dilata. Accogliendo sospetti e confusi contenuti. Scriveva, al proposito, un grande saggista e psicanalista del secolo trascorso: «Al declino storico delle istituzioni corrisponde spesso un loro incremento fantasmatico»[48].

 

II.4. L’uomo di campagna è carne da cannone per la Legge. È un moderno Giobbe. Biblica voce in cui si materia, forse, la più inaccettabile denudazione del «fallimento non più sostenibile di ogni ordine mondano»[49]. Di ogni ordine intento cioè a normopaticamente legittimare (inesausta Realpolitik) il malum mundi. D’altra parte, il male, l’interumano freddo, notava acutamente Reiner Schürmann, avviene sempre con inenarrabile passo. Tranciando singolarità, accecando rispetto a esse, «in nome di un fantasma geloso (au nome d’un fantasme jaloux[50] sussumente, disotto sé stesso, tutto ciò che diviene, ogni fenomeno. Il male, per tanto, potremmo dire colle schiette e compendiose parole di Anna Maria Ortese, è gelida derelizione. «L’Inferno è nel meno, invece che nel più, è in un freddo, Lettore, davvero assai orribile»[51]. È Moby Dick. O meglio, è la persecuzione della Balena Bianca. È la persecuzione: America: «Quando dico America, dico una condizione. Potrei dire, anche, Russia di domani. Potrei dire Europa di oggi. Intendo dire vita come mercificazione della vita; trionfo dell’utile; apoteosi dei costi; religione e filosofia dello svuotamento; perdita della vista; Dio imbottigliato: il segreto dei cieli non più formatore di cupole, ma di mercati. Dico mercati. Compra-vendita di ogni splendore. Asservimento di ogni atomo della natura. Espropriazione del carattere. Acquisto in massa delle intelligenze e coscienze»[52].

 

II.5. Ritorniamo ora alla questione vero, falso. La verofalsità logica, come squadernata, a esempio, nel noto apologo kantiano (salveresti o meno il tuo amico se le autorità battessero alla tua porta?) è tale solo perché vi è presupposta l’ingiustizia politica. L’«ingiusta coazione (ungerechter Zwang[53], dice esplicitamente Kant in Über ein vermeintes Recht aus Menschenliebe zu lügen. La quale appunto falsifica i due dilemmatici corni (l’amico, la veracità). Snatura la dicotomia cui Kant si riferisce. L’antinomia kantiana – consegnare l’amico o spergiurare – non è un’anfibologia etica. Bensì un’irrisolvibile polarità politica. È l’ingiustizia – la falsità – la violenza del potere – il male – che scinde, nell’etica, ciò che in essa è inscindibile. Cioè a dire la veracità, l’amicizia, nei termini dell’apologo kantiano. È per tale motivo che, nella Kritik der praktischen Vernunft, Kant asserisce essere l’antipode della «giustizia (Gerechtigkeit)», non già l’ingiustizia: ma la «violenza prevaricatrice (Gewalttätigkeit[54].

 

II.6. Violenza che non è solamente malvagia (livello morale) quant’invece, e soprattutto, puro male (livello politico). Se la malvagità è modo d’essere del soggetto, dell’individuo, il male, per contro, è modalità con cui interagiscono soggetti malvagi, disparati; e sopraffacendo, annichilendo. A segno che esso, il male, non è tanto una sostanza, quanto una relazione. Una intensità, un’attività. Non senza ragione Wittgenstein affermava nel Tractatus logico-philosophicus: «La filosofia non è una dottrina, ma un’attività»[55]. Se la malvagità inerisce alla «struttura della coscienza» del singolo, dell’individuo, il male di converso sarà una «modalità d’espressione»[56] del potere. Sarà la relazionale, perversa interazione tra innumeri singoli, individui.

 

II.7. La medesima differenza intercorrente tra «male» e «malvagità» si può reperire – sub vocem «Fascista», nella frivola, coraggiosa, affollata (gli aggettivi sono di Manganelli) Nuova Enciclopedia di Alberto Savinio – in quella che intercede tra «fascista» e «delinquente». Entrambi sono moralmente, intellettualmente, quasi fisiognomicamente agenti del negativo, dell’ostilità, dell’odio. Sono distruttori di tutto ciò che è positivo. Parrebbero dunque identici. Se non che il secondo è isolato, solitario, e per certuni rispetti fino eroico, mentre il primo è un «delinquente collettivo e ‘sociale’»[57], massivamente aggregato dalla segreta malìa di un simbolo – il fascio (ma altri, oggi, potremmo rinvenirne) – a dispiegare la sua storicamente circostanziata, quantunque eternamente risovveniente e paradigmatica, criminalità.

