Sulla «guerra giusta». Note genealogiche – di Alessandro Simoncini

Sulla «guerra giusta». Note genealogiche – di Alessandro Simoncini

6 Gennaio 2023 Off di Francesco Biagi

Tra i non molti che hanno sottolineato la rilevanza semantico-concettuale della locuzione «operazione militare speciale» con cui la federazione russa ha legittimato l’invasione dell’Ucraina, Alessandro Colombo ha osservato come essa sia il calco gemellare di un’altra locuzione: quella di «operazione di polizia internazionale», con cui una coalizione di potenze militari occidentali egemonizzate dagli Stati Uniti aveva giustificato nel 1990-91 la prima guerra del Golfo contro l’Iraq[1]. Con questa guerra quelle forze intendevano avviare la transizione verso un New World Order in cui – si prometteva – nelle relazioni internazionali la Giustizia avrebbe sradicato l’ingiustizia e il Bene avrebbe trionfato sul Male. Colombo sostiene che la nozione di «operazione militare speciale» – questa «sorta di ruvida traduzione in russo della nozione euroamericana» – ha lo stesso scopo del suo calco originario «operazione di polizia internazionale»[2]. Serve cioè a ricorrere alla guerra nascondendola «dietro una nebbia di eufemismi», mentre se ne proclama l’incontestabile giustizia[3].

In altri termini oggi, insieme ad eserciti che rimettono in gioco la realtà della vecchia guerra in uno scontro tra imperialismi – imperialismi che non sono più quelli degli Stati nazionali otto e novecenteschi ma quelli di «grandi Stati» che operano in un sistema mondiale in cui si diffonde rapidamente un regime di guerra segnato da «riarmo, esercitazioni, toni nazionalisti esacerbati» (nel corso di una transizione egemonica segnata da un virulento multipolarismo ultra-competitivo, dalla crisi delle catene globali del valore e da marcati processi di de-globalizzazione selettiva)[4] –, combattono anche due nuovi usi della grammatica della «guerra giusta»: da una parte quello che giustifica l’«operazione militare speciale» con la necessità di mondare e denazificare l’Ucraina, dall’altra quello che investe le truppe regolari ucraine «del ruolo di difensori del “mondo libero”» e della «democrazia» contro l’«autocrazia»: tutti termini utilizzati come significanti vuoti[5]. In una sorta di «trionfo contemporaneo della guerra giusta»[6].

Di quest’ultima e della sua grammatica, a cui fin dal termine della guerra fredda non si è cessato di fare ricorso, non è quindi forse inutile ricordare la genealogia[7].

 

1) Sulla guerra giusta nell’età medioevale. Provenienza e logica del bellum justum

 

Accreditando l’idea di una provenienza greco-romana del discorso sul bellum justum, Roland Bainton ha ricordato come l’idea di una guerra che «per poter essere considerata giusta deve avere come obiettivo la rivendicazione della giustizia e il ristabilimento della pace» risalga a Platone e si ritrovi successivamente in Cicerone[8]. Danilo Zolo ha poi sottolineato che «il monoteismo cattolico […] ha in parte accolto e in larga parte rielaborato in chiave moralistica l’idea vetero-israelitica della guerra santa», mostrando così come il bellum justum dei cristiani trovi genealogicamente il proprio luogo di provenienza nelle pagine del Deuteronomio dove la «guerra santa obbligatoria» appare come «guerra di annientamento dei nemici del popolo di Dio»[9]. Di certo, però, il discorso della «guerra giusta» acquisisce egemonia epistemica nel cristianesimo medievale.

La guerra giusta medievale viene teorizzata e formalizzata come una guerra tra diversi. La guerra è concepita cioè come uno scontro tra il bene e il male che, proprio per questo, non richiede altre legittimazioni oltre a quelle fornite dall’«ordine dell’essere»: si fa guerra perché si deve combattere il male e restaurare l’ordine voluto da Dio[10]. Per il complesso dottrinale della tradizione cristiana medievale, la guerra condotta all’esterno della respublica christiana sarà «giusta» se finalizzata alla tutela dell’ordine divino, alla crociata o alla conquista di territori da evangelizzare (sarà il caso delle guerre che seguiranno la scoperta dell’America). Ciò che resta esterno alla validità universale del potere imperiale o della religione di Sancta Romana Ecclesia va ricondotto a un ordine ontologico al quale è sfuggito violandolo[11].

È così già in Agostino di Ippona che, dopo il patto tra Impero e chiesa voluto da Costantino, piega l’interpretazione della guerra che Cicerone aveva esposto in De officiis, II alla propria concezione teologico-politica della realtà. Per lui nella città degli uomini la pace è sempre incerta e la guerra può disordinare in ogni momento la trama della realtà. Popoli nemici, brama di potere, diffidenza possono ingenerare un’ingiustizia e una violazione dell’ordo rerum a cui sarà necessario rispondere con il bellum justum voluto da Dio «per punire la corruzione dei popoli e per educare le genti alla vita pacifica»[12]. Con Agostino il volere divino diviene la «suprema giustificazione del conflitto armato»: ha inizio così una concezione morale della guerra che ne marginalizza la valenza giuridica[13]. Anche se non è direttamente voluta da Dio, per Agostino la finalità dichiarata della guerra è quella di realizzare una pace – «pax finis belli»[14] – che sia all’altezza dell’ordo naturalis voluto da Dio: la guerra, strumento della volontà divina, deve ricomporre l’infranto.

Rifacendosi all’auctoritas di Agostino e rileggendo la canonistica raccolta nel Decretum Gratiani (II, 23), Tommaso d’Aquino formalizzerà i principi fondamentali del bellum justum: «l’auctoritas principis, la guerra doveva essere dichiarata dall’autorità legale; la justa causa, la guerra doveva essere dettata da una giusta causa; la recta intentio, la guerra doveva perseguire il bene contro il male»[15]. Con Tommaso la giusta causa diventa culpa da punire e la guerra – che pure è in sé peccaminosa – appare ormai necessaria a rimuovere le condizioni che turbano l’ordine morale dell’essere: ordine che ogni cristiano deve conoscere e rispettare. In altri termini, nella problematizzazione del bellum justum l’evento bellico non può essere legittimato dalla semplice differenza di religione. Il suo fine dichiarato non è mai lo sterminio fine a se stesso dell’infedele, ma la riabilitazione della giustizia e della pace attraverso la punizione di chi le ha offese.

Insomma, nel pensiero cristiano della guerra ordo e pax collimano e la guerra è lo strumento per preservarne l’equilibrio. Il bellum justum è legittimo purché sia combattuto sotto la responsabilità delle autorità politiche, con mezzi leciti, per buone ragioni (o per autodifesa) e rispettando le norme etiche stabilite dalle autorità religiose. E perché ciò accada servono tanto una dichiarazione formale e l’osservanza dei trattati, quanto la garanzia di incolumità per gli innocenti e di un trattamento umano per i prigionieri. Come scrive Zolo, «i militi cristiani erano tenuti a risparmiare la vita e i beni dei non combattenti e a rispettare un criterio di proporzione tra i giusti obiettivi della guerra e il sacrificio di vite umane»[16].

Sulla traccia di quanto sostenuto da Carl Schmitt nel suo Il nomos della terra, Zolo ha recentemente schematizzato i tre aspetti concettualmente più rilevanti del bellum justum[17]. In primo luogo, si tratta di una guerra essenzialmente terrestre combattuta da due eserciti che confliggono frontalmente – e per una lunga fase storica senza polvere da sparo – entro un territorio molto ben delimitato.  In secondo luogo, dal punto di vista dottrinario, si dà bellum justum solo se i re e i principi cristiani riconoscono l’autorità spirituale, suprema ed universale, del pontefice romano. Il papa, che legittima consacrandolo il potere dell’imperatore, «è un’autorità monoteistica imperiale»[18]. Infine, per il complesso dottrinario del bellum justum, sia le crociate che le guerre di missione ed evangelizzazione erano da considerare giuste in sé, difensive o offensive che fossero, successive agli attacchi dell’infedele o meramente preventive.

Anche se le crociate non rispondevano a tutti i criteri teologici pensati per la teorizzazione della guerra giusta – e si configuravano piuttosto come «guerre di volontari ispirati da Dio che prendono la croce e combattono in nome di un ordine divino non necessariamente trasmesso attraverso le autorità della chiesa»[19] –, chi lottava contro la cristianità era ritenuto intimamente ingiusto e perciò stesso criminale. Il sangue versato dagli arabi, dagli ebrei, dai turchi non dispiaceva alla volontà divina: così credevano i teorici di quello che veniva definito bellum justissimus e talvolta bellum sacrum[20]. In questo afflato a ripulire lo spazio interno (e almeno tendenzialmente quello esterno) dalla presenza dei nemici della vera religione, nella dottrina cristiana della guerra giusta – come nella dottrina islamica del «grande Jihad» – emerge per Zolo il lascito della dottrina ebraica della «guerra santa». E l’universalismo umanitario cristiano si arrestava «ai confini ideali del “monoteismo”»[21].

