Il proiettile umano nel “cupo incantesimo runico”. Lo sguardo di Ernst Jünger su guerra e pace – di Riccardo Ferrari

Il proiettile umano nel “cupo incantesimo runico”. Lo sguardo di Ernst Jünger su guerra e pace – di Riccardo Ferrari

26 Dicembre 2022 Off di Francesco Biagi

Pubblicato per la prima volta nel 1920, Nelle tempeste d’acciaio è un romanzo autobiografico tratto dai diari dove Ernst Jünger annotò meticolosamente quello che vedeva dalla «comunità combattente delle trincee» durante la Prima Guerra Mondiale, sul fronte franco-tedesco. La riscrittura continua dell’esperienza traumatica del conflitto (le successive cinque edizioni variamente modificate del primo libro, gli altri scritti narrativi che rielaborano i diari, i testi destinati alla pubblicistica di ambito nazionalistico, i saggi filosofici sulla Mobilitazione totale e sulla nuova figura storica dell’Operaio) percorre tutti gli anni Venti e i primi anni Trenta, configurandosi come un esasperato tentativo di trovare un senso all’evento insensato della guerra[1].

Ferito quattordici volte e decorato con la massima onorificenza del Reich, la “Croce pour le mérite”[2], Jünger racconta la sua esperienza con i toni di un’avventura epica ma, nello stesso tempo e in modo strabico, con distacco oggettivo e sguardo “fenomenologico”. È forse da questo doppio movimento che conviene partire per comprendere l’unicità di questo testo, ossia la capacità di essere contemporaneamente dentro l’evento epocale della modernità («La battaglia finale, l’ultimo assalto, sembravano ormai arrivati. Lì si gettava la bilancia del destino di due interi popoli; si decideva l’avvenire del mondo»[3]) e di descriverlo con completa estraneazione, osservando da distante i processi di tecnicizzazione che la Grande Guerra aveva reso irreversibili.

Le tappe della discesa agli inferi del conflitto si snodano dall’arruolamento volontario, quando era ancora uno studente liceale, al primo contatto con il fronte e la morte, la vita elementare nel fango delle trincee, le grandi battaglie della Somme e poi nelle Fiandre come comandante di truppe d’assalto. La descrizione visiva prevale su ogni considerazione ideologica o politica, come ipnotizzata dallo spettacolo catastrofico di quella che chiamerà la “guerra dei materiali”. L’immagine più tipica è quella di “un muro di fuoco alto come una torre” in cui si risolveva la terra di nessuno del fronte, con “masse di ferro” che «arrivavano ruggendo, con traiettorie di una brevità inquietante, mentre tutt’intorno sibilavano e rombavano nugoli di schegge»[4]. In questa scena infernale tutti i sensi sono coinvolti, il rumore è così assordante da sfuggire alla capacità umana di percepirlo, le nubi nere e rosse vibrano e si confondono per le lacrime versate dai soldati, con le mucose bruciate dal gas che diffondeva un «fortissimo odore di mandorle amare»[5]. Le bombe sollevano colonne di terra «alte come campanili» ma in questo fragore i soldati stanno fermi, senza che «nemmeno uno di essi curvasse anche solo il capo»[6]. È questo atteggiamento “eroico” che compare Nelle tempeste d’acciaio a costituire la costruzione mitologica del testo, implicando topoi tradizionali e militareschi come la disciplina, il cameratismo, la fedeltà alla patria, il valore della morte in battaglia e del sacrificio, che confliggono con la descrizione parallela dell’incontro con la Tecnica e i dispositivi di de-soggettivazione.

