Crisi storiche e corpi in combattimento – di Ubaldo Fadini

Crisi storiche e corpi in combattimento – di Ubaldo Fadini

29 Gennaio 2023 Off di Francesco Biagi

Si parla sempre più spesso di “guerre sul campo” e di “guerre finanziarie”, ciò che conta maggiormente nel presente. Ma non è su ciò che voglio soffermarmi. Mi interessa invece, per dirla in termini adorniani, quell’elemento umano deformato a partire dal mutamento delle situazioni o, a maglie più larghe, dei “quadri d’epoca” (Arnold Gehlen) che può essere anche raffigurato nella formula della “crisi storica” del soggetto. Cosa resta però alla fine di tale mutamento in peggio, di fatto irresistibile per gli assetti identitari, le configurazione date della “nostra” sensibilità e intelligenza? Cosa eccede e fa cessare tale fluire? Una risposta possibile è quella che individua una fonte di resistenza non aggirabile nella realtà dei corpi, nel loro costante variare/metamorfosare.

In tale direzione, che ha come sua prerogativa l’indicazione della definitività del “dato” corporeo (che così risulta a sua volta storicamente contrassegnato nel suo rilevare una catastrofe che si concretizza, ancora con Adorno, “senza fine”), riporto la mia attenzione ad alcune figure dell’antropologia storica della guerra, filtrandole però con la lettura di alcune pagine di Gottfried Benn accompagnate dalla fine sensibilità critica di Ferruccio Masini. Riprendo allora un passo benniano, del suo Problemi della lirica (1951), nel quale si ritorna sul tema antropologico, in senso filosofico, della “plasticità” (Plastizität), fondamentale per restituire l’immagine dell’essere umano come essere insieme “carente”, nel confronto con la stretta correlazione tra istinti/risposte predeterminate e stimoli precisamente dati dell’/nell’ambiente di riferimento dell’animale non umano, di collocazione, ed “eccedente”, fortunatamente eccessivo, in grado di impiegare risorse decisive per far fronte a un mondo da considerarsi come un campo di sorprese illimitate che, da parte loro, ci consegnano ad una non mai pienamente superabile fragilità/vulnerabilità di fondo. Benn si ricollega direttamente alle tesi di Arnold Gehlen, del suo L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo (1940), riconoscendone un valore precipuo nell’avanzare una raffigurazione non “evoluzionistica” della vicenda umana, di un essere umano che non si è affatto evoluto e che “fin dall’inizio” si è presentato come tale dando il là ad “una nuova fase della creazione”. Quest’ultima si caratterizza per la centralità al suo interno dei temi della “coscienza” e dello “spirito”, in corrispondenza con l’immagine di un essere umano come “animale non ancora irrigidito, aperto alle impressioni, capace di sviluppo, ancora all’inizio del destino della sua specie”. È così che si presenta il motivo della “plasticità” ma non soltanto in riferimento alla determinazione corporea, che registra in effetti come tutto sia “compiuto”, bensì in relazione principale alla dimensione appunto “spirituale” e in polemica con le tesi di Hans Sedlmayr e del suo importante Perdita del centro. Le arti figurative dei secoli XIX e XX come sintomo e simbolo di un’epoca (1948). La ramificazione sempre più fitta dell’immateriale è quindi fatta risalire al nuovo orientamento di ciò che è da ritenersi “plastico”: “La plasticità del divenire si volge a una nuova dimensione, l’emancipazione dello spirito si fa strada a tastoni in un nuovo spazio che si apre. Di una perdita del ‘centro’ non è proprio il caso di parlare, deduciamo noi a proposito del nostro tema: il ‘centro’ è assolutamente inesauribile, nelle civiltà superiori se ne è presentato appena qualche accenno. Ma la direzione di questo ‘centro’ appare ormai chiara, si avvia verso le sfere di tensione: coscienza e spirito, non nella direzione di istinto, calore di sentimento, idillio interiore botanico-zoologico coltivato in serra, bensì in quella di una sua concatenazione di concetti affinati, di un superamento dell’elemento animale verso costruzioni intellettuali, nella direzione di un produttivo incanalamento del misticismo interiore verso chiare forme legate in maniera terrena – è la direzione verso un mondo che vuole coscienza ed espressione e che diviene coscienza ed espressione, in una parola: verso l’astrazione”[1].

