Un poemetto, uno scherzo – di Antonio Tricomi
Per non mia ostensione
Se al vuoto anzi tempo mi volgo
ricolmo rientro dal vuoto.
Quando pratico col niente
torno, il mio compito, a saperlo.
Quando amo, quando sento,
anche mi logoro, lo so.
Ma, più tardi, dentro il gelo
riarderò.
Franco Fortini, Da Brecht
Non è più mia la casa della polvere,
che Anna in affitto manuteneva,
che tutta a suo gusto lei rassettava:
dove c’erano libri, chincaglierie.
L’ho venduta perché nasce mia figlia.
Pisa, l’arsura, le bici, i lungarni:
non posso più rendere dolce pariglia
senza guadagno agli aspri vent’anni.
Sciatta città di sporchi vicoli sghembi,
che ho battuto come gli altri studenti
a notte per non rincasare vociando,
di giorno tra mense e dispense sciamando.
Di quello che sono da uomo e che penso
è tua la gran parte e della tua gente
avventizia, dedita a pagine, stanze
di biblioteche in qualunque dintorno.
A te ora non ho che cosa mi leghi,
salvo il ricordo di quanto imparavo
premendo con forza la punta dei piedi,
le mani verso un tomo sopra un ripiano.
Che ciascuno la sua vera famiglia
ce l’ha coi barlumi d’irata coscienza,
e non è stare soli, ma lucentezza
di civiltà, vorrei capisse mia figlia.
Che madre, sorella, che padre, fratello,
che per tutti l’origine è un danno
cui saper vivere è porre rimedio:
sentire le storie a corredo un fardello.
Anche questo possa Irene intuire:
che non si eredita senza fuggire
le fole dei cari che lì sempre sostano,
sull’uscio di casa a non dirti mai orfano.
Possa ammiccare dentro il silenzio
all’unico schiaffo che spinge a parlare:
l’impegno feroce a desiderare
tra fiato e sudore nessun diverbio.
E grazie ai propri fonemi sfatare
la segreta ambizione genitoriale:
che per loro si nasce. Invece mai.
Tesoro, già vivi per te. Quindi vai!
Tra crolli di tempo che ancora non sai,
tra sogni abortiti che ancora non fai,
trova presto, per queste strade in rovina,
qualcosa di tuo da cullare, bambina.
Un gesto di disalleanza col male
che siamo qui arresi a perpetuare,
vuoti baleni di un moderno sentire
sperso nel gorgo del suo incanutire.
Perché quale lotta per essere io,
quale promessa di affrancarsi da dio
può valerne la pena senza che poi
ad alcun vinto si dia requie fra noi,
folla di automi tutti indistinti
che ci accalchiamo nella cieca parvenza
di nominali e plurali diritti,
ed è per chi perde soltanto mattanza?
Volessi amar gli sconfitti, piccina!
Con più trasporto ti seguirei discosto,
io che non avverto la fine vicina
ma tardi son padre e in questo posto…
Sospettavo, dietro ricami di tende
ora non mie, piano terzo, interno cinque:
il niente volge in niente altro niente;
salva qualcosa, con un figlio, chiunque.
Perché si accaniva, in quel palazzo,
l’autismo d’un sopravvissuto ragazzo,
astruso oltre il giusto e cinico allora
come i romantici andati in malora.
Però gli anni ostinati lavorano
non a guarire, analisti, a curare
maglie scucite del sé da rammendare:
altre, sopra i nostri trascorsi, scolorano.
Dunque son qui, non per età, senescente,
ma per consunzione com’è l’Occidente:
tetri per via anche i corpi ventenni,
le pose, le facce di lungodegenti
che ci scambiamo in questa avaria
per cui sussiste ritorto il pensiero
senza colpi di coda come un impero
inetto a sanare la propria agonia.
Son qui. Mi sporgo sul dischiudere carne
come un tempo che finalmente m’accade
per accettare la mia espropriazione:
da me un altro, per non mia ostensione.
Scusami, amore: cos’altro so fare?
Allora credo – mentre guido veloce
con in tasca l’assegno, e una voce
frequente m’esorta a verificare
che dall’atto sempre sia lì quel profitto,
Pisa lontana, sui soldi è già notte,
io mai toccato così tanto denaro:
paga pur questo, è il nostro degrado –
che non sia, la costruzione dell’umano,
deviante dalla lettura di un testo:
usar ogni nostro sapere e talento
non per ridurla ciò che siamo, vogliamo
ma, la parola, per lasciarla avvenire
in quanto ci chiama se non appartiene
a noi che scopriamo un altro sentire,
e al diniego, all’assenso ci preme.
Ch’è la falla per cui tace utopia:
un io che non c’è, barricato alla norma
che già l’aliena, poi s’aliena alla forma
d’un progetto d’eguali per empatia.
Fari m’abbagliano dal retrovisore.
Le curve scavallano un tabernacolo.
S’abbracciano, come sfatti al tepore,
più slanci e vestigia nell’abitacolo.
Al parto c’è un mese e spiccioli giorni.
Altri due rettifili, poi Grottammare.
Tu, mi rinfranco, dal passato ci torni
con del capitale per ristrutturare
i cento metri che dividi con Stella,
rilevata la quota di tua sorella.
La nuova inquilina trarrà giovamento
dall’apprendistato al medicamento
che al vivere hai dato, ligio a ragione?
Sradicamento dall’effuso piacere
dello sconquasso, nutrendo il dovere
della speranza ma senza illusione.
(5-26 gennaio 2023)
Cultura di governo
Oh! Me so’ spiegata?
Non famo un cazzo
rispetto all’andazzo:
’na bella copiata
da quello de prima
ch’er monno lo stima,
e noi non capiamo
’na cippa de leggi.
Ma famo scorreggi
appena parliamo:
Dante sta a destra;
fu, la Resistenza,
massacri, banditi;
amor di radici;
confini blindati;
anglismi vietati.
Poi damo du’ spicci
a quelli poracci,
un po’ d’evasione
a quelli ben messi,
ché senza ’sti fessi
noi, all’elezione…
Però niente più.
Cjavemo soltanto
da fare pupù
con parole, tanfo:
dovemo soffiare
la involuzione
pre post culturale.
Se noi semo bravi
a fare ’sta merda
con gli sdoganati
rancori de destra,
poi sì che l’acclama,
’sta folla de corte,
mo’ come se chiama…
ah, già: l’omo forte.
Ché non se pò dì
er duce. No no.
I rossi non vò.
Li famo sparì,
s’ancora ce n’è.
Capito com’è?
La nostra missione:
aprire la via
a un periodone
che democrazia
neppure formale.
Er monno s’encendia,
arriva tregenda.
Dovemo allestì
nu po’ de plotoni
de tanti coioni
pronti a morì.
(1° aprile 2023)
***
Immagine: Angeli, Mitoraj