Nella Grande Guerra Jünger ha trovato la possibilità di un nuovo tipo umano “oggettivato” da un’istanza decisionista per una lotta “senza scopo”, cioè non motivata da alcun valore che non sia la pura volontà di potenza di riattivare la vita elementare soffocata dalla civilizzazione e dalla società borghese. Per questo i tre testi teorici dei primi anni Trenta in cui Jünger cerca di concettualizzare ciò che la guerra ha rivelato, La mobilitazione totale, L’Operaio e Il dolore, tratteggiano la figura di un uomo capace di lasciarsi alle spalle l’individualismo in nome di una mitica istanza superiore basata sul sacrificio e l’assunzione radicale del dominio tecnico. In questo modo l’autore ha cercato anche di dare un senso all’esperienza del fronte in cui migliaia di giovani mossi da un “cupo ardore” hanno perso la vita, onorandone la memoria. La Germania è stata sconfitta per la sua incompleta mobilitazione tecnica e il connesso culto del progresso che gli eserciti dell’Intesa avevano ormai assimilato, per questo bisognava creare le condizioni per rendere efficace l’entusiasmo eroico. Il nuovo tipo umano, insieme Milite Ignoto e Arbeiter, operaio che dissolve la sua vita nell’officina industriale, deve diventare una creatura d’acciaio, inespressiva e impassibile, il suo volto che guarda da sotto l’elmetto o sotto il casco protettivo è «metallico, quasi galvanizzato in superficie, l’ossatura sporge chiaramente in rilievo […] lo sguardo è calmo e fisso, addestrato ad osservare oggetti che devono essere percepiti in condizioni di massima velocità. È il volto di una razza che comincia a svilupparsi secondo le particolari esigenze imposte da un nuovo territorio, e che il singolo rappresenta non come persona o come individuo, ma come tipo»[7]).

Il fronte della guerra e quello del lavoro diventano identici, perché il processo tecnico si è trasferito senza soluzione di continuità dal paesaggio bellico allo spazio urbano, divenuto il luogo del lavoro totale. La metropoli jüngeriana è uno luogo distopico, la grande officina in cui l’uomo si oggettiva in un processo che lo trascende ma a cui aderisce in base a una giustificazione metafisica e metapolitica. La mobilitazione delle masse non mira alla loro emancipazione ma al loro disciplinamento, in quella che Ferruccio Masini ha definito «variante terroristica di un’apologia reazionaria dell’esistente», in una «bronzea stilizzazione» dove le potenze distruttive scatenate dal capitalismo non vengono disinnescate, ma «rese trasparenti, eternizzate nel loro sfondo mitico»[8].

La battaglia dei materiali ha annientato il vecchio mondo e i valori intorno a cui si strutturava, costringendo la stirpe elitaria dei guerrieri prussiani a misurarsi con la macchina, interiorizzandone la forza distruttiva e trasformandola in un’esperienza spirituale: la tecnica non è un accidente fra gli altri né qualcosa che si possa romanticamente negare in nome di un mondo che non esiste più. Essa è piuttosto, per la visione nichilistico-conservatrice di Jünger, un destino da assumere nella sua necessità. Il combattente della Grande Guerra è tornato dal fronte impoverito ma allo stesso tempo consapevole che la battaglia non è finita e che un altro fronte lo attende, quello metropolitano, dove si combatte la planetaria guerra del Lavoro con una radicale disciplina che deve innanzitutto insegnare all’Arbeiter il sacrificio individuale in nome di un compito metafisico, il dominio totale sull’ente.

Proviamo così a leggere un passo famoso tratto dalla La mobilitazione totale:

L’immagine stessa della guerra come azione armata finisce per sfociare in quella, ben più ampia, di un gigantesco processo lavorativo. Accanto agli eserciti che si scontrano sui campi di battaglia nascono i nuovi eserciti delle comunicazioni, del vettovagliamento, dell’industria militare: l’esercito del lavoro in assoluto. Nell’ultima fase, già adombrata verso la fine della Guerra mondiale, non vi è più alcun movimento – foss’anche quello di una lavoratrice a domicilio dietro la sua macchina da cucire – che non possieda almeno indirettamente un significato bellico. In questo impiego assoluto dell’energia potenziale, che trasforma gli Stati industriali belligeranti in fucine vulcaniche, si annuncia nel modo forse più evidente il sorgere dell’età del lavoro: esso fa della Guerra mondiale un evento storico più significativo della Rivoluzione francese. Per dispiegare energie di questa portata non è più sufficiente armare il braccio: è necessario un armamento che arrivi fino al midollo, fino al più sottile nervo vitale. Realizzare questo scopo è il compito della Mobilitazione Totale, un atto con cui il complesso e ramificato pulsare della vita moderna viene convogliato con un sol colpo di leva nella grande corrente dell’energia bellica[9].