E ancora: rispetto a tale rivolgersi, alla nuova dimensione d’indirizzo, non è possibile prevedere alcunché “ma probabilmente l’uomo non finirà come vorrebbero gli odierni ipocondriaci della civiltà; se egli si comporta secondo questa sua specie, allora si comporta secondo leggi creative che stanno al di sopra della bomba atomica e dei blocchi di minerale di uranio”[2].

La “plasticità” non è quindi una qualifica che comprende semplicemente le prestazioni sempre rinnovate d’ordine “materiale” dell’essere umano: è qualcosa di più, che trova manifestazione efficace sotto la veste della matrice assolutamente imprescindibile di qualsiasi avventura “terrena” di pratiche di concettualizzazione sofisticate.

È per me particolarmente interessante questo rinvio alla produzione di singolare normatività che sarebbe da assegnare alla “plasticità” ma qui vorrei tentare di collegare proprio a tale creatività, secondo “leggi”, la riflessione benniana sul nichilismo. Si tratta di un tentativo già altrove delineato, in una prospettiva che però non teneva conto del fatto che la vicenda complessiva dell’umano va considerata, per quello che può valere…, anche e soprattutto nel suo cor/rispondere in un qualche modo a ciò che risulta essere la sua singolare “specificità” e il suo proprio “destino”, all’interno – mi sembra opportuno ripeterlo – di una “nuova fase della creazione”[3]. In questa direzione c’è un saggio assai importante dell’autore di Doppelleben, Mondo dorico. Indagine sui rapporti fra arte e potenza, del 1934, in cui si indica proprio nell’arte il luogo di consegna ultima dell’umano, lo spazio effettivo della sua conservazione come specie, sondato a partire da una radicale antropologia “progressiva” di carattere novalisiano, così come ebbe modo, a suo tempo, Ferruccio Masini di riconsiderarla criticamente e proficuamente[4]. Si legge in questo testo: “L’uomo, la figura ibrida, il Minotauro, eternamente nel labirinto in quanto natura e cannibale in forme raffinate, qui egli è puro come un accordo e monolitico nelle altezze, e strappa dalle mani a quell’altro la creazione”[5]. È senza dubbio avvertibile qui con chiarezza il nesso di nichilismo (e del suo attraversamento) e analisi antropologica (se si vuole: di segno filosofico); una relazione stretta, quest’ultima, che presenta diverse articolazioni, dalla dinamica generale della spersonalizzazione, con le punte di delirio conseguente, alle pratiche più concretamente regressive, di aggancio tentato e comunque non duraturo al “getto di forme” che vale come una sorta di “sostanzialità primaria” e ha sede nella dimensione del corporeo. È proprio il soma a portare/veicolare i “misteri”, a determinarsi come lo “strumento della vita” (Paul Valéry) in termini necessari, non aggirabili e fondamentalmente segnati dal persistere in ciò che lo anima di qualcosa di irriducibilmente ignoto. Il nichilismo è qui avvertito, come si può vedere nel saggio Oltre il nichilismo, del 1932, come quel processo che conduce alla realizzazione dell’umano nella forma essenziale di uno specifico “montaggio dello spirituale” e che si svolge comunque attraverso delle destrutturazioni degli ordini dati nel presente che consentono di ritrovare a volte – anche semplicemente sotto veste di possibilità – tracce della “plasticità” originaria che caratterizza peculiarmente l’essere umano. In tale ottica si comprende perché Benn parli di una “svolta antropologica” del nichilismo che trova una espressione significativa in utilizzazioni del suo portato di segno soprattutto “artistico”, rilevabili come singolare effetto di un trasferimento di “forze”, riferibili al “centro corporeo”, nelle figurazioni astratte, negli assetti formali, che sembrano così ri/velare pratiche di prosciugamento/esaurimento progressivo della sostanza ultima della specie. Si può dunque meglio afferrare la particolare qualifica dell’intelletto come fattore  di rarefazione, con – e oltre –  il nichilismo, dello stesso elemento “irrazionale” che balena negli abissi più profondi di ciò che esiste. Certamente è sempre il “centro corporeo” a consentire con le sue modificazioni le trasformazioni del mondo. La dislocazione delle forze nelle strutture, dall’interno verso l’esterno, determina lo stesso processo del nichilismo come passaggio ineludibile per la concretizzazione di forme e ciò significa che la trasfigurazione parziale dell’elementare non rimuove di fatto l’esperienza ricorrente e inesauribile del nichilismo: “Tutti i valori perduti considerarli perduti, (…) tutta la tragicità dell’esperienza nichilista trasferirla nelle forze formali e costruttive dello spirito, allevare e formare una morale e una metafisica della forma (…). Più di un sintomo fa presagire che ci troviamo di fronte ad una decisiva svolta antropologica, in parole povere: a uno spostamento dall’interno all’esterno, un trapasso dall’ultima sostanza della specie nel mondo della figurazione, un trasporto di forze nella struttura. (…) sì, solo dalle estreme tensioni del formale, solo dal più estremo potenziamento dell’elemento costruttivo che giunge sino al confine dell’immaterialità, si potrebbe plasmare una nuova realtà eticaoltre il nichilismo!”[6].