 

2) Sulla guerra giusta nella prima età moderna: Erasmo, Machiavelli, Sepúlveda

 

Tra il XVI e il XVII secolo, mentre sullo sfondo politico del continente europeo restava attuale il vecchio problema della minaccia sempre incombente di un’invasione turca, all’interno della cristianità si consumava la lacerante frattura delle guerre civili di religione e al suo esterno si realizzavano le imponenti imprese che avrebbero condotto alla colonizzazione delle terre d’America. L’intero dibattito sulla guerra restava dominato dalla questione religiosa per eccellenza: quella della giustizia posto nella Summa Teologica di Tommaso.

Intorno a questa dottrina si accenderà una disputa. Erasmo da Rotterdam la criticherà senza limitarsi all’«irenismo radicale» già espresso nel Dulce bellum inexpertis[22]. In quell’opera Erasmo aveva segnalato la natura controproducente della guerra giusta – poiché i danni da essa provenienti sono sempre maggiori di quelli causati da chi ha offeso la giustizia divina –, sottolineando al contempo l’intima contrarietà della guerra in sé alla natura umana (essenzialmente pacifica) e agli insegnamenti di Cristo (fondati sulla carità)[23]. Nella Querela pacis porterà più a fondo l’attacco. Sosterrà, infatti, che mentre all’interno dello spazio statale il potere giudiziario poteva dirimere gli scontri restando super partes, nello spazio politico esterno – dove le volontà di potenza degli Stati si contrapponevano in assenza di ogni autorità terza – ciascun singolo contendente avrebbe potuto fabbricarsi da sé le argomentazioni valide per combattere una guerra giusta di aggressione e di conquista[24]. Secondo Erasmo, «giusta» non avrebbe mai potuto definirsi la guerra offensiva tra cristiani, ma solamente quella concepita dallo «zelo schietto e devoto» dei fedeli in risposta ad attacchi esterni e alla «violenza di barbari aggressori»[25]. Insomma, anche il pacifista Erasmo non poteva sottrarsi completamente alle teorie della guerra giusta pur essendo il primo a contrastarne radicalmente i presupposti[26].

Nello stesso periodo Machiavelli anticipava il «silete theolgi in munere alieno» con cui Alberico Gentili avrebbe sintetizzato la necessità che la guerra sortisse dall’angusto discorso teologico per entrare recisamente nel campo della riflessione giuridico-politica[27]. Facendo della guerra un evento inevitabile e strettamente collegato alle contingenze della politica, Machiavelli poneva le basi per il successivo rigetto dell’astrazione del rapporto tra guerra e giustizia. In anticipo sui tempi, e sulla base dell’adozione del modello repubblicano di una libera e virtuosa cittadinanza in armi (nei Discorsi sulla prima deca di Tito Livio e nel Principe), il Segretario fiorentino sostituiva il discorso della guerra giusta con una disincantata analisi della relazione tra «buone leggi» e «buone arme»[28]. La guerra, insomma, non ha bisogno di giustificazioni religiose: essa «si legittima da sé come naturale manifestazione della finalità della politica, ossia la potenza e la gloria»[29]. La guerra è la stessa cosa della politica e il nemico non è un mostro disumano, bensì un’entità politicamente connotata e in quanto tale continuamente ricorrente.

Intanto, con un moto di pensiero diametralmente opposto,  i teologi cattolici – che si sentivano incalzati dalla Riforma, dalla paura dei turchi e dalla scoperta del Nuovo mondo – continuavano a «calare sulla violenza belluina della forza i pannicelli caldi della teoria»[30]. Il discorso della guerra giusta restava per loro un terreno obbligato di riferimento e, sullo sfondo dell’intera discussione in materia, rimaneva attivo l’ovvio riferimento all’idea cristiana della crociata. Così, intorno al 1530 si accese una disputa che manteneva al centro la «vecchia» questione della giustizia delle guerre[31]. Protagonisti ne furono gli anabattisti, Juan Ginés de Sépúlveda, Erasmo da Rotterdam, Martin Lutero e – indirettamente, sullo sfondo – Machiavelli. Il quesito fondamentale era più o meno il seguente: «si deve o non si deve fare la guerra ai turchi?». In un contesto segnato dalla discesa di Carlo V in Italia e dalla minaccia di Solimano (che aveva da poco conquistato l’Ungheria avanzando nei Balcani), Erasmo tornerà ad esercitare la sua corrosiva critica contro la guerra giusta dei cristiani, sostenendo che rispondere ai turchi con i loro stessi metodi di guerra avrebbe reso turchi gli stessi cristiani[32]. Le sue tesi gli costeranno la messa all’indice: la proibizione delle sue opere avvenne ben prima del 1530, ma ancora a quel tempo la voce pacifista di Erasmo si udiva chiaramente seppur sepolta da un profluvio di testi esortanti alla nuova guerra santa, alla nuova crociata di Carlo V contro Solimano.

Una delle teorie più radicali a sostegno della guerra cristiana fu quella di Juan Ginés de Sepúlveda. Nel suo Ad Carolum V imperatorem ut bellum suscipiat in Turcas cohortatio (1529), il teologo spagnolo enfatizzava il mito della difesa della vera religione contro l’infedele ed esortava l’imperatore a combattere i turchi. Era una proposta assai gradita a papa Clemente VII, che vi scorgeva la possibilità di allontanare il potere imperiale dall’Italia impegnando Carlo V in una rischiosa guerra da cui avrebbe corso il pericolo di non tornare mai più. In Vom Kriege wider die Türken (1529), anche Lutero prese la parola per attaccare la cristianità romana corrotta: sarebbe stato del tutto inutile opporsi all’attacco dei turchi  – scriveva – dal momento che la loro avanzata era voluta da un Dio particolarmente adirato per i peccati compiuti dai cristiani. Questa posizione non impediva certo a Lutero di aderire alla dottrina tradizionale del bellum justum e – in Sull’autorità secolare (1524), nel contesto delle rivolte dei contadini tedeschi – sosteneva che, durante una guerra in cui si difende l’ordine del proprio paese, «è opera cristiana e opera dell’amore uccidere di buon animo i nemici, predare e bruciare e fare tutto quello che arreca danno finché non li si vinca, secondo il corso della guerra, guardandosi però dal commettere peccato violentando donne e vergini»[33].

A queste voci Erasmo tornò ad opporsi nella sua Ultimissima consultatio de Bello Turcis inferendo et obiter enarratus Psalmus XXVIII (1530). La guerra contro i turchi poteva essere combattuta – sosteneva –, ma solo a patto di non comportarsi da turchi, come troppo spesso era capitato ai fedeli di Cristo. Anche se in questo modo, come si è detto, tradiva la sua intima partecipazione ad un ordine del discorso che marcava una netta frattura tra civili ed incivili, giusti ed ingiusti, Erasmo sviluppava qui la sua radicale critica a quell’intolleranza che – estendendosi inevitabilmente dal turco, all’ebreo, all’eretico – avrebbe gettato l’Europa e i suoi popoli nell’ecatombe delle guerre di religione. Nel Democrates, sive de convenientia disciplinae militaris cum christiana religione dialogus (1535), Sepúlveda ribadì la definizione delle giuste cause della guerra, rivolgendosi contro il suo reale obiettivo polemico: Machiavelli. Al Segretario fiorentino veniva rimproverato di avere sostenuto la superiorità di Roma repubblicana e la supremazia della salus pubblica nei confronti di un cristianesimo ritenuto responsabile della decadenza italiana, perché colpevolmente lontano dalla virtù militare e civile degli antichi e tutto intento alla sola salus animarum. Per Sepúlveda invece il cristianesimo era la gagliarda religione delle guerre sante che avevano forgiato il carattere del sodato spagnolo devoto e crudele, capace di guidare il proprio paese alla reconquista. Agli occhi del teologo quel tipo di soldato e di uomo stavano quindi alla base della stessa potenza spagnola, la cui evidenza poteva essere confermata da un semplice sguardo all’impero sorto aldilà dell’atlantico.

