Giuseppe Varnier, “Singolarità” (con una nota di Luca Lenzini)

Giuseppe Varnier, “Singolarità” (con una nota di Luca Lenzini)

27 Aprile 2023 Off di Francesco Biagi

 

Nella copertina di Singolarità[1], il libro in cui Giuseppe Varnier ha raccolto poesie composte lungo oltre un trentennio, campeggia la Tigre di William Blake, dai Songs of Experience: alto e arduo richiamo, che ben si presta a far da bussola per avvicinare un autore nei cui versi lo spessore filosofico e la passione poetica convivono in una combinazione infrequente nelle patrie lettere. La stessa costellazione di antenati e prossimi, da Milton, Shakespeare a T. S. Eliot, Yeats o Heaney, che il lettore di Singolarità incontra nella pagina risente di una tensione “metafisica” che appartiene a quel versante, più che a canoni continentali e peninsulari; o meglio, si direbbe che questi ultimi, ben presenti soprattutto per la lezione novecentesca di Zanzotto e Fortini, sono riletti e rimodulati in una prospettiva “innica” e anti-elegiaca che investe, deforma e sorpassa il linguaggio codificato attraverso neologismi, invenzioni lessicali («provescia», «invivente», «friumore») e interferenze grafiche: uno sconfinamento che a volte si declina direttamente in inglese (come in Beetle’s Juice, Irrlicht I o V = L) e non di rado in derive del significante in apparenza libere o ludiche ma per nulla gratuite, mimetiche di gerghi speciali, maschere e dialetti postmoderni, come per un espressionismo hi-tech. In questo contesto c’è spazio altresì sia per l’aforisma (Dopo il dottorato: «Dalla libertà, dal pensiero ero sempre “incantato” / Ora so che una macchina di Turing “io” son sempre stato…»), sia per l’invettiva (You dead meat) che non risparmiano lo stesso soggetto. Ed è forse da un nucleo inconciliato che hanno origine tanto il lavoro e la forzatura del linguaggio in direzione seriale, eredità rivissuta delle avanguardie, quanto il modo in cui il tema dell’esperienza e l’esplorazione di interregni onirici si sviluppano e annodano in stanze rimate e in sonetti di fattura nobilmente e aspramente (ruvidamente, si potesse dire) barocca, essenziali nell’economia del libro. Si vedano, in particolare, i versi Per mia madre e Incenso amaro: la misura classica dell’endecasillabo è allora assediata da inarcature e improntata ad una pronuncia sonora e scandita: «Ora hai varcato il velo di ignoranza / E forse il sogno di un infinitesimo / Atto ed attimo a fuoco in una stanza / Dove librarsi, ed infiniti, e stesi, mor- // ti, ma certi della nostra vacanza:». Così se il «nulla» e il «niente» entrano nella grana dei testi con martellante frequenza, fino a fornire il fitto spartito di una sestina (Fluttuazioni), lo spazio del testo si configura complessivamente come pedana o palcoscenico di una lotta integralmente laica con il non-senso, dove la «nera luce» (Doppia ferita), la «luce senza lumen» (Gamma (Ray) Bursts) e la «speranza di luce» (Le Terre Scritte) confliggono a viso aperto e senza requie. «I will not cease from Mental Fight», direbbe Blake (Jerusalem).

Luca Lenzini

 

[1] Giuseppe Varnier, Singolarità, postfazione di Tommaso Franci, Di Felice Edizioni, Martinsicuro (TE), 2021.

 

***

 

Poesie di Giuseppe Varnier

 

                              I

                         1963

odio la stupida donna dagli occhi bovini

sbiaccata nella grana del bianco&nero

 

odio l’uomo biondo che tiene il bambino

la sua giacca stronza e la sua brillantina

 

odio il pargolo di cacca, che guarda nella cornice

odio … …, … …, e … .

 

 

                          II

vieni, dal buio, nella picciola luce

 

the spaceman came to the threshold

gettò lo sguardo nella mensa dei bambini

he saw that something was wrong

questa non era la sua terra

you’ll never go home again        …

{vor der Schwelle…}

 

vieni, dal buio,                        nella piccola luce.