È da rimarcare questo stretto rapporto tra il nichilismo e il delinearsi della forma. La “svolta antropologica” richiama il fatto che il prosciugamento progressivo della sostanza ultima della specie è appunto qualcosa da riferire a ciò che, sotto veste di “plasticità”,  consente la stessa dinamica del venir meno, che appare così incessantemente rilanciata attraverso le tensioni che pur stravolgono il momento formale, anche quello maggiormente compiuto. Nel suo Gottfried Benn e il mito del nichilismo, del 1968, Ferruccio Masini osserva come la Regressiontendenz, palese nei primi testi benniani, sia da situare all’interno di un ambito culturale tipicamente “postnietzscheano”, in particolare lebensphilosophisch, laddove sono da ricordare soprattutto le opere di Ludwig Klages e Theodor Lessing, il motivo dell’Untergang der Seele, del tramonto/naufragio dell’anima nel tempo del progresso tecnologico-scientifico: “Tutta la polemica antiprogressista e antistoricista di Benn (…) ha il suo storico background nelle molteplici motivazioni pseudoscientifiche-paleontologiche (Edgar Dacqué), mitologizzanti (Erich Unger), storiografiche (Oswals Spengler, Theodor Lessing), sociologiche (Lévy-Bruhl), psicoanalitiche (Freud, Jung) di una cultura in cui era più o meno implicito il tentativo di opporre alla ‘eterna evoluzione’ della civiltà (Zivilisation), su cui si imposta il tema poetico-regressivo del sogno, dell’ebbrezza e della morte”[7].

E ancora, in un testo del 1984, Masini insiste sulla “surdeterminazione del nichilismo” nell’opera benniana che ha come sua base di partenza il tema della “tendenza regressiva”, della “discesa in profondità” propria di un “Io arcaico” in grado di plasmarsi  a ritroso (“quando l’anima si sviluppa, si plasma verso il basso”), rovesciando in effetti gli ordini della Bildung classica. C’è un saggio essenziale in tale ottica, Problematica della poesia (del 1930), nel quale Benn collega tale “Io arcaico” a ciò che successivamente sarà definito come “Io lirico”, attribuendo a ciò un significato che “evoca l’avvento del nichilismo sulla scena di un mondo” in cui il corpo, l’elemento “magico-tellurico” e la réalité hallucinatoire rivendicano un protagonismo ormai perso dal “rigore” e dalla “chiarità” dell’intelletto.