Da questo gigantesco processo epocale nasce il “realismo eroico” della nuova stirpe metallica che con impersonale durezza si adatta al ritmo delle catene di montaggio, diventandone il soggetto e l’oggetto, perché la tecnica è una potenza oggettivante, è «il modo e la maniera in cui la forma dell’operaio mobilita il mondo»[10].

L’incontro avvenuto sul fronte con il Moloch della tecnica viene da Jünger descritto attraverso una prospettiva a volo d’uccello sul processo storico: il milite del lavoro è una formica che attraverso il proprio operato si sacrifica in nome di una potenza metafisica che accetta la catastrofe per realizzare una comunità organica forgiata sul ritmo dell’officina. Vano sarebbe cercare un’argomentazione sociale o materialistica di questa celebrazione dell’operaio perché si tratta di una forma trascendentale che non è strutturata da interessi economici ma spirituali. Per rappresentarla si presuppone una visione da distante che dovrebbe essere in grado di descrivere il pianeta come se fosse visto dalla Luna: da questo punto di vista la Grande Guerra è stato l’evento epocale che ha prodotto un’unificazione planetaria grazie alla logica del lavoro. L’oggettivazione tecnica è quella dello sguardo fotografico che rappresenta l’uomo in una radicale estraneità, attraverso una “seconda coscienza” che, grazie al “pathos della distanza”, permette alla nuova stirpe di vedersi da fuori come i martiri cristiani che rimanevano impassibili all’attacco dei leoni, assenti dalla propria carne nell’ora del tormento.

Nel saggio Sul dolore[11] questo processo di oggettivazione sacrificale si riconosce nella figura del pilota di un siluro giapponese che, chiuso in una piccola cabina, si proietta verso la morte sorprendendo obiettivi nemici grazie alla propria indifferenza al dolore e alla propria morte che la sua dedizione totale permette. Il proiettile umano è dunque l’ideal-tipo di una nuova epoca del mondo in cui l’uomo si annienta in un ultimo e titanico sforzo di incidere sul processo di tecnicizzazione.

La tecnica è una potenza catastrofica «distruttrice di ogni fede»[12] e il proiettile umano non è che una sua appendice ed estensione volontaristica. L’atteggiamento jüngeriano verso la macchina guarda esplicitamente alla politica stalinista del lavoro e non presenta alcuna tonalità pessimistica, anzi in questa mobilitazione totale viene scorta l’occasione di un nuovo ordine capace di riattivare una vitalità elementare. È la ripresa del nichilismo attivo di Nietzsche a caratterizzare questa visione che interessò anche Heidegger nel celebre dialogo a distanza di Oltre la linea[13], dove i due si confrontano proprio sul tema del nichilismo. Per Jünger si tratta di un “meridiano zero” che si può oltrepassare, Heidegger non vede invece possibilità di superamento della linea del nichilismo ma solo la necessità di soffermarsi su di essa attraverso una decostruzione progressiva dell’essenza della tecnica e della metafisica. Heidegger riconosce a Jünger l’originalità delle descrizioni contenute nell’Arbeiter, in particolare là dove si afferma che la tecnica non è una forza neutrale di cui l’uomo si può servire a piacimento, ma una potenza rivoluzionaria che trasforma anche la vita del contadino, un impianto distruttivo che sfrutta la terra fino a rivelare la sua essenza non tecnica, ma nichilistica. Heidegger però pesa le parole dell’amico, a partire proprio dalle sue definizioni un po’ “letterarie” di nichilismo e volontà di potenza, e sostiene che la posizione di Jünger è ancora interna al pensiero metafisico, anzi sembra non concedere neanche la dignità di pensiero alle sue riflessioni: «Jünger non può affatto pensare come pensatore, poiché egli, in quanto soltanto descrittore, prepara il reale con un’inaudita precisione, non sospetta nulla di quanto accade nella riduzione ad oggetto del mondo e dell’uomo»[14].