 

3) Guerra giusta e conquista delle Americhe: tra Las Casas, Sepúlveda e Vitoria

 

Le guerre nelle Indie facevano registrare i travolgenti successi delle armate spagnole e portoghesi senza grandi turbamenti di coscienza. Per buona parte degli intellettuali cristiani del tempo quelle guerre erano intimamente giuste. Com’è noto sarà Bartolomé de Las Casas a incaricarsi di descrivere con una cronaca dettagliata il volto oscuro della cosiddetta scoperta del Nuovo continente. La Brevissima relazione della distruzione delle Indie (1552) e la Storia delle Indie (1561) mettevano impietosamente a nudo il più grande genocidio della storia narrando dei massacri provocati sia dal vaiolo, esportato dai conquistadores e dalle armi, sia dalla schiavitù e dai lavori forzati, a cui erano stati sottoposti gli indios superstiti[34]. Come ha scritto Zolo, nelle Americhe il sangue scorreva «per eseguire la volontà di Dio, in nome dell’imperatore Carlo V e con l’esplicita benedizione dei pontefici romani, da Alessandro VI a Giulio II, a Clemente VII»[35]. Quest’ultimo era stato l’autore della Bolla Intra Arcana del 1529, che in accordo con le teorie agostiniane più volte richiamate dallo stesso Sepúlveda esortava il re di Spagna a condurre le «nazioni barbare alla conoscenza del Dio autore e creatore di tutte le cose anche con le armi e la forza, affinché le loro anime fossero obbligate a far parte del regno celeste»[36].

Adriano Prosperi ha osservato che «in nome o sotto il pretesto della “guerra giusta” […] furono elaborate le finzioni giuridiche che dettero avvio al maggior impero coloniale della storia»[37]. Il Requerimiento del 1514, scritto dal giurista regio Palacios Rubias, fondava la legittimità del dominio spagnolo nelle terre d’America e fissava le presunte ragioni giuridiche della conquista. Chiunque vi si opponesse era considerato ribelle e contro i ribelli la guerra appariva come un atto giusto in sé. Grazie al riadattamento delle tesi aristoteliche alla mattanza americana, Sepúlveda promosse attivamente una inferiorizzazione razzista degli indios – che chiamava humunculi – sostenendo che fossero servi per natura giacché incapaci di autogoverno e dediti ad ogni sorta di atto innaturale, come i sacrifici umani, la sodomia, l’omosessualità o l’antropofagia. I re cristiani avevano il dovere di impedire simili nefandezze anche con la guerra.

Oltre a Las Casas, anche il domenicano Francisco de Vitoria si oppose alle tesi di Sepúlveda[38]. Secondo l’interpretazione che dei testi sacri davano i domenicani, le motivazioni religiose non potevano bastare ad espropriare i sovrani dei popoli del Nuovo Mondo dei loro legittimi possedimenti[39]. «Non è lecito impugnare le armi contro chi non ci arreca danno poiché uccidere gli innocenti è proibito dalla legge naturale»[40]: a quel tempo le parole di Vitoria, pronunciate in una delle massime istituzioni culturali ecclesiastiche, rappresentarono un sonoro grido di denuncia della prassi bellica spagnola. Secondo Prosperi, dalle opere di Vitoria era infatti possibile desumere «il principio dell’obbligo di resistenza all’autorità ingiusta»[41]. Tuttavia, per il teologo domenicano il diritto-dovere di evangelizzare gli infedeli e la differenza di valore tra cristiano e non cristiano non erano certo in discussione. Né lo era l’idea che la guerra giusta fosse lecita, anzi doverosa, per i cristiani. Ma, insieme alla conquista a cui conduceva, essa doveva essere normata secondo le regole di un diritto naturale razionale non più semplicemente identificabile con l’auctoritas papale, bensì aperto ad un nuovo jus gentium: un «embrionale diritto tra Stati»[42].

Come insegnavano Agostino e Tommaso, per Vitoria la guerra era giusta solo quando poteva rivelarsi capace di punire gravi offese ricevute[43]. Nel caso delle Americhe, l’«iniuria accepta» consisteva nel fatto che gli indigeni avevano violato lo Jus gentium opponendo illegittima resistenza all’esercizio di diritti come lo jus migrandi, lo jus communicationis ac societatis, lo jus commercii, lo jus predicandi et annuntiandi Evangelium, lo jus peregrinandi, di cui tutti gli esseri umani per Vitoria erano titolari. Opponendosi all’accesso degli spagnoli nei loro territori, gli indios avevano impedito l’esercizio di questi diritti[44]. Inoltre avevano compiuto un peccato di autarchia: non valorizzando le proprie terre e non permettendo di farlo a chi avrebbe saputo e potuto – gli spagnoli –, essi bloccavano la circolazione dell’umanità sul pianeta e impedivano che tutti gli uomini potessero godere liberamente delle sue ricchezze. Possessori come tutti gli esseri umani dello «jus dominium», per Vitoria gli indios erano però dotati solo di una debole razionalità corrotta da un’educazione «mala et barbara» che li rendeva «insensati et hebetes» in modo non troppo dissimile dai nostri «rustici»[45]. Potevano quindi essere assoggettati per il loro stesso bene[46].

Una volta appurata la justa causa e la connessione tra ragione, morale e violenza, secondo Vitoria diventava legittimo «respingere le offese con la guerra» e doveroso combattere[47]. Terminati i combattimenti, soprattutto nel «caso della guerra contro gli infedeli, dai quali non ci si può mai aspettare una pace, a nessuna condizione» – sosteneva Vitoria – «la sicurezza non può essere ottenuta se non attraverso l’eliminazione di tutti i nemici»[48]. In fin dei conti Vitoria – il cui più moderno apporto consiste nell’aver preferito la legittimazione giuridica dell’evento bellico a quella meramente religiosa – «metteva da parte il valore della mitezza evangelica e sposava la tesi della moralità della guerra, caratteristica di un cristianesimo integrato entro le strutture temporali del potere imperiale»[49].

La logica della guerra giusta non resterà limitata alle sole guerre americane o a quelle combattute contro i turchi, intesi come «hostes perpetui», ma verrà utilizzata anche nelle guerre civili di religione che tra Cinque e Seicento insanguineranno l’Europa[50]. Rotta l’unità della respublica christiana, i cattolici si convinceranno che «solo l’igiene della guerra poteva ripulire quei popoli corrotti dall’eccesso di lettura» della Bibbia tradotta in volgare[51]. I contendenti si fronteggeranno nel sangue, criminalizzandosi e disumanizzandosi reciprocamente. E durante la Guerra dei trent’anni la grammatica della guerra giusta raggiungerà la sua massima affermazione.

 

4) Dal bellum justum al modello Westfalia

 

Sul terreno viene però definitivamente sconfitto «il nuovo tentativo dell’Impero cattolico degli Asburgo di cancellare le differenze di confessione e di imporre una supremazia sul continente»[52]. E a partire dalla pace di Westfalia (1648) si afferma il principio dell’equilibrio di potenza tra gli Stati, che si imporrà come il cardine dello jus publicum europaeum[53]. È in questo contesto che il paradigma della guerra giusta entra in crisi e nasce quello moderno.

Sul piano interno la modernità politica punta a neutralizzare la guerra civile di religione. All’idea di un ordine fondato sulle verità ultime e sulla trascendenza se ne sostituisce un’altra di tipo costruttivista. I nuovi Stati sembrano seguire il modello hobbesiano del Leviatano e vengono progressivamente allestiti come dispositivi di sicurezza che concentrano in sé la violenza legittima allo scopo di costruire un ordine capace di impedire il ritorno della guerra civile, o di uno stato di natura entro il quale la vita diventa «solitaria, misera, sgradevole, brutale e breve»[54]. L’ordine interno è assicurato dal diritto. Dietro c’è la violenza dello Stato, il cui «potere informe» e la cui «presenza spettrale» sono da sempre attivi «per ogni dove nella vita degli Stati civilizzati»[55]. «La polizia di Stato o violenza di diritto è […] una violenza strutturale, incorporata»[56]. Veglia cioè sul lavoro quotidiano svolto dagli apparati disciplinari e dai dispositivi di governo delle popolazioni deputati alla presa in cura del «pulviscolo più elementare, del fenomeno più passeggero dell’ordine sociale»[57].

Anche sul piano esterno si punta a ridurre la potenzialità distruttiva delle guerre. La pace di Westfalia pone le basi per superarne il furore religioso assoluto e moralistico. Nello spazio politico europeo la guerra non viene più concettualizzata come «guerra giusta», ma come atto di sovranità di pertinenza esclusiva degli Stati. L’Europa è concepita come un grande spazio politico interstatale al cui interno si muovono le ambizioni e le mire  dei singoli Leviatani. Sono gli Stati sovrani i soli a detenere lo jus ad bellum e a poter mobilitare i propri eserciti secondo le regole dello jus in bello. Ma non possono e non devono più nutrire ambizioni universalistiche: lo Stato non è un Impero e Roma non può più essere il suo modello[58]. Ormai «ogni sovrano […] è un imperatore nel suo regno»[59]. La Chiesa e l’Impero ridimensionano vocazione teleologica e ambizioni universalistiche. La spazialità del potere si fa molteplice, la temporalità politica si apre. Ormai privi di finalità esteriori ed escatologiche, gli Stati trovano nell’incremento delle proprie forze il loro unico scopo. Si situano, cioè, «uno accanto all’altro in un tempo aperto e senza termine» e «in uno spazio di concorrenza» relativo alla circolazione monetaria, al commercio, al dominio dei mari, alla conquista coloniale[60].