 

II.8. Verità (alétheia) e falsità non sono, non possono essere termini contraddittori. Sono posizioni esperienziali irreconciliabili. S’escludono mutuamente. Se la verità osasse contraddire la falsità, ne rimarrebbe impelagata, impaniata. Così che – e questo vale anche per l’uomo di campagna del Prozess – non è concepibile altra «linea di fuga o di difesa»[58], per la verità, che il sacrosanto diritto, incessantemente vilipeso o obliato, mai esercitato, mai enumerato nella tronfia lista dei droits de l’homme del secolo decimonono, «di andarsene (de s’en aller[59]. Di andarsene errando. «La verità è un’erranza»[60]. Sono l’errore, l’erranza, infatti, a essere l’antonimo (ma euristico) della verità. La falsità, ne è invece l’Avversario. Si traveste, si maschera da verità. È un errore demente, diabolicamente conscio di sé stesso. È Falsche Bewegung. Annientamento dell’alétheia. Discreta fascinazione che, per tanto, mena sino a riflettere – vertiginosa riflessione – a «quanto strettamente il falso somigli al vero»[61].

 

II.9. Non è probabilmente inutile ricordare, a questo punto, che l’idealismo critico di Hermann Cohen riconosceva perlappunto nel falso «ciò che non è e che tuttavia assume l’apparenza dell’essere»[62]. Ciò che non è vero e che non di meno ne mima le parvenze, imbalsamando la verità in una immodificata ideologia naturalistica, d’ascendenza prettamente cartesiana. Ex contrario, per ciò che tocca la verità, pensiamo alla opposta «storicizzazione»[63] della natura sviluppata, nel medesimo e cartesiano torno di tempo, da Vico nella Scienza nuova. Tanto la natura vichiana evolve muta metamorfizza, quanto quella cartesiana giace inerte, immota. «Natura di cose non è altro che nascimento di esse in certi tempi e con certe guise»[64]. Parimenti, in tanto la verità è cangiante in quanto la falsità (che – camaleontica – fa le mostre di veridicità) è fissa e inscalfibile. Ciò che è vero, è preistorico, sorgivo, potenziale. Ciò che è falso, è storicistico, sorto e costituito, attuale. Il falso trattiene, è catecontico. Il vero libera, è entropico. Quello infierisce, fa morire, come le «centinaia di morti, di scheletri»[65] nel Trionfo della morte di Bruegel. Questo, ricusando e combattendo il morire inflittogli, simultaneamente sa la morte, e la medita. Leopardianamente la fronteggia. Sa che verità è distruzione, estinzione. Ma sa anche che – di contro ai «morti che sono venuti a prendere i vivi»[66] – persiste, insopprimibile, la solidale catena dei «diversi di sempre»[67].

 

II.10. Uno dei quali è, certamente, il Tristano leopardiano. Egli sa: che l’uomo non è nulla, che l’uomo nulla conosce e nulla può sperare. «Filosofia dolorosa, ma vera»[68]. Dolorosa appunto perché vera. Ma se la morte è ineludibile – non così è per il morire. «La morte non è un problema. Il morire invece sì»[69]. La morte, cioè la Natura; il morire, cioè la Storia. Le armi dei morti, infatti, nel quadro di Bruegel, chi le ha forgiate? Nella lotta tra i vivi e i morti, tra gli uomini e la morte, Bruegel non raffigura la cessazione della vita (quando la morte c’è, noi non siamo). Presso che tutti gli uomini sono ancòra vivi, moribondi, renitenti alla morte. Quasi nessuno, ancòra, è morto. Bruegel dipinge per vero il lento morire, l’infierire delle armi  sulla vita, il deterioramento: l’uccisione a grado a grado della vita mentre che ella ancòra è.

 

II.11. Per ciò si deve cominciare, e sempre da capo, dalla fine del Dialogo di Tristano e di un amico. E segnatamente, dai due capisaldi dell’alternativa leopardiana. Da un canto, la gloria e il potere, «la fortuna e la fama»[70] di Cesare e Alessandro. D’altro canto, la pudica, modestissima (ancorché, purché inammissibile) morte individuale: «morir oggi»[71]. Leopardi, Tristano si decidono per quest’ultima. Rompono per sempre «una concezione di accettazione della forza»[72]. Rifiutano il potere, l’imperium. Scelgono l’impotenza, l’annullamento della forza, lo spegnimento della brutalità potestativa, cioè del comando.  Che – in ultima istanza – è sempre capacità di infliggere la morte, di inoculare il morire. Il potere: ecco qual è il carceriere, l’alleato della morte. La morte c’è, il male c’è. La morte è il male assoluto, radicale. Ma è di due tipi: naturale e politico. Il male naturale è la morte, il male politico è la comminazione (repentina o lenta, legale o eslege) del morire (uomo contra uomo). Il morire è il guardiano della cella. La cella, la prigione, è la morte. Nella cella (il male naturale), ci siamo, siamo gettati, deietti ‒ è ineluttabile. Ma il morire (il male politico) – quello no, non è inevitabile. Ci si può schierare coi signori della morte (Cesare, Alessandro), siccome si risolve l’amico di Tristano. Oppure si può decidere di non scendere a patti con costoro (come Tristano). Questo è il nodo di Gordio. Noi siamo nella manzoniana vigna (quella di Renzo). A noi se stare dalla parte della tenebra, della feconda malignità della natura, oppure – se non della luce – almeno dalla parte (altra) di quel «bruno dei crepuscoli, piuttosto grato che molesto»[73], che brevemente rischiarava la «prigione»[74] del Tasso leopardiano, sul far della sera.