È anche in questi termini che si può rilevare un dato non-storico che si collega strettamente con delle situazioni temporali e che proprio per tale relazione non può essere assolutizzato. Il nichilismo fatto oggetto di analisi da parte di Benn si presenta così come un “geroglifico magico” in cui si mescolano/combinano le dinamiche del piacere e del radicale venir meno in quelle che sono da considerarsi come le “germinazioni di una ‘coscienza’ precategoriale inscritta in una ‘necessità’ corporea inseparabile dal poiein originario”[8]. Il “puro nichilismo” rivendica cioè una sola ananke, quella del corpo, con i suoi “turgori”. Masini si sofferma su Oltre il nichilismo perché proprio in questo saggio si delinea una immagine del nichilismo che non si limita alla presa d’atto del suo effetto di “devastazione”. Certamente questo concetto di nichilismo “non ha più nulla a che vedere col materialismo positivista, con il meccanicismo, con la sociologia della perfettibilità umana, con la filosofia ottimistica della storia e neppure con la presunta derivazione darwinista della teoria nietzscheana dell’Übermensch, inteso come entità biologico-positiva destinata a porsi oltre il nichilismo stesso”[9]. Accanto a ciò, ed è quello che qui interessa, il nichilismo è afferrato “come la condizione bionegativa di un trapasso, il polo di un superamento ‘produttivo’”, come quel complesso appunto di “valori bionegativi” che va compreso come fattore decisivo di differenziazione del campo spirituale, come attribuzione all’elemento produttivo dei suoi caratteri (“l’arte, la genialità, i motivi di dissoluzione della religiosità, la degenerazione”). C’è dunque da rilevare la qualifica “ambivalente” del concetto di nichilismo nel senso che esso conduce non soltanto al superamento della stessa regressione appunto di segno nichilista ma coglie una sorta di “metamorfosi interna”, del nichilismo medesimo, che si esprime soprattutto in una riemersione singolare delle polarità corpo/spirito, vita/intelletto, da individuare come la base concreta “per una nuova costituzione di trascendenza del ‘tardo io’”. La “catastrofe schizoide”, la “fatale nevrosi occidentale” vengono fatte paradossalmente valere – continua così Masini commentando Benn – come valido “presupposto storico-geologico” di una “mutazione antropologica” che fa dell’intelletto lo strumento di una trascendenza, la forma, nella quale “si riflette estaticamente (…) lo stesso mondo prelogico, la stessa mitica Vorwelt originaria”. Per cogliere quindi il carattere ambivalente del nichilismo lo si deve mettere in relazione stretta con una specifica “svolta antropologica” ed è in questa prospettiva che lo studioso fiorentino sottolinea come non si possa considerare il nichilismo soltanto come “il culmine di un progresso che trasforma l’uomo in una Montierung des Seelischen”, in un “montaggio dello spirituale”, di ciò che appunto rianima, dà anima, vale a dire in un complesso, come scrive l’autore di Il tolemaico, di “pezzi da incastro per un cosiddetto uomo collettivo e normale”, “ma è anche [il nichilismo] la destrutturazione regressiva di questo ‘scipito rococò’, il ritrovamento, infine, di quell’impeto, di quella ‘tragicità’, di quell’irrazionale,di quell’animalità, di quella totalità arcaico-organica inconscia e ‘mostruosa’ che costituisce lo strato infimo dell”uomo del quaternario’. Quest’ambivalenza si rifletterà nella fisionomia contraddittoria, sarcasticamente sfuggente nella sua premeditata bilance ludica dell’einerseits-andererseits (‘per un verso, per un altro verso’) propria del Fenotipo; ma è dalla ‘sostanza intima della specie’, quella incarnata nell’uomo dei primordi, nel primär Monist (‘monista primario’), che scaturisce la svolta antropologica, vale a dire quel superamento del nichilismo che è più precisamente una ‘utilizzazione artistica’: ‘dislocazione dall’interno all’esterno, prosciugamento, nella figurazione, dell’ultima sostanza della specie, trasferimento di forze nella struttura”[10].