Il principio dell’equilibrio interstatale europeo, già contenuto nelle istruzioni fornite agli ambasciatori convenuti a Westfalia dai loro governi, risponde al caos provocato dalla guerra dei Trent’anni con un sistema di sicurezza che pone gli Stati «gli uni di fronte agli altri […], tutti inclini ad ambire all’affermazione di se stessi» senza più sogni imperiali[61]. Il nuovo ordine westfaliano nasce cioè come una fisica ultradinamica degli Stati «in cui delle forze antagoniste variabili si esercitano l’una con l’altra, l’una contro l’altra, attraverso urti violenti e aleatori»[62]. La guerra ne è quindi uno strumento costitutivo ed implicito. Ma mutano profondamente le sue funzioni, le sue forme, le sue giustificazioni. Non si farà più guerra per dirimere l’ingiustizia disvelando il giudizio di Dio, ma per preservare la sicurezza e l’equilibrio europei: «non si è più in una guerra del diritto – scrive Foucault –, bensì in una guerra dello Stato, della ragion di Stato»[63]. Le nuove guerre saranno certamente spietate ma il nemico è ora uno justus hostis. Non è più un mostro da sottomettere a un’ecumene religiosa che detiene il monopolio della giustizia. È solo l’avversario di un duello tra justi hostes detentori dello jus ad bellum e capaci di gestire lo jus in bello[64]. La guerra è una contingenza ineliminabile, ma deve essere inquadrata entro schemi e regole che ne riducano la potenza distruttrice. L’ordine westfaliano abbandona le premesse etico-teologiche della guerra giusta e sancisce «il mutamento dalla guerra civile confessionale dei secoli XVI e XVII alla “guerra in forma”, ovvero alla guerra tra gli Stati del diritto internazionale europeo»[65]. Gli Stati sono ormai in grado di «sostenere la legittimità etica e giuridica della propria guerra»[66].

Nel contesto di un’Europa in cui «ragione e potenza non possono che coesistere, contraddittoriamente», è Emmerich de Vattel – che nel 1759 conierà il concetto di «guerre en forme» – a incarnare sul piano teorico la maturità pratica del nuovo modo di pensare la guerra[67]. La «guerra giusta» va per lui rigettata. E non va esaltata la guerra di conquista o di offesa. Dal momento però che la nuova ragion di Stato la richiede come espressione della legittima volontà di potenza dei singoli Stati, la guerra va accettata e subordinata al principio dell’equilibrio interstatale. Va «addomesticata giuridicamente»[68]. Accettando anche un’«anarchia internazionale» tollerabile perché, in un contesto «privo di un potere superiore agli Stati», si rivela capace di produrre un equilibrio gerarchico che esclude il ritorno degli universalismi religiosi o imperiali[69]. Ma che prevede invece, costitutivamente, gli imperialismi. Il «modello Westfalia»[70] ha infatti in sé uno squilibrio verso il resto del mondo. Fuori d’Europa, in assenza di justi hostes, gli europei «non fanno “guerre”, ma “conquiste”, somministrano “punizioni”, elargiscono “protezioni” senza sentirsi obbligati ad alcuna forma di jus in bello»[71]. Oltre certe «linee di amicizia» le regole della guerre en forme cessano di valere e si rovesciano nell’arbitrio scatenato[72].  Inizia «il regno di Kurtz, l’eroe di Cuore di tenebra di Conrad»: quello in cui si può liberamente esercitare una «passione di dominio distruttiva e illimitata»[73].

Alla vigilia della Rivoluzione francese Friedrich Schiller sintetizzerà così il senso dell’equilibrio westfaliano: «una guerra perennemente armata tutela ora la pace e l’egoismo di uno Stato fa di esso il custode del benessere dell’altro. La società statale europea sembra trasformata in una grande famiglia»[74]: una famiglia i cui componenti sono l’uno contro l’altro armati. Anche per questo il modello Westfalia sarà presto sottoposto a importanti critiche teoriche che, insieme alla prassi incarnata dagli eventi della storia, lo condurranno a una lenta e progressiva crisi.

 

5) Critica e crisi del modello Westfalia. Tra Kant e Clausewitz

 

Contro il modello westfaliano Kant formulerà una delle critiche più articolate e influenti. Per lui l’equilibrio a cui quel modello dà forma è «una pura illusione»[75]. Il nuovo ordine interstatale europeo gli appare «come quella casa di Swift […] che appena vi si posò un passero […] crollò»[76]. Infatti il realismo westfaliano considera la guerra come un orizzonte inevitabile e insuperabile asservito alla volontà di potenza degli Stati, incarnazioni viventi di particolarismi ed egoismi sovrani che usurpano alla ragione la capacità universale di liberare il mondo dallo spettro bellico. Per Kant, invece, la guerra in quanto tale è un crimine che mette radici proprio nella sovranità statale: da ogni Leviatano, infatti, il proprio omologo non può che essere concepito come potenziale nemico e tendenziale ostacolo da rimuovere al fine di poter aumentare la propria potenza. Se il sistema internazionale degli Stati è costellato di simili «nuclei di razionalità egoistica, utilitaristica e strumentale», risulta allora evidente che al suo interno la guerra resterà sempre in agguato[77].

Per il filosofo tedesco occorre invece sottrarre la ragione e i suoi principi universali di trasparenza e pubblicità alla cattura degli Stati e alla loro politica di potenza, che si nutre dell’opacità e del segreto[78]. Lo si potrà fare solamente costruendo Stati repubblicani capaci di federarsi su scala internazionale contro i nazionalismi, per la graduale abolizione del diritto di guerra in capo agli Stati stessi[79]. Solo così si potrà negare la guerra, azzerando progressivamente le sue condizioni di possibilità. Nonostante in Per la pace perpetua (1795) riconosca un ruolo «positivo» alla guerra – quello di spingere gli uomini a popolare ogni zona della terra –, Kant pensa a un ordine internazionale inteso come una cosmopoli capace di espungere il fatto bellico dalla storia. Ben diversamente dallo stato di natura hobbesiano, Per Kant è la natura che spinge gli uomini a fuggire lo spettro della guerra e a raggrupparsi in popoli e Stati che intrattengono tra loro rapporti sempre più pacifici, fondati essenzialmente sulle relazioni giuridiche e sullo scambio commerciale. Nella cosmopoli sarà realizzata la pace perpetua sotto la guida dell’imperativo morale universale della ragione, incarnata da un diritto internazionale che si fa universale imponendo vincoli decisivi alla volontà di potenza degli Stati. «Nessuno Stato – scrive Kant – deve intromettersi con la forza nella costituzione e nel governo di un altro Stato», altrimenti «l’unica giustizia è quella del vincitore»[80].

Come sappiamo, la vicenda del XVII e del XVIII secolo sarà invece costellata di guerre che hanno per protagonisti i grandi Stati e che rispondono ai principi del modello Westfalia. Con la Rivoluzione francese apparirà chiaro, però, che la guerra non è più solo una semplice «faccenda di Stato», ma diventa anche e soprattutto «fatto sociale e di popolo»[81]: un «popolo in armi» capace tanto di abbattere gli steccati dinastici e cetuali che lo separano dal potere, quanto di sconfiggere l’assolutismo incarnando la forma della nazione. Quest’ultima si rileva dapprima in grado di «tagliare la testa al re», poi – dopo la sconfitta di chi continuava a lottare in nome dell’«egaliberté»[82] – di farsi ancora una volta Stato per proiettarsi all’esterno con le guerre napoleoniche. La nuova «anima» dello Stato, il suo spirito vivente – quel terzo stato, quella borghesia che si fa appunto nazione e si impone come il nuovo soggetto del XIX secolo – modifica le logiche di fondo della macchina statale. E lo fa a partire da un’irruzione violenta nello spazio interno – che definisce nuove divisioni di classe –, subito doppiata dalla guerra all’esterno del popolo in armi.