 

II.12. Per finire: si è costì detto «morire» il male politico, poiché quest’ultimo può manifestarsi come violenza bruta, o pure come graduale e crudele consumazione. Ovvero: colpo di grazia o tortura. Siamo qui al cospetto della dimensione pratica delle azioni, etiche o politiche, contingenti. A ogni conto: il male politico è un supplemento – evitabilissimo – a quel male naturale che convien chiamare (e già più sopra è stato fatto) «morte». O, con parole di Joseph de Maistre, la «grande legge della distruzione violenta degli esseri viventi»[75]. La grande legge dell’immolazione distruttiva di tutte le creature, afferente alla dimensione ontologica (necessaria) della condizione o stato di tutte le sostanze, forze essenti.

 

III

 

«‒ determinare frane / in un contesto già sotto / posto / sancire l’inevitabile / scadere / non contemplare i fasti / del falso e del ciarpame / in attesa dell’auto / combustione ‒»

(E. De Signoribus, Case perdute).

 

III.1. La verità – affermandolo in modo abrupto, ma inequivocabile – è che tutto è falso. E l’arma critica per sfoderare, disvelare siffatta verità è nientedimeno che il saggio. Lo sapeva Leopardi. Lo sapeva Maistre. Il saggio, la sua musiliana utopia, consiste nell’accelerazione della falsità infino alla sua deflagrazione. Scriveva Adorno in Der Essay als Form: «La non verità in cui il saggio consapevolmente si lascia irretire è l’elemento della sua verità»[76]. Se il falso è informe, amorfo, allora il saggio, la sua forma (di vita), ossia lo stile tout court, non potranno non schiudere, nel soffocante caos arcontico che abitiamo, una tenue lacera semicancellata – verità. Lo stile difatti, giusta il limpido magistero di Sergio Solmi, è «comportamento attivo», «mezzo studiato di esistere»[77], «energia formale»[78] da ricondurre, in vero, a null’altro se non a quell’«aspetto anarchico, indisciplinabile dell’attività estetica»[79] o «stoicismo estetico»[80] che puntualmente si traduce nello spregiudicato «gusto, di dire la verità»[81], in continua contrapposizione, e strenuamente, all’«eterno tetro gioco della storia»[82], alle «oscure cariche sentimentali del gioco assurdo della storia»[83].

 

III.2. Lo stile, ergo, come apriori storico. O, sulla scorta del Kant Naturforscher, come «apriori divenuto ormai storico, plastico, flessibile e financo fallibile»[84]. In singolar tenzone impegnato col planetariamente ubiquitario uomo o «capitalismo flessibile»[85], biopolitico. Lo stile, la letteratura assoluta di cui il saggio è iridescente cristallo – l’abbiamo accennato – sanno essere la loro verità meramente una finzione. (Fingere vale plasmare: plasmabilità stilistica e politica l’una appetto dell’altra). Nel linguaggio («mobile esercito di metafore, metonimie»[86]; «centro irradiante di ogni vita umanamente costituita (milieu irradiant de toute vie humainement consituée[87]) siamo sempre impigliati. Nel linguaggio è sempre involto (lo dimostra Hegel, incontrovertibilmente, nella Phänomenologie) una vis falsante. «L’ago è rovente, la tela è fumo»[88]. Quando si pretende al vero sguarniti della contezza della non verità d’esso, ecco trasparire il decadimento – la falsificazione – del linguaggio. Foriero di quello della società intiera. Scrive Maistre: «Ogni degradazione individuale o nazionale è immediatamente annunciata da una degradazione rigorosamente proporzionale del linguaggio»[89]. Ribadisce Calasso: «La degenerazione del linguaggio è il primo segno della degenerazione del tutto»[90]. Alla degradazione del linguaggio, a «questo piccolo complotto contro la lingua»[91], immancabilmente, consegue l’instaurazione della «canaillocratie»[92]. La metafisica si fa istituzione. La realtà si capovolge in inferno.

 

III.3. Ciò che Italo Calvino aveva presentito laddove – nelle Lezioni americane – ci partecipa il suo orrore avanti l’«epidemia pestilenziale» ammorbante la più caratteristica facoltà antropologica, la più propria – l’uso della parola. Tale «peste del linguaggio»[93], ieri come oggi e presumibilmente (anzi: certamente) domani, si rispecchia nello smarrimento di capacità conoscitive, d’immediatezza percettiva. Catturate in un livellante automatismo formulaico, generico, astratto. Che diluisce significati, smussa asperità espressive, spenge scintille logopoietiche. Il linguaggio siffattamente si sfibra e riduce (deformato) a «strumento di comunicazione e di informazione calcolabile»[94]. La pioggia di parole, nonché immagini, la quale quotidianamente ci infradicia, trasforma il mondo in un dispositivo o macchinario di specchi ustori, sformanti. E svapora – inconsistente – senza traccia alcuna lasciare. L’unico dato permanente è una vaga sensazione d’estraneità. Un indefinito, informe disagio. «Il mio disagio è la perdita di forma che constato nella vita, e a cui cerco d’opporre l’unica difesa che riesco a concepire: la letteratura»[95]. Letteratura: vale a dire un pensiero che, per ristare nel vero, riesca a pensare palpabilmente contro di sé. Un pensiero (per come la dialettica negativa di Adorno) estremamente proclive all’autoriflessione. Con ferocia e incessantemente commisurato all’estremo. Ché quando a esso – all’estremo – non tenda, si disvela, almeno in potenza (presta epperò a precipitarsi in atto), della «stessa marca della musica d’accompagnamento con cui le SS amavano coprire le grida delle vittime»[96].