 

Ci sono alcuni passi in questi testi di Jünger che possono ricordare analoghe proposizioni di Walter Benjamin, in particolare quando entrambi parlano della fotografia e del cinema come nuove forme di arte senza aura che si innerva con i suoi dispositivi tecnici nel mondo senso-motorio dell’uomo contemporaneo. Ma, come è noto, le conclusioni sono opposte: nella Postilla all’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Benjamin, all’estetizzazione della politica e della guerra promossa dal fascismo, contrappone la politicizzazione dell’arte della collettività rivoluzionaria, che vede nella tecnica una chance di riscatto quando questa ritrovi una dimensione poietica e non rimanga schiacciata nel puro sfruttamento e annientamento delle potenze vitali come nella prestazione bellica (quella tecnica che trova il suo emblema nelle armi di distruzione di massa e la cui impresa più grande è, per Benjamin, il sacrificio umano). Ma forse il più lucido disaccordo fra questi due interpreti della temperie storica degli anni della Repubblica di Weimar si può trovare nel testo Teorie del fascismo tedesco che Benjamin scrisse come recensione all’antologia curata da Jünger Krieg und Krieger[15] dove appunto, insieme a testi di altri autori come Ernst von Salomon, comparve il suo testo sulla Mobilitazione totale. Qui Benjamin scrive un capolavoro di sarcasmo contro l’atteggiamento che riuniva i “congiurati” raccolti intorno a Jünger, parlando di un «cupo incantesimo runico» che vede nella guerra il culto di una potenza elementare, una “guerra eterna” che dovrebbe rivelare il segreto della condizione umana. Jünger ha continuato a celebrare il culto della guerra, come trasposizione in campo bellico del principio dell’art pour l’art, «quando non c’era più nessun nemico da combattere» perdendo l’occasione di elaborare la sconfitta e preferendo rimanere nelle fauci del “lupo mitico” con un atteggiamento rabbioso e decadente che non fa che predicare il tramonto. Anche l’atteggiamento nei confronti della figura del Milite-Arbeiter, il nuovo eroe moderno dai tratti duri e metallici, sembra non riconoscerne la maschera mortuaria, i “tratti ippocratici”, mentre la guerra tecnica per Benjamin mette fuori uso «i miseri emblemi dell’eroismo»: «il ‘destino’ e l’’eroe’ stanno in queste teste come Gog e Magog, sono loro vittime non soltanto le creature umane, ma anche quelle del pensiero»[16]. Agli autori dell’antologia curata da Jünger riesce difficile coniugare l’eroismo con la meccanicità della guerra dei materiali ed esprimono la delusione per una forma di guerra che più dell’eroismo esalta i record, liquidando le categorie militari a favore di quelle sportive grazie alla impersonale e “democratica” potenza di annientamento delle nuove armi che lasciano ben poco spazio all’azione del singolo, mentre «le virtù della durezza, della decisione, dell’inesorabilità che essi celebrano in verità sono meno virtù del soldato» e del mercenario del dopoguerra che del «fidato combattente di classe fascista»[17].

Effettivamente, sorpassata una prima fase “titanica”, l’approccio di Jünger alla guerra diventa sempre più distaccato, proprio per questa impossibilità di coniugare la tecnica con il realismo eroico. Il mito del proiettile umano poteva forse valere ancora per qualche “giapponese”, ma il corso della storia fu un altro, ossia l’automazione. Se si leggono i diari scritti durante la Seconda Guerra Mondiale[18], in cui era ufficiale dell’esercito tedesco nell’occupazione nazista in Francia, il suo sguardo diventa sempre più ritirato, meno attento alla testimonianza della linea del fronte che a trascrivere incontri culturali e squisite scoperte artistiche. Progressivamente la possibilità di vedere la tecnica come un destino che, dopo la fase dell’officina, il nuovo ordine potesse alla fine dominare sembra svanire al posto di una ben più realistica consapevolezza che essa diventa un dispositivo totale che ha per unico fine la propria auto-riproduzione.