Nello spazio interstatale del XIX secolo si aggira dunque minacciosamente un nuovo spettro di guerra: il popolo che si fa nazione. Le guerre napoleoniche ne sono la prima manifestazione. Per restituire il nocciolo concettuale decisivo delle nuove  guerre «nazionali», con riferimento a Clausewitz, Carlo Galli ha parlato di una «guerra assoluta reale» che mediante la partecipazione dei popoli ha raggiunto il massimo della sua potenza e si è avvicinata molto «alla sua essenza originaria e alla sua perfezione assoluta»[83]. La guerra di Ancien Régime – descritta nel primo libro di Vom Kriege – restava circoscritta all’ambito militare ed era modellata sullo schema bellico del duello, in cui l’«ascesa agli estremi» conduceva alla distruzione reciproca i due avversari. Tenendo sotto gli occhi gli esiti degli eventi rivoluzionari e delle guerre napoleoniche, Clausewitz sostiene che quel modello di guerra è ormai seriamente compromesso, forse in modo irreversibile. Per effetto delle leggi approvate dalla Costituente rivoluzionaria, infatti, il servizio militare era divenuto obbligatorio e generale: con la levée en masse il vecchio esercito professionale di Ancien Régime fondato sui privilegi dei ceti cede letteralmente le armi al popolo. Nella Repubblica nata dalla sconfitta dei ceti, trascinato dagli ideali democratici ed umanitari rivoluzionari, il popolo in armi incarna pienamente il principio della sovranità popolare affermato dalla Rivoluzione.

Per i giacobini, le autocrazie europee combattono contro la Rivoluzione secondo le logiche del bellum justum individuando nei rivoluzionari semplici regicidi da giustiziare. Le monarchie straniere, che si coalizzano per sconfiggere il nuovo Stato repubblicano e rivoluzionario opponendosi sia al principio della sovranità popolare che agli ideali democratici, non dovranno quindi più essere considerate come semplici nemici secondo i criteri dello jus publicum europaeum. Lo Stato repubblicano dovrà giudicare le nazioni nemiche e reazionarie alla stregua di criminali comuni internazionali. Le autocrazie diventano «nemici dell’Umanità» con cui sarà impossibile stipulare una pace. E le parole di Robespierre lo confermano: «quelli che fanno la guerra a un popolo per arrestare i progressi della libertà e annientare i diritti dell’uomo, devono essere perseguiti da tutti, non come nemici ordinari (justi hostes) ma come assassini e briganti ribelli»[84]. Il conflitto tra l’Umanità e i suoi nemici è ora radicale: il popolo rivoluzionario si fa «nazione in armi, in guerra contro se stessa per purificarsi e contro il resto del mondo per liberarlo»[85].

Riemerge dunque la questione della giustizia: non più per restaurare l’ordine leso della divinità, come nel bellum justum medievale, ma per costruire il regno dei lumi. Con l’«universalismo secolarizzato» della Rivoluzione, la guerra diviene una «pedagogia politica» che mette la ragione repubblicana al posto dell’antica fede tra i valori da esportare, in nome del rischiaramento delle tenebre e della superstizione[86]. La «guerra in forma», dove gli Stati sovrani sono da ritenersi giuridicamente uguali tra loro, è già in crisi. Si apre il varco per quella modalità del conflitto assoluto in cui, secondo Clausewitz, «i mezzi impiegabili, gli sforzi possibili non ebbero più un limite conosciuto», travolti dall’«esaltazione veemente dei sentimenti»[87]. Le guerre «assolute reali» napoleoniche rappresentano il «primo segnale di crisi del sistema westfaliano»[88]. Con una «forza militare appoggiata a tutta la potenza della nazione», esse riporteranno sulla scena europea lo spettro dell’impero[89]: cacciato dalla porta con la pace di Westfalia quel fantasma si affaccia di nuovo alle finestre d’Europa per dominarne lo spazio politico, sconvolgendo così l’equilibrio tra potenze sancito alla fine della mattanza delle guerre di religione. Con le sconfitte di Napoleone nella campagna di Russia e a Waterloo, l’impero francese sarà sconfitto. L’equilibrio interstatale europeo sarà restaurato, riabilitando in qualche modo le logiche e le categorie dell’ordine westfaliano.

Al Congresso di Vienna (1814-1815) si scontrarono due diverse linee diplomatiche e due diversi obiettivi, dalla cui mediazione scaturì la configurazione materiale del nuovo equilibrio tra gli stati d’Europa. Sul modello del XVII e del XVIII secolo, la diplomazia austriaca puntava a ricostruire un ordine che prevedesse l’equilibrio di potenza tra Stati di polizia; quella inglese, invece, mirava ad un ordine interstatale che lasciasse alla nazione britannica «il ruolo di mediatore economico tra l’Europa e il mercato mondiale»[90]. In questo modo avrebbe potuto sfruttare, da un punto di vista nazionale ed imperialista, la centralità economica dell’Europa stessa. La logica era più o meno questa: se il resto del mondo è un mercato per l’Europa, saranno gli inglesi. favoriti per posizione e per potenza, ad approfittarne. Sullo sfondo covava l’aggressiva propensione imperialista degli Stati europei.

Lo Stato borghese ottocentesco sarebbe divenuto sempre più «Stato militare», capitalizzando il «potere ctonio del popolo […] esploso nella grande rivoluzione francese»[91]. Parte integrante – insieme al condottiero militare (la libera attività dell’anima) e al governo (la pura e semplice ragione) – di quello «strano triedro» di forze inseparabili che rappresenta al meglio la guerra, per Clausewitz il popolo ne incarna il lato oscuro: quello che comprende in sé il «cieco istinto» dell’«odio» e dell’«inimicizia»[92]. Il nuovo equilibrio interstatale europeo nato a Vienna tenta di riassorbire e gestire la potenza costituente della nazione in armi. Sotto la spinta della passione popolare-nazionale, però, la guerra può riesplodere in ogni momento sulla scena politica. E un’incontrollabile energia nichilistica scatenerà presto la guerra totale, segnando la fine del modello bellico westfaliano.

 

7) Sulla fine dell’ordine westfaliano

 

Nel corso del XIX secolo la volontà di potenza degli Stati europei aveva proiettato nel resto del mondo l’energia primigenia delle nazioni imperialiste e dei loro popoli in armi. Questi erano stati impiegati in tragiche guerre di conquista nel corso delle quali si affermarono le retoriche razziali della «missione civilizzatrice», il socialdarwinismo, le logiche dello «spazio vitale» che avrebbero aperto la via ai discorsi del nazionalsocialismo[93]. Ai conquistati toccò il ruolo di «selvaggi da civilizzare» (e includere servilmente) o da «sterminare», con una guerra che fuori d’Europa era «sempre a rischio di trasformarsi in genocidio»[94]. Le guerre imperialiste «contenevano già, implicitamente, il principio della guerra totale»[95]. Prescindevano infatti dalle regole del diritto internazionale: non venivano dichiarate e terminavano solo a conquista avvenuta, quando il nemico era distrutto e il paese conquistato veniva completamente sottomesso. Le popolazioni civili erano considerate alla stregua di nemici e la differenza tra civili e combattenti sfumava fino a svanire[96]. Gli alti gradi militari, come il generale Bugeaud in Algeria, potevano così arrivare ad esortare i propri soldati a disimparare i concetti dello jus in bello appresi nelle accademie francesi, poiché nel contesto coloniale occorreva impegnarsi a combattere non tanto «contro un esercito nemico, ma contro un popolo nemico»[97]. Dalla «guerra in forma» si transitava quindi a una «guerra deforme».

Le categorie politiche dell’equilibrio westfaliano verranno travolte dalla catastrofe della prima guerra mondiale, che sarà l’ultima vera guerra interstatale nella quale si celebrerà «il trionfo del potere razionale di comando dello Stato sulla società e al tempo stesso la sua fine, il suo superamento»[98]. La logica della mobilitazione totale sconvolgerà popolazioni civili che subiranno la potenza scatenata del progresso tecnologico applicato alla nuova scienza militare. Tutti saranno coinvolti in una «guerra tecnico/industriale di massa che esce dallo Stato e che invade tutta la società»[99]. Il macabro pantano delle trincee mostrerà con chiarezza a quali approdi conduce la violenza passionale dello Stato-nazione. Il furore bellico fuoriuscirà dal guscio neutralizzante della politica e lo Stato perderà il controllo sul progresso tecnologico, sulla potenza economica, sulle pretese di verità ideologiche dei partiti. La decisione sovrana degli Stati sullo jus ad bellum ha scatenato una guerra nel corso della quale è apparso ormai impossibile applicare in modo concordato i patti e le convenzioni dello jus in bello. La logica westfaliana dell’equilibrio interstatale ne uscirà a pezzi: gli Stati non potevano controllare la guerra perché non riuscivano più a limitarla a uno scontro tra eserciti. Le distinzioni tra l’ambito militare e quello civile erano ormai saltate.