 

III.4. Non vi è miglior segnacolo di questo – la musica delle SS – a connotare il falso, il male, in cui siamo – ché lo siamo ancora – vergognosamente inviluppati. A connotare il Potere, e il suo destino. Che è poi lo stesso – sempre lo sarà – del Lord Cancelliere Crook di Bleak House. Il quale, integerrimo paladino della Legge (come il Guardiano di Kafka; come Jago), dedito alla propria carica sino all’ultimo e più deplorevole, infimo atto, muore della atroce ma destinale e presumibilmente giusta morte di tutti i Lord Cancellieri in ogni tempo e spazio; la morte di tutti i poteri e tutte le autorità «in cui regna la falsità e si commette l’ingiustizia»[97]; una morte che possiamo chiamare come più ci aggrada, attribuibile a chi riteniamo più opportuno, Satana o Dio, forse evitabile o forse no – si dica quel che si vuole: ma è sempre la stessa morte, quella e non altra, innata, irrevocabilmente prodotta dagli umori corrotti della falsità, dal genoma marcito del male, inconfondibile fra tutte le morti di cui si può morire: l’autocombustione.

 

IV

 

«già vinta giace la filosofia / già si risolve umilmente nel commosso sillabario / della saggistica»

(A. Braibanti, Le prigioni di Stato).

 

IV.1. Dal più remoto tempo dell’autocoscienza giovanile di Ulrich insino – certo, con più turbamento, commozione – alla di lui maturità, sopravvissero nella tormentata interiorità dell’uomo senza qualità, secondo riporta Robert Musil, fluenti immagini mnestiche come gravitanti intorno a questa frase: «vivere ipoteticamente»[98]. A mezzo dell’accrescimento spirituale, intellettuale, tale ipotetico condursi, tale sperimentale idea, ciò nonpertanto, nell’ulrichiano speculare non venne più collegandosi alla «vaga parola “ipotesi” ma, per ragioni precise, con il particolare concetto di “saggio”»[99].

 

IV.2. Il saggio stana il falso immobilismo, insegue l’inarrestabile metamorfosi – non si vede, e pure mai non cessa – del mondo. A essa ipoteticamente, sempre caducamente aderisce, inaderente per definizione. Il cangiante reale è sogguardato – nel saggistico concupire – all’incirca «come nei vari capitoli di un saggio si considera un oggetto da molti lati diversi senza comprenderlo tutto»[100]. Perché un oggetto, se preso e fissato in tutto il suo insieme, smarrisce d’un sùbito il proprio peculiare volume e s’appiattisce a concetto. Omettendo a questo modo l’infinito sistema di connessioni, ammiccanti discontinuità, interdipendenti significati, compendi di potenzialità, che – occultandolo – il vero rivelano.

 

IV.3. Il saggio, nel senso qui cursoriamente illustrato, non può non discordare, per conseguenza, dalla tradizione filosofica occidentale e dai suoi generi di scrittura. Musil: «I filosofi sono dei violenti che non dispongono di un esercito e perciò si impadroniscono del mondo rinchiudendolo in un sistema»[101]. E scriveva Joseph Roth in assonanza con Musil, e più in generale (si pensi soltanto al Lord Chandos di Hofmannsthal), colla temperie tutta della finis Austriae: «La vita sta nei concetti come un bambino cresciuto negli abiti troppo corti. Un’unica ora di vita è fatta di migliaia di inesplicabili impulsi dei nervi, dei muscoli, del cervello, e un’unica, grossa, vuota parola pretende di esprimerli tutti»[102]. Donde che – e lo deduciamo dalle parole di Musil, Roth – in torni d’anni di tirannie e totalitarismi saturi, repentine e magniloquenti alzate di capo, da parte dei così detti filosofi, siano essi manutengoli di scherani ignobili o teneri, zelanti funzionari dell’umanità, sono – e ricorrentemente – apprezzabili. Tracotanti alzate di capo, quelle di cui costì si vien parlando, che Jacques Derrida ebbe taluni anni addietro a chiamare: «tentazioni di Siracusa». A indicare appunto certa segreta colpa, politica colpa, rodente, del filosofo, certo perverso gusto dell’intellettuale per il Potere, per il suo esercizio o manipolazione.