Il carattere distruttivo del nichilismo va delineato al fine di realizzare una vera e propria “conversione di potenziale”, ciò che assicura – attraverso il suo utilizzo – la messa in piedi di un solido assetto formale. Il percorso da seguire è così chiaramente tracciato: la “furia” del sentire e dell’esperire di segno nichilista va trasferita “nelle forze formali e costruttive dello spirito”, laddove la sua messa in ordine consentirà infine di “allevare e costruire una morale e una metafisica della forma del tutto nuove per la Germania”. La “conversione” non è quindi da cogliersi sotto la veste di un superamento del nichilismo bensì come “surdeterminazione” di quest’ultimo, come sua auspicabile “integrazione” – mediante la dislocazione delle forze nella struttura – nella trasfigurazione della sostanza, con la sua plasticità di divenire, in quel “mondo dell’espressione” da cogliersi comunque nella sua variabilità/modificabilità di fondo. La forma in relazione alla “plasticità” è ciò che variamente permane ed è proprio della “plasticità” non sop/portare in sé niente che pretenda di durare indefinitamente, valendo così come “negazione della storia, della realtà”, della stessa “affermazione vitale”. Da qui si arriva a comprendere il valore effettivo del tentativo d’integrazione, di assimilazione/rielaborazione del nichilismo, che restituisce la forma stessa come prodotto del “nulla del nichilismo”– con Masini: “Questa dislocazione di forze dall’interno all’esterno non fa altro che dare corpo alla pienezza di cui è carica la regressione: ma si tratta di un corpo collocato nel luogo ‘assoluto’ dell’astrazione concepita come ‘pura esistenza’ (reine Existenz). Il nulla del nichilismo sembra negarsi nella forma, ma in realtà questa è il prodotto della sua potenzialità eccentrica, il termine della tensione ad esso immanente, la trasfigurazione di un pathos primordiale. (…) Il produttivo nasce dunque dal nulla. Nell’Akademie-Rede (1932) questa tensione del nulla che si scarica nella forma e diventa il suo asse portante è definita da Benn ‘una violenza del nulla che esige forma’; è precisamente questa violenza a costituire ‘la legge del produttivo’. Ma è interessante notare che Benn conduce la stessa possibilità costruttiva dell’astrazione ad un gioco di forze bloccato, per così dire, nell’equilibrio dinamico di una tensione fondamentale irrisolvibile”[11].

L’istituzione “spirituale” di qualcosa che “trascende” non rimuove dunque quella “situazione dell’Io” la cui ritmica specifica è quella del “dissolvere” e, insieme, del “plasmare”. Come rimarca ancora con finezza Masini, tale “situazione” tende – attraverso il vincolo costruttivo proprio della forma – verso il trascendere espressivo, delineando una “visione ordinatrice” che “è una visione astratta, ma al tempo stesso allucinata, poiché in essa si rispecchia la violenza del nulla e con essa le immagini endogene di una sostanza mitica in cui sono cancellati i lineamenti dell’umano, tanto che il ‘piacere creativo’, la schöpferische Lust, apparirà a Benn come una trascendenza dell’elemento ferino, del corpo (‘il corpo trascende l’anima’). (…) Il nichilismo è dunque ciò di cui si struttura lo stile allucinatorio-costruttivistica di un’epoca nuova (…). In questa cifra stilistica si esaltano l’elementarità magico-animistica unitamente all’artificio espressivo discendente dalla cerebrazione progressiva”.[12]

Rispetto alle “peripezie dell’elementare”, all’esprimersi delle sue potenzialità nel prosciugamento progressivo e di fatto interminabile dell’ultima sostanza della specie, si potrebbe prendere in considerazione la ricerca complessiva di Ernst Jünger, con il suo passaggio accurato da una “mistica del nichilismo” ad una “mistica dell’immanenza”, per dirla sempre con Masini, che rinvia alle mosse, ai patimenti, alle arti sottili di un soggetto dell’“epoca della confusione” che si caratterizza appunto per il suo “solipsismo assoluto” e per una modalità avventurosa dello stare al mondo che altro non è che il tentativo di seguire le stesse “peripezie dell’elementare”. Nell’autore di An der Zeitmauer, la ricerca pluridecennale tiene cioè insieme il sondaggio estremamente rischioso della dimensione misteriosa, sfuggente/seducente, dell’ “elementare”, la “regressione arcaica”, e la delineazione di una sorta di “ipercivilizzata” sapienza delle catastrofi, di un confronto con gli effetti  differenti della mobilitazione totale che investe frontalmente corpi, sensibilità/facoltà, intelligenze individuali e collettive. C’è in breve un “cammino” segnato da più tappe, tra le quali quella dell’avventura rappresenta un “rifugio passeggero”, una “tenda variopinta, allestita per un’unica notte”, come si legge in Avvicinamenti, droghe ed ebbrezza, del 1970, in grado cioè di consentire un riparo del tutto provvisorio di fronte a un mondo sempre più “in ombra”, con quelle sue fini parziali che anticipano la possibilità concreta della fine di qualsiasi fine da perseguire, della morte del mondo stesso.