Come è noto, nel secondo dopoguerra, Jünger proporrà la ribellione a questo dispositivo contrapponendosi all’automatismo per difendere la singolarità attraverso “il ritiro nel bosco”, in attesa di tempi migliori. Nel Trattato del Ribelle questo ritiro viene presentato come una difesa della libertà individuale, in una concezione diametralmente antitetica al rifiuto dell’individualismo proposto nell’Operaio. Ma più che una svolta libertaria, come a volte è stata letta, questa fuga dal mondo moderno sembra maggiormente un ritiro nell’apolitìa di un sapere esoterico e tradizionalista, che non è che l’altra, perenne faccia dell’attivismo decisionista della cultura di destra novecentesca. La stessa idea della tecnica è sottoposta a una revisione, anche se rimane un destino che deve attraversare la catastrofe; ora la metafora preferita dallo scrittore tedesco è quella del Titanic: la tecnicizzazione è come una nave «che si muove velocemente mostrando ora il lato del comfort, ora quello del terrore»[19]. Sopra la nave che viaggia inconsapevole verso la catastrofe, il Ribelle saprà però portare il bosco che ha dentro di sé, la pace e la sicurezza, come secondo il mito fece Dioniso che, catturato dai Tirreni, fece crescere pampini e tralci di vite nell’imbarcazione, creando una foresta galleggiante da cui balzò la tigre che sconfisse i pirati.

 

Benjamin si era domandato, nel testo sul fascismo tedesco, se queste persone che celebrano la guerra sappiano cosa sia la pace («Ma noi non ammetteremo che uno parli della guerra senza conoscere nient’altro che la guerra. Chiederemo, radicali alla nostra maniera: Donde venite? E che cosa sapete della pace? Avete mai incontrato la pace, in un bambino, un albero, un animale, così come sul campo avete incontrato un avamposto? E, senza aspettare la loro risposta: No!»[20]). Se proviamo a chiederlo a Jünger stesso, la risposta è infatti deludente. Nel suo testo sulla Pace[21], pubblicato nel 1945 ma probabilmente elaborato negli anni precedenti, forse iniziato quando era ufficiale di un esercito di occupazione proprio quando Benjamin, sempre in Francia, era costretto prima in un campo di prigionia e poi a fuggire da quello stesso esercito e da quello collaborazionista francese, fino a trovare la morte per suicidio sui Pirenei, Jünger intona frasi ispirate a una solenne pietas per le vittime inermi, di sdegno e orrore nei confronti del disastro e della cattiveria degli assassini (di cui, giova ricordarlo, era parte in causa), di buoni propositi di pace e felicità per le generazioni future con un registro retorico che non può che apparire farisaico.

Ripubblicato nel 2022, La Pace. Una parola ai giovani d’Europa e ai giovani del mondo, si struttura in due parti, la semina e il raccolto, dove con questi due termini lo scrittore si riferisce al sacrificio a cui i combattenti delle guerre mondiali e gli eserciti del lavoro hanno preso parte incondizionatamente, saldando il globo «con cuciture incandescenti»[22] per preparare un nuovo senso della terra capace di fornire il pane per lungo tempo, grazie proprio al grano macinato nella notte del mondo dell’età bellica. Gli stati nazionali saranno superati da nuovi assetti imperiali che dovranno portare, grazie a «trattati di alto rango», a uno stato mondiale, capace di rendere spirituale e politica l’unificazione planetaria già avvenuta sul piano tecnico ed economico: «La pace potrà dirsi riuscita quando le forze consacrate alla mobilitazione totale libereranno il loro potenziale creativo. Con ciò sarà compiuta l’era eroica del lavoratore, che fu anche l’era rivoluzionaria. La fiumana selvaggia si è scavata il letto entro cui diverrà pacifica»[23]. La tecnica verrà relegata nella sua sfera senza più prendere il sopravvento sulle forze «umane e divine», permettendo lo sviluppo dell’amore e della felicità. Questi toni, e anche le descrizioni sdegnate della morte di massa e dei campi di concentramento, lasciano un po’ di amaro in bocca, ma la fragilità risiede anche nella proposta di considerare la tragedia come un sacrificio necessario per il bene futuro, rimanendo completamento rinchiuso entro un mitologema sacrificale che si tratterebbe invece di interrompere: la salvezza non sembra potere venire dalla colpevole ripetizione di un rituale arcaico ma dalla sua messa in discussione critica, smontandone la forza fascinatoria e apparentemente fatale.