 

IV.4. Aggiungiamo: tentazione – questa di Siracusa – eminentemente platonica. E non meno eminentemente kantiana. Il mito della caverna e il celebre articolo giornalistico Beantwortung der Frage: Was ist Aufklärung? sono, rispettivamente, le due siracusane sindromi che inaugurano – e inaugurando, compromettono – la grecità e la modernità. Perciò sarà opportuno designare tentazione di Siracusa (tentazione – sembrerebbe – consustanziale alla filosofia medesima) qualsiasi esperienza di tipo platonico o illuministico, lumeggiante; qualsiasi pretensione a politicamente consigliare o filosoficamente governare; qualsiasi lesta risposta – per quale che sia causa – alla convocazione ovvero chiamata «da un potente, dall’imperatore, dal sovrano, dal re, dal principe o dal tiranno, dal capo di Stato o dal dittatore, il Duce o il Führer, dal Presidente o dal Segretario generale del partito, di una Causa o di un Sindacato»[103].

 

IV.5. Il saggista proprio a così fatta tentazione si premura di sottrarsi. Aduggiando più che lumeggiando. Resistendo indefessamente a qual si voglia politico – ergo falsante – compromesso. Mai dismettendo i panni corrosivi del parresiasta. E tenacemente fidando in quella etica disposizione che Heinrich Böll nominava «moralità del linguaggio»[104]. Vale a dire la paziente, impietosa verifica del materiale con cui la Storia ci sommerge. In altre parole ancòra: l’impossibilità dell’alalìa, l’incapacità di tacere il vero, di smascherare l’eterno Jago. Il saggio scorda l’accordo della Società. Sia esso esteriore imposto temporaneo, o interiore assunto definitivo. Ché bene e male, financo vero e falso – il saggista lo sa – sono mere questioni di abitudine. Il temporaneo ambisce prolungarsi, l’eccezionale normalizzarsi, l’esterno l’interno compenetrare, e «la maschera, a lungo andare, diventa il volto»[105]. Così che è proprio quale saggista che Ulrich appare divagante, paralizzante, disarmante l’ordine logico, l’univoca volontà. Saggismo non è solo predilezione per la prova, il tentativo brancolante. Non è sbrigativamente riconducibile a un modello letterario. Né manco coincide con provvisorie, accessorie espressioni suscettive, in altre e più congrue sedi, d’ascensione a assertività apodittiche di sorta. Il saggio non è scarto di laboratorio. E al contempo nulla gli è più estraneo di quella mediocrità ideativa che suole chiamarsi soggettività, Io, Ego. Vero, falso, ragionevole e irragionevole sono concetti inapplicabili, alieni al pensare e al periodare saggistici. I quali pensare e periodare, pure tuttavia, son sottoposti a «leggi assai severe»[106], sebbene lievi e inesprimibili, in apparenza.

 

IV.6. Il regno del saggismo – regno di leggi severe quantunque inapparescenti, di affilata precisione sebbene mai rifinita e incontrovertibile, di giusta e inflessibile esattezza quand’anche inevidente – è un regno di forme. Non di Cesari. È immensurabile a quello che il Tentatore (anch’esso siracusano, per dir così) offerse a Gesù, nel deserto. È un regno da cui il diabolico è espunto. Un regno ove (per certuni rispetti, algebricamente) gli oggetti – aggregandosi, disgregandosi – compaiono, traspaiono, disegnano relazioni, traiettorie (sempre nel tempo e nello spazio calate, originate). Un regno consimile – se il paragone è lecito – a un quadro di Cézanne. A una delle innumeri sue visioni della Sainte-Victoire. Sì: il saggio tiene davvero alcunché del magistero cézanniano. Esattamente a misura che esso – il saggio – sia sempre una storia dei fenomeni di cui discorre, un ramificato istoriare o, con parola di Michel Foucault, una archeologia: «Ogni storia è archeologica non per scelta ma per natura: spiegare ed esplicitare la storia significa, in primo luogo, percepirla nella sua interezza, riconducendo i pretesi oggetti naturali alle pratiche datate e rare che li oggettivano, e spiegando quelle pratiche a partire non da un unico motore ma da tutte le pratiche prossime sulle quali si innestano. Un metodo pittorico, questo, che produce strani quadri in cui le relazioni rimpiazzano gli oggetti. Si tratta, senza dubbio, di quadri del mondo che conosciamo: Foucault non fa della pittura astratta più di quanto non la faccia Cézanne»[107].

 