Tra Benn e Jünger mi sembra di poter quindi delineare in modo non eccessivamente forzato una antropologia “storica” del venir meno, che trova nel conflitto bellico, nella guerra, una sua “qualifica” in grado di afferrare il carattere “tragico” di una particolare modalità dell’esperire nichilista, con la sua potenza distruttiva. Certamente tutto questo è da riferire al “centro corporeo” come ambito di manifestazione della “sostanzialità primaria”, per riprendere la terminologia concettuale fin qui impiegata, ma tenendo conto di ciò vorrei virare in una direzione di analisi che restituisce la dimensione del corporeo in altre modalità, sia pure – e questo è un nodo tematico piuttosto delicato – non lontane da quelle fin qui trattate. Tale prospettiva la colgo in alcune osservazioni di Gilles Deleuze, a partire dalle sue ricerche critiche sulla cosiddetta dottrina/prepotenza del giudizio. Qui si potrebbero ricordare le innumerevoli e decisive pagine su Nietzsche oppure il testo, scritto con Félix Guattari, dedicato a Kafka (per non andare più indietro nel tempo, al testo su Hume, del 1953, o all’antologia sugli istinti e sulle istituzioni, del 1955), ma vorrei invece riprendere il contributo Per farla finita con il giudizio, contenuto in Critica e clinica, l’ultimo libro pubblicato dal filosofo francese nel 1993. Da questo testo ricavo una linea di critica effettiva, a differenza di quella kantiana, al potere del giudicare che fa riferimento in primo luogo a Spinoza e a suoi quattro “discepoli”: Nietzsche, Lawrence, Kafka, Artaud e che ritaglio in modo da sottolinearne alcuni aspetti che restituiscono il giudizio, il suo operare, come fondato su una organizzazione concreta dei corpi, su un potere di organizzare. Spicca a questo punto la pratica di scrittura artaudiana che oppone in termini netti a tale organizzazione il corpo fisico, “vitale e vivente”, che sfugge alla pretesa di ridurlo a semplice organismo, a corpo organizzato e reso oggetto dell’attività del giudicare. È appunto Artaud a restituire l’irriducibile vitalità, in primo luogo “non organica”, di un corpo intensivo, affettivo, “che comporta solo poli, zone, soglie e gradienti”: “Lawrence presenterà sempre dei corpi organicamente difettosi o poco attraenti (…), ma comunque attraversati dall’intensa vitalità che sfida gli organi e disgrega l’organizzazione. La vitalità non organica è il rapporto fra il corpo e delle forze o potenze impercettibili che se ne impadroniscono o di cui esso s’impadronisce, come la luna s’impadronisce del corpo di una donna: Eliogabalo l’anarchico continuerà a essere, nell’opera di Artaud, la dimostrazione di questo scontro delle forze e delle potenze, come altrettanti divenire minerali, vegetali, animali. Farsi un corpo senza organi, trovare un corpo senza organi è la maniera di sfuggire al giudizio. Era già il progetto di Nietzsche: definire il corpo in divenire, in intensità, come potere d’investire e di essere investiti, ossia Volontà di potenza[13].