Nella mobilitazione totale i soldati dei disciplinati «eserciti fordisti» erano divenuti «operai della distruzione», assoggettati alla potente macchina di morte approntata dagli Stati moderni[100]. Al contempo le lavoratrici ed i lavoratori comuni – i «soldati della nazione» – erano stati orgogliosamente chiamati a produrre ciò di cui lo sforzo bellico necessitava[101].  La logica seriale ed anonima della fabbrica capitalistica si era estesa alla macchina bellica: come in fabbrica l’«operaio-massa» seguiva i rigidi dettami della disciplina taylorista, così nell’«officina della guerra» il «soldato-massa» adattava la propria capacità di dare la morte all’impersonalità degli ordini e dei compiti ripetitivi che automaticamente svolgeva[102]. Lontano dall’eroismo dei suoi predecessori il nuovo milite appariva come un «soldato senza qualità» capace di entrare in pieno nella dimensione di anonima serialità del lavoro della guerra, diventando l’«ingranaggio docile di un grandioso meccanismo di cui egli ignora tutto, in primo luogo la logica e la finalità, ma che ha bisogno di lui»: come la fabbrica necessita della propria appendice operaia[103].

Come scrisse Ernst Jünger, i paesi belligeranti si erano trasformati in «gigantesche fabbriche di produzione in serie di armi»[104]. La guerra era ormai totale e il nemico veniva sistematicamente criminalizzato e disumanizzato su basi razziste ampiamente sperimentate nelle guerre imperialiste. La concezione westfaliana dello justus hostis era ormai sgretolata e tutto questo svolgeva una funzione laboratoriale per il fascismo e per il nazismo, con i quali l’estetica della guerra avrebbe definitivamente invaso la sfera pubblica[105]. Dopo la drammatica pace di Versailles, la Società delle nazioni avrebbe cercato in modo poco credibile di tutelare l’equilibrio interstatale. Inoltre, dal 1917 in poi – ma già dai tempi della Comune di Parigi e del ’48 – lo spettro dell’insurrezione proletaria e della guerra rivoluzionaria internazionale avrebbe turbato per molto tempo i sonni inquieti delle classi dirigenti occidentali. La sovranità dello Stato, all’interno come all’esterno, era ormai in una crisi irreversibile. L’ordine europeo westfaliano era irrimediabilmente compromesso. Le dinamiche politiche del totalitarismo, che avrebbero amplificato la mobilitazione totale, si sarebbero incaricate di dimostrarlo. I fascismi e il nazismo scateneranno definitivamente il potenziale di guerra custodito nel cuore della politica, fino alla deflagrazione della Seconda guerra mondiale. Nel corso della nuova «guerra civile europea», che marchierà a fuoco il trentennio 1914-1945, le regole westfaliane verranno definitivamente cancellate: la guerra totale travolgerà gli Stati e l’antico duello tra justi hostes non sarà più che un ricordo[106].

La grande mattanza del secondo conflitto mondiale e dei totalitarismi non causerà solo la distruzione dell’equilibrio interstatale moderno, ma anche la nascita di una nuova forma dell’ordine politico. Sulle ceneri della guerra nascerà una spazialità politica mondiale differente da quella classica westfaliano, ma capace a suo modo di tenere a freno il caos e il conflitto totale, come una sorta di katechon paolino. Il nuovo ordine nascerà dalla sovrapposizione tra «lo spazio esterno dell’ordine bipolare internazionale e lo spazio interno dello Stato sociale»[107]. Sul versante esterno, contrariamente ai dettami dell’equilibrio westfaliano, l’ordine tardo-moderno della guerra fredda darà vita a un equilibrio del terrore in cui gli Stati, «incapsulati in uno spazio duale scandito da un principio ordinatore del tipo cuius regio eius oeconomia», dovevano cedere parte decisiva della loro sovranità militare alle due grandi superpotenze[108]. In questo sistema internazionale  dell’insicurezza organizzata, una paradossale pace del terrore disseminata di guerre periferiche si affermava come lo spettro istituzionalizzato del nuovo ordine mondiale.

Dopo il 1989, salterà anche «l’ultimo katechon, l’ultima «forza che trattiene» l’avvento di un tempo nuovo» fatto di disordine e «guerra senza frontiere»[109]. Con la fine dell’ordine westfaliano e con il collasso di quello bipolare – sullo sfondo di una globalizzazione capitalistica a dominante finanziaria –, si aprirà una fase delle relazioni internazionali in cui gli Stati Uniti rilanceranno il progetto di un’egemonia unipolare proponendosi in certi momenti come la «fonte sovrana di un nuovo diritto internazionale»: di un nuovo «Nomos della terra»[110]. La guerra accompagnerà come un basso continuo questo progetto. Fin dalla prima campagna del Golfo (1990-91) – durante la quale il segretario generale delle Nazioni Unite Perez de Cuèllar parlerà di un right to intervene «in the name of morality»[111] – il discorso del Just War[112] non ha mai smesso di calcare la scena e di fornire legittimazioni etiche a guerre presentate di volta in volta come umanitarie, preventive, democratiche. Non si tratta di un semplice ritorno alla vecchia grammatica della guerra giusta. Ma in forme post-westfaliane, e con una nuova concettualità politica, da oltre un trentennio i discorsi sulla giustizia sono tornati ad associarsi ai fatti bellici. In un «proliferare di infinite pretese di guerra giusta […], che prefigurano in realtà una guerra giusta infinita»[113].

 

Note:

[1] A. Colombo, Il governo mondiale dell’emergenza. Dall’apoteosi della sicurezza all’epidemia dell’insicurezza, Raffaello Cortina, Milano, 2022, p. 182.

[2] Ibidem.

[3] Ibidem.

[4] S. Mezzadra, Convergere contro la guerra, in «Euronomade», 21 novembre 2022, on line. Per il concetto di grande Stato cfr. C. Galli, Il «Grande Stato» nella politica internazionale, in P. Colombo, D. Palano, V. E. Parsi (a cura di), La forma dell’interesse. Studi in onore di Lorenzo Ornaghi, Vita e pensiero, Milano, 2018, pp. 181-195; per quello di transizione egemonica cfr. G. Arrighi, Il lungo XX secolo: denaro, potere e le origini del nostro tempo, Il Saggiatore, Milano, 2009 e la nuova Postfazione; Id., Adam Smith a Pechino: genealogie del ventunesimo secolo, Feltrinelli, Milano, 2008.

[5] A. Colombo, Il governo mondiale dell’emergenza, cit., pp. 176-177.

[6] Id., Il trionfo contemporaneo della guerra giusta, in «La fionda», 2, 2002, pp. 28-40.

[7] Con l’avvertenza metodologica che il discorso della guerra giusta ha subito «una radicale trasformazione nella concettualità politica moderna». Dopo l’89 non si dà quindi un suo mero recupero «dall’alveo della concettualità medievale», ma una sua ricomparsa in forme nuove. M. Tomba, Rinascita della guerra giusta? Giustizia e «New World Order», in G. Bonaiuti, A. Simoncini (a cura di), La catastrofe e il parassita. Scenari della transizione globale, Mimesis, Milano, 2004, p. 45.

[8] R. Bainton, Congregationalism and the Puritan Revolution from the Just War to the Crusade, in Id., Studies on to the Reformation, Beacon Press, Boston, 1963, pp. 248-274. Per una utile ricostruzione della parabola storica del concetto di guerra giusta, cfr. F. Rigaux, De la doctrine de la guerre juste à la prohibition du recours à la force, in «Bulletin de la Classe des lettres et des sciences morales et politiques. Académie royale de Belgique», 1-6, 2003, pp. 35-90.

[9] D. Zolo, Una «guerra globale» monoteistica, in «Iride», 39, 2003, p. 223.

[10] C. Galli, Guerra e politica: modelli di interpretazione, in «Ragion Pratica», 14, 2000, p. 167.

[11] Id., Guerra, politica, nemico, in Id. Forme della critica. Saggi di filosofia politica, Bologna, Il Mulino, 2020, p. 199. Sul tema, cfr. P. Contamine, La guerra nel medioevo, Il Mulino, Bologna, 2005, pp. 353-408.

[12] A. Calore, «Guerra giusta» tra presente e passato, in Id. (a cura di), «Guerra giusta»? Le metamorfosi di un concetto antico, Giuffré, Milano, 2003, p. 11.

[13] Ibidem. Le opere in cui Agostino legittima la guerra in termini di giustizia divina sono il De civitate Dei, il Contra Faustum manicheum e le Quaestiones in Heptateuchum, su cui Cfr. A. Calore, Agostino e la teoria della «guerra giusta». (A proposito di Qu. 6,10), in A. A. Cassi (a cura di), Guerra e diritto. Il problema della guerra nell’esperienza giuridica occidentale tra medioevo ed età contemporanea, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2009, pp. 13-24.

[14] Così Agostino in De civitate Dei 19,12.

[15] A. Calore, «Guerra giusta» tra presente e passato, cit., p. 11. Cfr. Tommaso, Summa Theologiae, Secunda Secundae, q. 40.

[16] D. Zolo, Una «guerra globale» monoteistica, cit., p. 224.