IV.7. Foucault storico, archeologo, cézanniano. Dunque Foucault saggista. D’altronde, anche Martin Heidegger sosteneva il suo cammino di pensiero corrispondesse a quello di Cézanne, dal principio alla fine[108]. E appunto per questa ragione, finanche Heidegger – sopra tutto lui – è da iscrivere nella lista dei grandi saggisti. «Ma non avrebbe scopo elencarli»[109], osserva giustamente Musil. Resta, però, a indelebile sigillo, a incontestabile peculiarità del saggismo, che il loro regno – loro, dei saggisti – pencola fra letteratura e scienza, immagine e concetto, esempio e dottrina, oggetto e relazione, filosofia e poesia. Essi, i saggisti, son santi, sovente irreligiosi. E ancor più spesso, e più semplicemente, «uomini coinvolti in un’avventura»[110]. Sono abitatori di intervalli, interstizi, lacune. Sono intermediari, Ermeti, mediatori. Sospinti, forse, né da oggettività né da soggettività: ma da un’esigenza. Esigenza indeclinabile in termini di pensiero o sentimento, interezza o frammentarietà. Esigenza, secondo che suggerisce Musil, arrecante, come incognito vento, certo messaggio, né vero né falso, ragionevole o sragionevole. Bensì promovente. Quasi che «leggera beata esagerazione»[111] nel cuore del saggista irrompesse, simultaneamente configurandosi come forma (Gestalt) e decisione (Entscheidung). Ecco, giustappunto e riassuntivamente, cos’è il saggio: «Il definitivo e immutabile aspetto (Gestalt) che la vita interiore di una persona assume in un pensiero decisivo (entscheidenden Gedanken[112]. Non falsità, non verità, quindi. Ma saggismo come «“decisione” saggistica»[113]. Come decisione di – in – una forma. Come esigenza di leggera, beata esagerazione.

 

IV.8. E in merito a essa, all’esagerazione, sia costì un’ultima considerazione. In quanto esagerato, il saggio – asserisce la più incresciosa vulgata – si discosterebbe dall’esperire aletheologico; giacché (dicitur) la verità sarebbe piana, rudimentale, semplice. Ricordato, en passant, quanto Nabokov diceva della semplicità – «la dannazione è semplice»[114] – v’ha infine e per soprammercato da rimarcare che siffatto pregiudizio della semplicità della verità presuppone, falsamente, il mondo collimi colla sua acritica presentazione, ostensione, facciata. Che être e paraître combacino, siano indecidibili. Compito genuino del saggio dimodoché sarà il radicale disorientamento, l’esagerato spaesamento, dialettico, della ideologica presupposizione della semplicità del vero, del reale. «Ogni pensiero che sfonda la facciata, la parvenza necessaria, l’ideologia, è sempre esagerato»[115]. Breve: «Solo l’esagerazione è vera»[116]. E lo è tanto più – soggiungiamo, per conchiudere – che la pressione della luciferina falsità il saggista attorniante – contro cui egli in guisa dialettica, e mediata maniera pugna – costringe e incalza, smisuratamente.

 

Note:

[1] W. Shakespeare, Otello, trad. it. di S. Quasimodo, Mondadori, Milano 1992, p. 61 (III, 1).

[2] V. Hugo, William Shakespeare, A. Iacroix, Verboeckhoren et Ce, Éditeurs, Paris 1864, p. 324.

[3] W. Shakespeare, Otello, cit., p. 77 (II, 1).

[4] Ibid., p. 113 (II, 3).

[5] Ibid., p. 57 (I, 3).

[6] S. Márai, L’ultimo dono. Diari 1984-1989, trad. it. di M. D’Alessandro, Adelphi, Milano 2009, pp. 159-160.

[7] W. Shakespeare, Otello, cit., p. 73 (II, 1).

[8] Platone, Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2000, p. 1523 (Leggi, 701a).

[9] W. Shakespeare, Otello, cit., p. 9 (I, 1).

[10] Ibid., p. 133 (III, 3).

[11] Ibid., p. 207 (IV, 1).

[12] G. Agamben, A che punto siamo? L’epidemia come politica, Quodlibet, Macerata 2021, p. 44.

[13] W. Shakespeare, Otello, cit., p. 113 (II, 3).

[14] R. Calasso, Il Cacciatore Celeste, Adelphi, Milano 2016, p. 291.

[15] Ibid., p. 292.

[16] H. Michaux, Altrove. Viaggio in Gran Garabagna, Nel paese della Magia, Qui Poddema, trad. it. di G. Celati e J. Talon, Quodlibet, Macerata 2022, p. 13.

[17] S. Solmi, Opere, vol. I, t. 1: Poesie, meditazioni e ricordi. Poesie e versioni poetiche, a cura di G. Pacchiano, Adelphi, Milano 1983, p. 37.

[18] Ibid., p. 72.

[19] Ibid., p. 77.

[20] S. Solmi, Opere, vol. III, t. 1: La letteratura italiana contemporanea. Scrittori negli anni, Note e recensioni, Ritratti di autori contemporanei, Due interviste, a cura di G. Pacchiano, Adelphi, Milano 1992, pp. 115, 191, 254.

[21] E. Montale, Tutte le poesie, a cura di G. Zampa, Mondadori, Milano 1984, p. 283.

[22] J. Laforgue, Mélanges posthumes, Mercure de France, Paris 1903, p. 163.

[23] B. Spinoza, Etica, trad. it. di S. Landucci, Laterza, Roma-Bari 2009, p. 247 (IV, P67).

[24] E. Heller, The Disinherited Mind. Essays in the Modern German Literature and Thought, Bowes & Bowes, Cambridge 1952, p. 173.

[25] F. Kafka Il processo, trad. it. di G. Zampa, Adelphi, Milano 1973, p. 248.

[26] Loc. cit.

[27] P. Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 1986, p. 66.