A tutto ciò Kafka aggiunge il suo fare reagire il corpo del giudizio e il corpo della giustizia, ma ciò che ora interessa è la rilevazione del corpo-intensità come quel campo (“mondo”) nel quale tutto fila, rimescolando ogni elemento e azzerando in continuazione le differenziazioni che si concretizzando e tendono a istituirsi. Le intensità che si esprimono compongono allora delle zone fluide, “mosse”, in cui si affrontano, combinandosi e scomponendosi rapidamente, delle potenze. Con riferimento all’artaudiano “sistema della crudeltà”, Deleuze ne coglie un carattere per me decisivo, vale a dire la realizzazione di una lotta che prende il posto del giudizio e che vale come combattimento generalizzato, certamente contro il giudizio ma anche e ancor di più è lo stesso combattente a definirsi come combattimento (“fra le proprie parti, fra le forze che soggiogano o sono soggiogate, fra le potenze che esprimono quei rapporti di forza”). Gli “spinoziani” Artaud, Lawrence, Nietzsche presentano il principio che tutto ciò che si manifesta come buono non può che provenire dal conflitto, in termini eraclitei. Con un rinvio anche alle pagine kafkiane di Canetti, Deleuze coglie nei combattimenti-fra – che determinano la composizione comunque sempre mutevole delle forze nel combattente – la reale giustificazione dei combattimenti-contro, dei conflitti con l’esterno. Scrive il filosofo della Logica del senso: “Bisogna distinguere il combattimento contro l’Altro e il combattimento fra di Sé. Il combattimento-contro cerca di distruggere o di respingere una forza (lottare contro le ‘potenze diaboliche dell’avvenire’), mentre il combattimento-fra è il processo attraverso il quale una forza si arricchisce, impadronendosi di altre forze e congiungendosi con loro in un nuovo insieme, in un divenire. Delle lettere d’amore, si può dire che sono un combattimento contro la fidanzata, da cui si tratta di respingere le inquietanti forze carnivore, ma sono anche un combattimento fra le forze del fidanzato e forze animali che lui prende come aiuto per meglio sfuggire a quella di cui teme di diventare preda, anche forze vampiresche di cui vuole servirsi per succhiare il sangue della donna prima che lei vi divori; e tutte queste associazioni di forze costituiscono dei divenire, un divenire-animale, un divenire-vampiro, forse addirittura un divenire-donna che si può ottenere solo con il combattimento”[14].

Attraverso il rimando all’autore di “descrizioni” di battaglie e il confronto con gli altri “discepoli di Spinoza”, Deleuze riprende il motivo del composto intensivo delle forze per distinguere radicalmente il combattimento dalla guerra, la quale indica semplicemente un combattimento-contro, vale a dire una volontà distruttiva che sta sempre dalla parte del giudizio (di Dio) che afferma come “giusta” la distruzione stessa e in effetti l’impadronirsi delle forze che proprio della guerra è una loro mutilazione/mortificazione. Il filosofo francese coglie nella guerra una volontà di potenza che vuole quest’ultima unicamente come potere o dominio, ma Nietzsche, Lawrence, Artaud considerano tutto ciò come una “malattia”, come il grado infimo della stessa volontà di potenza. C’è una idea di lotta che non trascorre inevitabilmente in quell’ “imperialismo della morte” che si è affermato “dagli antichi Romani ai fascisti moderni”: “La lotta invece è quella potente vitalità non organica che completa la forza con la forza, e arricchisce ciò di cui si impadronisce. Il neonato presenta una tale vitalità, un voler vivere ostinato, caparbio, indomabile, diverso da ogni vita organica: con un bambino piccolo si ha già una relazione personale organica, ma non con un neonato che concentra nella sua piccolezza l’energia che fa saltare i selciati (il bebè-tartaruga di Lawrence). Con il neonato si ha solo un rapporto affettivo, atletico, impersonale, vitale. È certo che la volontà di potenza appare in un neonato in maniera infinitamente più precisa che nell’uomo di guerra. Perché il neonato è combattimento, e il piccolo è il luogo irriducibile delle forze, la prova più rilevatrice delle forze. I quattro autori sono implicati in processi di ‘miniaturizzazione’, di ‘minorazione’: Nietzsche pensa il gioco, o il bambino giocatore; Lawrence, o il piccolo Pan; Artaud, le mômo, ‘un io da bambino, una coscienza da bambino piccolo’; Kafka, ‘il gran vergognoso che si fa piccolo piccolo’”[15].