[17] Cfr. Ivi, pp. 223-226; C. Schmitt, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello «jus publicum europaeum», Adelphi, Milano, 1991, pp. 38-53 e P. Contamine, La guerra nel medioevo, cit., pp. 353-408.

[18] D. Zolo, Una «guerra globale» monoteistica, cit. pp. 224-225.

[19] A. Prosperi, «Guerra giusta» e cristianità divisa tra cinquecento e seicento, in M. Franzinelli, R. Bottoni, Chiesa e guerra. Dalla «benedizione delle armi» alla «Pacem in terris», Il Mulino, Bologna, p. 48.

[20] D. Zolo, Una «guerra globale» monoteistica, cit., pp. 225-226.

[21] Ivi, p. 226. Cfr. anche C. Galli, Sulla guerra e sul nemico, in S. Forti e M. Revelli (a cura di), Paranoia e politica, Bollati Boringhieri, Torino, 2007, p 24.

[22] Così Carlo Galli in, Guerra, Laterza, Roma-Bari, 2004, p. XIII.

[23] Cfr. Erasmo da Rotterdam, La guerra piace a chi non la conosce (1515), Sellerio, Palermo, 2015.

[24] Cfr. Id., Il lamento della pace (1517), Einaudi, Torino, 1990.

[25] Ivi, p. 65.

[26] È la tesi che R. Bainton avanza in Erasmo della cristianità, Firenze, Sansoni, 1970.

[27] Cfr. C. Schmitt, Il nomos della terra, cit., p. 134. Cfr. anche C. Galli, Alberico Gentili e Thomas Hobbes. Crisi dell’umanesimo e piena modernità, in «Filosofia politica», 2, 2007, pp. 213-228.

[28] A. Machiavelli, Il Principe, Einaudi, Torino, 1995, p. 78.

[29] C. Galli (a cura di), Guerra, Laterza, Roma-Bari, p. XII. Sul tema cfr. anche Id., Guerra e politica, cit., pp. 170-172 e A. Prosperi, «Guerra giusta» e cristianità, cit., pp. 50-51.

[30] Ivi, p. 51.

[31] Cfr. ivi pp. 55-65.

[32] Nella Querela pacis Erasmo scriverà che i sacerdoti cristiani, ed anche il papa, «infiammano a compiere stragi e carneficine, facendo dell’evangelica tromba una tromba marziale», cit. in ivi, p. 59.

[33] M. Lutero, Sull’autorità secolare (1524), in Id., Scritti politici, Utet, Torino, 1949, p. 438.

[34] Sulla figura di Las Casas, cfr. L. Baccelli, Bartolomé de las Casas. La conquista senza fondamento, Feltrinelli, Milano, 2016.

[35] D. Zolo, Il pacifismo è multiculturalista, in «Liberazione», 15 maggio, 2007, p. 3.

[36] Cfr. ibidem. Sul punto cfr. G. Tosi, La teoria della schiavitù naturale nel dibattito sul Nuovo Mondo (1510-1573), «Divus Thomas», 33, 2002, p. 247.

[37] A. Prosperi, «Guerra giusta» e cristianità, cit., p. 68.

[38] B. de Las Casas, J.G. de Sepúlveda, La controversia sugli indios, Edizioni di pagina, Bari 2006, su cui G. Tosi, La controversia sugli indios, in «Jura gentium», 1, 2008, pp. 102-106; F. de Vitoria, Relectio De Indis. La questione degli Indios (1538), Levante editore, Bari, 1996, su cui L. Baccelli, Dialettica dell’humanitas e logiche della sottomissione nella controversia sulla conquista dell’America, in «Jura gentium», 1, 2018, pp. 17-21 e Id., De iure belli (1539), Laterza, Roma-Bari, 2005, con l’introduzione di Carlo Galli. Cfr. anche G. Tosi, La teoria della guerra giusta in Francisco de Vitoria e il dibattito sulla conquista, in M. Scattola (a cura di), Figure della guerra, Franco Angeli, Milano, 2003, pp. 63-87.

[39] Su questo punto Las Casas radicalizzerà il pensiero di Vitoria sostenendo che gli indios potevano combattere legittimamente la loro guerra giusta contro i conquistatori e anche rivendicare il diritto a dotarsi di uno Stato autonomo Cfr. D. Zolo, Il pacifismo è multiculturalista, cit., p. 3 e Id., Prefazione in B. de Las Casas, De Regia Protestate, Laterza, Roma-Bari, 2007.

[40] F. Vitoria, De Indis, sive de jure belli Hispanorum in barbaros, relectio posterior (1539), cit. in C. Galli (a cura di), Guerra, cit., p. 45

[41] A. Prosperi, «Guerra giusta» e cristianità, cit., p. 77.

[42] L. Scuccimarra, I confini del mondo. Storia del cosmopolitismo dall’Antichità al Settecento, Il Mulino, Bologna, 2006, p. 247. Sulla modernità di Vitoria, cfr. L. Ferrajoli, La sovranità nel mondo moderno, Anabasi, Milano, 1995, pp. 11-17.

[43] «L’unica e sola giusta causa per dichiarare guerra é aver ricevuto una offesa […] Non qualsivoglia offesa, né di qualsivoglia entità è sufficiente a far dichiarare una guerra». F. Vitoria, De Indis, sive de jure belli Hispanorum, cit., in C. Galli (a cura di), Guerra , cit., pp. 44-45.

[44] Cfr. L. Ferrajoli, Manifesto per l’uguaglianza, Laterza, Roma-Bari, 2018, pp. 199-201 e Id., La sovranità nello Stato moderno, Laterza, Roma-Bari, 1997, cap. I.

[45] F. De Vitoria, Relectio de indis, cit., p. 30

[46] Cfr. P. Costa, Dai diritti naturali ai diritti umani: episodi di retorica universalistica, in M. Meccarelli et alii (a cura di), Il lato oscuro dei diritti umani, Universidad Carlo III de Madrid, Madrid, pp. 32-36.

[47] F. de Vitoria, De indis recenter inventis relectio prior (1539), in Id., De indis et de jure belli relectiones. Relectiones Theologicae XII, Oceana, New York, 1974, 6, p. 260.

[48] Id., De jure belli, cit., p. 83.

[49] D. Zolo, Il pacifismo è multiculturalista, cit., p. 3.

[50] C. Galli, Guerra, politica, nemico, cit., p. 203.

[51] A. Prosperi, «Guerra giusta» e cristianità, cit., p. 84.

[52] Ivi, p. 90.

[53] La pace di Westfalia non può essere intesa come il momento di origine puntuale del moderno sistema interstatale. Essa va concepita invece come il denso momento storico a partire dal quale prenderanno forma quei mutamenti politici e giuridici capaci di produrre il nuovo ordine «in un modo lento e discontinuo». A. Colombo, La guerra ineguale, Il Mulino, Bologna, 2006, p. 173. Sul tema cfr. A. Osiander, Sovereignty, International Relations, and the Westphalian Myth, in «International Organization», 2, 2001, pp. 251-287.

[54] T. Hobbes, Il Leviatano, La nuova Italia, Firenze, 1976, p. 120.

[55] W. Benjamin, Per la critica della violenza, Einaudi, Torino, 1981, p. 16.

[56] G: Deleuze, F. Guattari, Mille piani, Istituto Enciclopedia Italiana, Roma, 1987, p. 655.

[57] M. Foucault, Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino, 1975, p. 233.

[58] Cfr. Id., Sicurezza, territorio, popolazione Corso al Collège de France 1977-78, Feltrinelli, Milano, 2005, pp. 209-223, su cui M. Senellart, Michel Foucault et la question de l’Europe, in G. Silvestrini (a cura di), Trasformazioni della politica. Contributi al seminario di Teoria politica, Università del Piemonte Orientale, Alessandria, 2002, pp. 41-48.

[59]  M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., p. 216.

[60] Ivi, p. 209.

[61] Ivi, p. 215.

[62] A. Robinet, G. W. Leibniz. Le meilleur des mondes par la balance de l’Europe, Puf, Paris, 1994, pp. 235-236.

[63] M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., p. 219.

[64] Cfr. D. Zolo, Le trasformazioni della guerra, in Id., Globalizzazione, Laterza, Roma-Bari, 2004, p. 117.

[65] C. Schmitt, Il nomos della terra, cit., p. 178.

[66] D. Zolo, Guerra, diritto e ordine globale: dal sistema di Vestfalia ala costituzione imperiale del mondo, in AA.VV., Guerra e mondo. Annuario geopolitico della pace 2004, Altreconomia, Milano, 2004, p. 252.

[67] C. Galli, a cura di, Guerra, Roma-Bari, Laterza, 2004, p. XVII.