[28] G. Deleuze, F. Guattari Qu’est-ce que la philosophie?, Éd. de Minuit, Paris 2005, p. 103.

[29] G. Deleuze, Pourparler (1972-1990), trad. it. di S. Verdicchio, Quodlibet, Macerata 2019, p. 194.

[30] G. Deleuze, Cinéma 2. L’image-temps, Éd. de Minuit, Paris 1985, p. 221.

[31] G. Deleuze, Critique et clinique, Éd. de Minuit, Paris 1993, p. 11.

[32] Ibid., p. 157.

[33] M. Alexandre, Par la pensée, Audin, Lyon 1973, p. 60.

[34] S. Dagerman La politica dell’impossibile, trad. it. di F. Ferrari, Iperborea, Milano 2016, p. 44.

[35] Platone, Tutti gli scritti, cit., p. 1221 (Repubblica, 493c).

[36] S. Dagerman, Il nostro bisogno di consolazione, trad. it. di F. Ferrari, Iperborea, Milano 1991, p. 22.

[37] G. Celati, Avventure in Africa, Feltrinelli, Milano 1998, p. 178.

[38] R. Calasso, Cento lettere a uno sconosciuto, Adelphi, Milano 2003, p. 119.

[39] G. Comisso, La mia casa di campagna, Longanesi, Milano 2008, p. 217.

[40] G. Comisso, Gioventù che muore, La nave di Teseo, Milano 2019, p. 149.

[41] G. Rensi, Lettere spirituali, Adelphi, Milano 1987, p. 230.

[42] G. Verdi, Tutti i libretti, Garzanti, Milano 1975, p. 513.

[43] F. Kafka, Il processo, cit., p. 232.

[44] Ibid., p. 233.

[45] G. Agamben, Homo sacer. La nuda vita e il potere sovrano, Einaudi, Torino 1995, p. 64.

[46] F. Kafka, Lettera al padre. Gli otto quaderni in ottavo. Considerazioni sul peccato, il dolore, la speranza e la vera vita, trad. it. di A. Rho e I.A. Chiusano, Mondadori, Milano 2011, p. 84.

[47] S. Solmi, Opere, vol. V: Letteratura e società. Saggi sul fantastico, La responsabilità della cultura, Scritti di argomento filosofico e politico, a cura di G. Pacchiano, Adelphi, Milano 2000, p. 232.

[48] E. Fachinelli, Il bambino dalle uova d’oro, Adelphi, Milano 2010, p. 318.

[49] S. Quinzio, Commento alla Bibbia, Adelphi, Milano 1991, p. 200.

[50] R. Schürmann, Des hégémonies brisées, T.E.R., Mauvezin 1996, p. 774.

[51] A.M. Ortese, L’Iguana, Adelphi, Milano 1986, p. 95.

[52] A.M. Ortese, Da Moby Dick all’Orsa Bianca. Scritti sulla letteratura e sull’arte, a cura di M. Farnetti, Adelphi, Milano 2011, p. 98.

[53] I. Kant, Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, trad. it. di G. Solari e G. Vidari, a cura di N. Bobbio, L. Firpo, V. Mathieu, Utet, Torino 1965, p. 360.

[54] I. Kant, Critica della ragione pratica, trad. it. di A.M. Marietti, Rizzoli, Milano 1992, p. 245.

[55] L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, a cura di A.G. Conte, Einaudi, Torino 2009, p. 49 (4.112).

[56] S. Forti, Il Grande Inquisitore e il doppio volto del potere, in Il Grande Inquisitore. Attualità e ricezione di una metafora assoluta, a cura di R. Badii e E. Fabbri, Mimesis, Milano-Udine 2013, p. 68.

[57] A. Savinio, Nuova Enciclopedia, Adelphi, Milano 1977, p. 155.

[58] G. Deleuze, F. Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, trad. it. di A. Serra, Quodlibet, Macerata 2021, p. 92.

[59] C. Baudelaire, Œuvres complètes, vol. II, a cura di C. Pichois, Gallimard, Paris 1976, p. 306.

[60] G. Agamben, Quando la casa brucia. Dal dialetto del pensiero, Giometti & Antonello 2020, p. 87.

[61] S. Solmi, Opere, vol. V, cit., p. 162.

[62] A. Poma, I temi fondamentali della «Religione della ragione» di Cohen, in H. Cohen, La religione della ragione dalle fonti dell’ebraismo, trad. it. di P. Fiorato, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1994, p. 15.

[63] E. Auerbach Letteratura mondiale e metodo, trad. it. di V. Ruberl e S. Aglan-Buttazzi, Nottetempo, Milano 2022, p. 182.

[64] G. Vico, Opere, vol. I, a cura di A. Battistini, Mondadori, Milano 1990, p. 500.

[65] E. Canetti, Il frutto del fuoco. Storia di una vita (1921-1931), trad. it. di A. Casalegno e R. Colorni, Adelphi, Milano 1982, p. 123.

[66] D. DeLillo, Underworld, trad. it. di D. Vezzoli, Einaudi, Torino 1999, p. 47.