Decisiva è quella sorta di idiosincrasia di forze che come potenza in divenire, in metamorfosi, si raffigura nella trasformazione incessante della dominante e delle dominate, nella costruzione di differenti agglomerati/composti di forze. Deleuze vuole indicare il modo di fuggire dalle “miserie della guerra” (si potrebbe anche dire, in un senso ovviamente un po’ diverso: di affermare “guerra alla guerra”) e lo individua nel combattimento, che realmente la fa finita con “dio” e con il “giudizio”, rilanciando le ragioni molteplici dell’esistere. Di queste ultime vanno apprezzate cinque caratteristiche che contrappongono le esperienze vitali, di cammino reale, alle mortificazioni del giudizio: accanto alla crudeltà che si oppone al supplizio infinito, al sonno o all’ebbrezza che si oppongono al sogno, alla vitalità che si oppone all’organizzazione rigida, alla volontà di potenza che si oppone alla volontà di dominio, si ha appunto il combattimento che vale qui contro la guerra. Lo sforzo non aggirabile è in fondo quello di evitare di consegnare il potere della distinzione/differenziazione (tra i vari modi di esistere) al giudizio, a ciò che che avvilisce le forze, l’amore e l’odio in senso spinoziano. In breve, la pratica del giudicare ha sempre come suo presupposto la pretesa di muovere da criteri preesistenti, da sempre dati (“all’infinito del tempo”) e che si presentano come dai valori superiori a cui tutto è riferibile/attribuibile. Si tratta invece di cogliere diversamente il nuovo dell’esistere, il suo delinearsi concreto e irriducibile. Ma come si crea tale modo di esistenza? Deleuze è netto su questo punto così cruciale nel momento in cui mette in evidenza la vitalità di tutto ciò, vale a dire come si crei “attraverso la lotta”, ad esempio “nell’insonnia del sonno, non senza una certa crudeltà verso se stessi”, con tutto quello che certamente non scaturisce dalla pratica del giudicare: “Il giudizio impedisce l’avvento di qualsiasi nuovo modo di esistenza. Questo infatti si crea con le proprie forze che sa captare, e vale per se stesso, nella misura in cui fa esistere la nuova combinazione. Forse è qui il segreto: far esistere, non giudicare. Se giudicare è così disgustoso, non è perché tutto si equivale, ma al contrario perché tutto quel che vale non può farsi e distinguersi se non sfidando il giudizio. (…) Noi non dobbiamo giudicare gli altri esistenti, ma sentire se ci convengono o ci sconvengono, ossia se ci apportano delle forze oppure ci rimandano alle miserie della guerra, alla povertà del sogno, ai rigori dell’organizzazione”[16]

I combattimenti-fra sono quindi in relazione stretta con i combattimenti-contro… il giudizio, nei confronti di ciò che perpetua quella condizione preistorica da assumersi come una catastrofe infinita, veicolata dalla dinamica della ricerca di un senso che pretende di valere una volta per tutte e che così si manifesta come quel nulla – espressione propria dell’immutabile imposto a tutti i costi – a cui si può tentare di sottrarsi recuperando il fattore di eccentricità proprio dello stesso “centro corporeo”, le sue inquietudini, al di là delle forme date della soggettività, con il loro “niente di volontà” e la loro “volontà di niente”, con gli “ideali” della rinuncia alla lotta, alla conflittualità, e le apologie ricorrenti proprio delle volontà – che si spacciano come “giuste” – di distruzione.

 

NOTE:

[1] G. Benn, Problemi della lirica, in G. B., Lo smalto sul nulla, trad. di Luciano Zagari, Adelphi, Milano 1992, pp. 296-297.

[2] Idem.

[3] Ad esempio, in prima approssimazione nel mio: Il corpo imprevisto. Filosofia, antropologia e tecnica in Arnold Gehlen, Franco Angeli, Milano 1988, p. 30 e sgg.

[4] Si veda F. Masini, Mundus alter et idem. L’utopia ‘estetica’ nei Frammenti di Novalis, in F. M., Le stanze del labirinto. Saggi teorici e altri scritti, a cura di U. Fadini e con una prefazione di S. Givone, Ponte alle Grazie, Firenze 1990, pp. 93-111.

[5] G. Benn, Mondo dorico. Indagine sui rapporti fra arte e potenza, in G. B., Lo smalto sul nulla, cit., p. 207.

[6] G. Benn, Oltre il nichilismo, in G. B., Lo smalto sul nulla, cit., p. 134 e sgg.

[7] F. Masini. Gottfried Benn e il mito del nichilismo, Marsilio, Padova 1968, p. 103.

[8] F. Masini, Fascinazione del nichilismo, in F. M., La via eccentrica, Marietti, Casale Monferrato 1986, p. 147 e sgg.

[9] Ivi, p.149.

[10] Ivi, p.150.

[11] Ivi, p.151.

[12] Ivi, p.152.

[13] G. Deleuze, Per farla finita con il giudizio, in G. D., Critica e clinica, trad. di Alberto Panaro, Cortina, Milano 1996, pp.171-172.

[14] Ivi, pp.172-173.

[15] Ivi, p.174.

[16] Ivi, p.176.