[68] Ibidem. Sulla figura di Emer de Vattel, cfr. R. Koselleck, Critica illuminista e crisi della società borghese, Il Mulino, Bologna, 1972, pp. 17-68.

[69] A. Brillante, In equilibrio sull’abisso: il balance of power nell’età nucleare, in B. Accarino, a cura di, La bilancia e la crisi. Il linguaggio filosofico dell’equilibrio, Ombre corte, Verona, 2003, p. 72. Sul concetto di «anarchia internazionale», cfr. K. N. Waltz, Theory of International Politics, Mc Graw-Hill, New York-London, 1979.

[70] È un’espressione di L. Gross, The Peace of Westphalia 1648-19 in «American Journal of International Law», 42, 1948, pp. 20 e ss., cit., in M. Tomba, Rinascita della Guerra giusta?, cit., p. 48.

[71] C. Galli, Sulla guerra e sul nemico, cit., p. 30.

[72] C. Schmitt, Il nomos della terra, cit., pp. 90-101.

[73] M. Pezzella, Critica della ragion populista, in S. Cingari, A. Simoncini (a cura di), Lessico postdemocratico, Perugia Univerity Press, Perugia, 2016, p. 198.

[74] F. Schiller, Sämtliche Werke, Stuttgart e Berlin, 1904, vol. XIII, pp. 3 sg., cit., in R. Koselleck, Critica illuminista e crisi della società borghese, cit., p. 47.

[75] I. Kant, Sul detto comune: questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la prassi, in Id., Scritti di storia, politica e diritto, a cura di F. Gonnelli, Laterza, Roma-Bari, 1995, p. 158. Sul punto, cfr. B. Accarino, Immagini filosofiche dell’equilibrio, in B. Accarino (a cura di), La bilancia e la crisi, cit., p. 20.

[76] Ibidem.

[77] C. Galli (a cura di), Guerra, cit., p. XVIII; cfr. anche Id., Guerra e politica, cit., pp. 178-180.

[78] Sul tema cfr. R. Koselleck, Critica illuminista e crisi della società borghese, cit., pp. 136-139.

[79] «La costituzione civile di ogni Stato deve essere repubblicana». I. Kant, Per la pace perpetua, in Id., Scritti di storia, politica e diritto, Laterza, Roma-Bari, 1995, p. 169.

[80] I. Kant, Per la pace perpetua, cit., p. 166. Per un’originale analisi dello stretto rapporto che in Kant lega governo repubblicano statale e pace perpetua interstatale, cfr. M. Tomba, Rinascita della guerra giusta?, cit., pp. 65-68.

[81] C. Galli (a cura di), Guerra, cit., p. XVIII.

[82] Sull’emergenza del concetto di egaliberté nella Rivoluzione francese, cfr. E. Balibar, «Diritti dell’uomo» e «diritti del cittadino». La dialettica moderna di uguaglianza e libertà, in Id., Le frontiere della democrazia, Manifestolibri, Roma, 1993, pp. 75-100.

[83] C. Galli (a cura di), Guerra, cit., p. XIX; C. V. Clausewitz, Della Guerra (1832), VIII, 3, § b, Mondadori, Milano, 2008, p. 793. Sulla figura e l’opera di Clausewitz, cfr. G. E. Rusconi, Clausewitz il prussiano. La politica della guerra nell’equilibrio europeo, Einaudi, Torino, 1999.

[84] SI tratta di un discorso tenuto da Robespierre alla Convenzione nazionale nel 1793, cit. in W. Janssen, «Krieg», in O. Brunner, W. Conze, R. Koselleck, Geschichtliche Grunbegriffe. Historiches Lexicon zur politisch-sozialen Sprache in Deutschland, Bd. 3, Klett Cotta, Stuttgart, 1975, p. 588.

[85] C. Galli, Sulla guerra e sul nemico, cit., p. 30.

[86] M. Bascetta, La guerra come pedagogia politica, in AA.VV., Guerra e democrazia, Manifestolibri, Roma, 2005, p. 97.

[87] C. V. Clausewitz, Della Guerra, VIII, 3, § b cit., p. 792.

[88] D. Zolo, I signori della pace. Una critica del globalismo giuridico, Roma, Carocci, 2001, cit., p. 108.

[89] C. V. Clausewitz, Della Guerra, VIII, 3, § b, cit., p. 792. Sul rapporto tra leva di massa e cittadinanza, cfr. gli interessanti accenni contenuti in G. Noiriel, Il cittadino, in U. Frevert e G.-H. Haupt, L’uomo dell’Ottocento, Laterza, Roma-Bari, 1999, pp. 207-214.

[90] Ivi, p. 63.

[91] C. Galli, La legittimità della guerra nell´età globale, cit.

[92] C. V. Clausewitz, Della Guerra, I, 1, 28, cit., p. 40.

[93] Sulla violenza coloniale cfr. E. Traverso, La violenza nazista. Una genealogia, Il Mulino, Bologna, pp. 73-96. Sul nesso tra guerra imperialista e discorso social-darwinista, cfr. A. La Vergata, Guerra e darwinismo sociale, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2005, soprattutto pp. 125-170.

[94] Cfr. C. Galli, Sulla guerra e sul nemico, cit., p. 30.

[95] E. Traverso, La violenza nazista, cit., p. 78.

[96] Sul tema delle guerre coloniali cfr. H. L. Wesseling, Colonial Wars: An Introduction, in J. A. de Moor, H. L. Wesseling, E. J. Leiden, E. J. Brill, Colonialism and War. Essays on Colonial Wars in Asia and Africa, Leiden, University Peirs, 1989.

[97] La frase del generale Bugeaud è citata in B. Etemad, La possession du monde. Poids et mesurès de la colonisation, Complete, Bruxelles, 2001, p. 113, cit., in E. Traverso, La violenza nazista, cit., p. 78.

[98] C. Galli Guerra e politica, cit., p. 187.

[99] Ibidem.

[100] La definizione di «esercito fordista» è di Enzo Traverso (La violenza nazista, cit., p. 97); quella di «operai della distruzione» si trova in A. Zweig, La questione del sergente Griscia, Mondadori, Milano, 1961 e in H. Barbusse, Il fuoco, Sonzogno, Milano, 1918.

[101] E. Traverso, La violenza nazista, cit., pp. 97 e ss.

[102] A. Gibelli, L’officina della guerra. La grande guerra e le trasformazioni del mondo mentale, Bollati Boringhieri, Torino, 1991, pp. 91-95.

[103] Ivi p. 95. Sul punto cfr. M. Guareschi, M. Guerri, La metamorfosi del guerriero, in «Conflitti globali», 3, 2006, pp. 24-28.

[104] Cfr. E. Jünger, La mobilitazione totale, in «Il Mulino», 301, 1985, pp. pp. 753-770. Sulla figura e l’opera di Jünger, cfr. M. Guerri, Ernst Jünger . Terrore e libertà, Agenzia X, Milano, 2007, pp. 95-127; C. Galli, Ernst Jünger: la mobilitazione totale, in Id., Modernità. Categorie e profili critici, Il Mulino, Bologna, 1988, pp. pp. 191-204 e M. Revelli, Oltre il Novecento. La politica, le ideologie e le insidie del lavoro, Einaudi, Torino, 2001, pp. 41-48. Sulla morte anonima di massa cfr. A. Gibelli, L’officina della guerra, cit., p. 99-104.

[105] Cfr. E. Traverso, La violenza nazista, cit., p. 112-118.

[106] Cfr. Id., A ferro e fuoco. La guerra civile europea 1914-1945, Il Mulino, Bologna, 2007.

[107] C. Galli, La guerra globale, cit., p. 54.

[108] Id., La legittimità della guerra nell’età globale, Seminario al convegno Sifp Democrazia, sicurezza e ordine internazionale, Monte Giove, 19-20 ottobre 2005, consultato in http://eprints.sifp.it/151/1/Convegno_Sifp_-_Democrazia_-_Galli.html.

[109] Id., La guerra globale, cit., pp. 53-54.

[110] D. Zolo, La giustizia dei vincitori, Laterza, Roma-Bari, 2006, p. 126; Id., Dalla guerra moderna alla guerra globale. L’uso della forza internazionale dalla guerra del Golfo alla guerra contro l’Iraq (1989-2002), in «Jura gentium», 2002, on line e Id., L’impero e la guerra, in «Jura gentium», 2007, on line.

[111] Cit. in M. Tomba, Rinascita della guerra giusta?, cit., p. 43.

[112] M. Walzer, L’idea di guerra giusta non va abbandonata, in AA.VV., L’ultima crociata? Ragioni e torti di una guerra giusta, Reset, 1999; Id., Just and Unjust Wars. A moral argument with historical illustrations, Basic Books, New York, 1977.

[113] C. Galli, La legittimità della guerra nell’età globale, cit.