 

 

III

           Riddle

specchio   lampada   immagine

 

di naso     di logica    di candela

 

occhio         dito          circuito

 

diretto      vizioso        chiuso

Tralì/uce         cieco           spanto

 

 

IV

     (da Shakespeare,  icona)

contempli qui quell’epoca che scende

dove l’immagine del suo turgore l’attrae; e

vedi che distacco la forma prende, se

la poca luce la fonde con la vista

 

ché, vedi, niente rimane da dire,

se la luce ha raggiunto il friumore dell’acqua

e ìnvita lo sguardo a seguire le linee

dietro le quali, un tempo, quei colori sluivano

 

dentro la mente; e l’autostoppista riposa

nello spiazio che ti sépara dal tramonto;

vedi: hai posato tutto a un go/emito tra’ rami,

per toccare e spendire la sostanza dorata –

 

e sai (che) devi insistere col tuo sguardo sulla soglïa

per far durare quel ges/tto che ci incornicia.

 

 

V

         (ca. ‘91, Frammenti sez. c)

: questa è l’ultima notte dei fiori di rosa

tracciante

lievito

silenzio

in cui cavalcai dio

la notte me cavalcò,

fiori gemelli e nessun senso

 

: ricalca il vino, carica!, e la pasta nelle mani

dadi

astra-

schie

nella notte, ho ammass/zato il pane

per mio Padre

ho dato ordine di Mangiare

 

(mio Padre è Ora, morto solo.

–  Se

mangia

vive,

ma i cadaveri non mangiano

e dopo (Qui), stanotte

le rose per il pane                     son finite)

: Ora bevi, Qui, infuria, penombra

urta

i pro-

figli

ad alta penetrazione della notte

che irrompono, irriflessi, scalzati

di Sé, là, in forme, iterate, del buio.

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Che le notti finiscano, è destino,

E le ossa della luce, (s)fioriscano;

Questa, una, ha mantenuto la promessa:

Non una, sola, ruga (s)corre il volto.

 

 

VI

Ma,

non lasciano traccia, sono la traccia,

coprono l’usta con un piede e un senso spòrco,

cancellano, singultando (sul) piano, tutto il dolore,

scancellano in vano anche l’assenza del ricordo

la luce amara rasenta soltanto l’ìncavo della tua terra

sono, nel migliore dei casi, acque –

parole

 

 

VII

 Ifigenia

quando piove ci viene tutto il fango,

fammelo un po’ alto per favore,

la bambina con la felpa arancione

era di quelli del primo piano: travolta

dall’autobus, è entrata

nella gran luce bianca della televisione.

 

 

VIII

Andarsene

Noi che siamo giovani – i giovani più giovani – non

Vedremo mai più tanta neve. Il legno migliore,

Bruciato. La Vera scrittura, la nave del senso,

Presente solo, a brandelli, nel vento. E io vorrei invano

Che Cordelia risorgesse – a dire lei le parole: ma è il music hall,

Non la poesia, la critica della vita, ed al centro dell’inverno

Non è il freddo – è questa immobilità pe/ur sempre acerba, che

È venuta tardi intorno al nocciuolo duro del tempo, che

Ha perduto ago e spera, che non sa dire niente perché è così,

Che getta la Moneta, nel buio, ed ha le due risposte, e che

Può solo, se la Fortuna è grande, andarsene dentro il centro …

 

 

IX

Piccolo ma completo trattato di filosofia

S’infratta scavando

Nel niente s’intenebra

Finché è Vera immagine – Infatti

Come potrebbe esser immagine

Se la vedi? Nel niente (=lei) ti

Aspetta – dove non saresti,

E così hai tanta paura di morire

Che vorresti soltanto rintanarti

E dormire per sempre …

 

 

Nota dell’autore: IV e VII sono tratte dalla mia prima raccolta, Singolarità, del 2021, citata da Luca Lenzini nella sua Presentazione. VIII e IX appariranno nella mia seconda raccolta, Linguaggio, in uscita sempre da Di Felice Edizioni (Martinsicuro (TE))  nel 2024. Le altre sono del tutto inedite. Ringrazio l’Editrice, Valeria Di Felice, per la gentile concessione.

 

Immagine: W. Blake, Tigre