Riferendosi al mito politico che aveva cercato di decostruire nel modo in cui si era articolata la rivolta spartachista, in cui i “lanzichenecchi” dei corpi franchi vicini a Jünger ebbero fra l’altro un ruolo contro-rivoluzionario primario, Furio Jesi nel libro Spartakus scrisse alcune parole che forse vale ancora la pena ricordare: «È davvero un problema di demitologizzazione. Si tratta di trovare scampo dal vicolo chiuso dei grandi sacrificatori o delle grandi vittime: e, per trovare scampo, non bastano i grandi sapienti, giacché la storia ci insegna quanto breve sia il passo dalla gnosi al manicheismo»[24].

 

 

Note:

[1] Vedi H. Kiesel, I diari di guerra di Ernst Jünger, in Sismografie. Ernst Jünger e la Grande Guerra, a cura di G. Gregorio e S. Gorgone, Mimesis, Milano-Udine, 2019, pp. 17-39.

[2] E. Jünger, Nelle tempeste d’acciaio, trad. it. di G. Zampaglione, Guanda, Milano, 2014, p. 329.

[3] Ivi, p. 266.

[4] Ivi, p. 307.

[5] Ivi, p. 264.

[6] Ivi, p. 266.

[7] E. Jünger, L’Operaio. Dominio e forma, trad. it. di Q. Principe, Guanda, Milano, 2020, p. 102.

[8] F. Masini, Metapolitica della guerra in Ernst Jünger, in Il flusso del tempo. Scritti su Ferruccio Busoni, Quaderni di musica/realtà, n. 11, Ed. Unicopli, Milano, 1985, p. 123.

[9] E. Jünger, La Mobilitazine totale, in Id., Foglie e pietre, trad. it. di F. Cuniberto, Adelphi, Milano, 1997, p. 130.

[10] E. Jünger, L’Operaio, cit., p. 140.

[11] E. Jünger, Sul dolore, in Id., Foglie e pietre, cit.

[12] E. Jünger, L’Operaio, cit., p. 144.

[13] E. Jünger, M. Heidegger, Oltre la linea, trad. it. di F. Volpi e A. La Rocca, Adelphi, Milano, 1989.

[14] M. Heidegger, Ernst Jünger pensatore?, trad. it. Di G. Moretti, in La mobilitazione globale. Tecnica violenza libertà in Ernst Jünger, a cura di M. Guerri, Mimesis, Milano-Udine, 2012, p. 176.

[15] W. Benjamin, Teorie del fascismo tedesco. A proposito dell’antologia «Krieg und Krieger», a cura di Ernst Jünger, trad. it. di A. Marietti Solmi in Opere Complete di Walter Benjamin, vol. IV (Scritti 1930-1931), a cura di R. Tiedemann e H ScSchweppenhäuser, Einaudi, Torino, 2002, pp. 32-41. Per un approfondimento del rapporto fra Jünger e Benjamin vedi G. Gurisatti, Divergenze parallele. Appunti su guerra e tecnica fra Benjamin e Jünger, in La mobilitazione globale, cit., pp. 91-117.

[16] Ivi, p. 39.

[17] Ibid.

[18] E. Jünger, Giardini e strade, trad. it. di A. Iadicicco, Guanda, Parma, 2008.

[19] E. Jünger, Trattato del ribelle, trad. it. di F. Bovoli, Adelphi, Milano, 1990, p.53.

[20] W. Benjamin, Teorie del fascismo tedesco, cit., p. 36.

[21] E. Jünger, La pace. Una parola ai giovani d’Europa e ai giovani del mondo, trad. it. di A. Apa, Mimesis, Milano-Udine, 2022.

[22] Ivi, p. 13.

[23] Ivi, pp. 47-48.

[24] F. Jesi, Spartakus. Simbologia della rivolta, Bollati Boringhieri, Torino,2000, p. 86.

 

L’immagine è di A. Kubin, “Angstschrei”, 1901.