[67] A.M. Ortese, Corpo Celeste, Adelphi, Milano 1997, p. 30.

[68] G. Leopardi, Operette morali, a cura di L. Melosi, Rizzoli, Milano 2008, p. 589.

[69] S. Márai, L’ultimo dono, cit., p. 206.

[70] G. Leopardi, Operette morali, cit., p. 606.

[71] Loc. cit.

[72] W. Binni, La protesta di Leopardi, Sansoni, Firenze 1980, p. 158.

[73] G. Leopardi, Operette morali, cit., p. 269.

[74] Ibid., p. 254.

[75] J. de Maistre, Le serate di Pietroburgo o Colloqui sul governo temporale della Provvidenza, trad. it. di L. Fenoglio e A. Rosso Cattabiani, Rusconi, Milano 1971, p. 398.

[76] T.W. Adorno, Note per la letteratura, trad. it. di A. Frioli, E. De Angelis, G. Manzoni, E. Filippini, Einaudi, Torino 2012, p. 21.

[77] S. Solmi, Opere, vol. V, cit., p. 252.

[78] Ibid., p. 255.

[79] Ibid., p. 276.

[80] Ibid., p. 306.

[81] Ibid., p. 399.

[82] Ibid., p. 470.

[83] Ibid., p. 518.

[84] S. Marcucci, Scritti su Kant. Scienza, teleologia, mondo, a cura di C. La Rocca, ETS, Pisa 2010, p. 30.

[85] R. Sennett, L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, trad. it. di M. Tavosanis, Feltrinelli, Milano 1999, p. 9.

[86] F. Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extra-morale, trad. it. di G. Colli, Adelphi, Milano 2015, p. 20.

[87] G. Didi-Huberman Le témoin jusqu’à au bout. Une lecture de Victor Klemperer, Éditions de Minuit, Paris 2022, p. 33.

[88] E. Morante, Alibi. In appendice: Quaderno inedito di Narciso, Einaudi, Torino 2004, p. 33.

[89] J. de Maistre, Le serate di Pietroburgo, cit., p. 64.

[90] R. Calasso, Sotto gli occhi dell’Agnello, Adelphi, Milano 2022, p. 68.

[91] L.-F. Céline, Polemiche (1947-1961), trad. it. di F. Bruno, Guanda, Milano 1995, p. 115.

[92] J. de Maistre, Œuvres complètes, vol. XIV, Vitte et Perrusell, Lyon 1884-1886, p. 148.

[93] I. Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il nuovo millennio, Mondadori, Milano 2016, p. 60.

[94] M. Heidegger, Fenomenologia e teologia, a cura di N.M. De Feo, La Nuova Italia, Firenze 1974, p. 44.

[95] I. Calvino, Lezioni americane, cit., p. 61.

[96] T.W. Adorno, Dialettica negativa, trad. it. di A. Donolo, Einaudi, Torino 1970, p. 329.

[97] C. Dickens, Casa desolata, trad. it. di A. Negro, Einaudi, Torino 2018, p. 476.

[98] R. Musil, L’uomo senza qualità, trad. it. di A. Rho, Einaudi, Torino 1996, p. 280.

[99] Ibid., p. 281.

[100] Loc. cit.

[101] Ibid., p. 284.

[102] J. Roth, Il profeta muto, trad. it. di L. Terreni, Adelphi, Milano 1978, p. 91.

[103] J. Derrida, Tentazione di Siracusa, a cura di C. Resta, Mimesis, Milano-Udine 2018, p. 23.

[104] H. Böll La memoria, la rabbia, la speranza. Intervista a cura di René Wintzen, trad. it. di M.T. Mandalari, Laterza, Roma-Bari 2005, p. 25.

[105] M. Yourcenar Memorie di Adriano seguite dai Taccuini di appunti, trad. it. di S. Storoni Mazzolani, Einaudi, Torino 1981, p. 95.

[106] R. Musil, L’uomo senza qualità, cit., p. 285.

[107] P. Veyne, Michel Foucault. La storia, il nichilismo e la morale, a cura di M. Guareschi, ombre corte, Verona 2023, p. 67.

[108] G. Agamben, Il tempo del pensiero. I seminari di Le Thor con Heidegger (1966 e 1968), Giometti & Antonello, Macerata 2022, p. 57.

[109] R. Musil, L’uomo senza qualità, cit., p. 285.

[110] Loc. cit.

[111] Ibid., p. 287.

[112] Ibid., p. 285.

[113] M. Cacciari, Paradiso e naufragio. Saggio sull’Uomo senza qualità di Musil, Einaudi, Torino 2022, p. 26.

[114] V. Nabokov Lezioni di letteratura russa, a cura di C. De Lotto e S. Zinotto, Adelphi, Milano 2021, p. 315.

[115] T.W. Adorno, Introduzione alla dialettica, trad. it. di G. Zanotti, ETS, Pisa 2020, p. 11.

[116] M. Horkheimer, T.W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, trad. it. di R. Solmi, Einaudi, Torino 2010, p. 124.

 

Immagine: Jago, nell’Otello di Orson Welles.