Soderberghiana. Panama Papers – di Gabriele Fadini

Soderberghiana. Panama Papers – di Gabriele Fadini

6 Dicembre 2022 Off di Francesco Biagi

Presentato in anteprima mondiale nel corso della settantaseiesima Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia del 2019, Panama Papers (il cui titolo originale è The Laundromat) è il secondo film Netflix di Steven Soderbergh. Sceneggiato da Scott Z. Burns che aveva già lavorato con Soderbergh per The Informant! (2009), Contagion (2011) ed Effetti collaterali (Side Effects – 2013), il film è basato sul libro del giornalista premio Pulitzer Jake Bernstein intitolato Secrecy World: Inside the Panama Papers Investigation of Illicit Money Networks and the Global Elite. Libro che ripercorre la scoperta avvenuta nel 2016 del famoso fascicolo contenente i nomi di migliaia di società offshore con sede a Panama che riciclavano e nascondevano denaro e che coinvolse nomi eccellenti dell’economia, della politica, dello spettacolo e dello sport.

Il film è articolato secondo una doppia struttura: per un verso Jürgen Mossack (interpretato da Gary Oldman) e Ramón Fonseca (interpretato da Antonio Banderas) i due titolari dello studio panamense di cui si sono scoperte le attività illecite, conducono lo spettatore in un “ideale piano continuo” attraverso la storia del denaro dall’antichità ai tempi d’oggi, mentre per altro verso su questa ideale continuità si dislocano le diversità di cinque “segreti” che esemplificano ciò che i due di volta in volta spiegano.

Panama Papers è uno dei film più esplicitamente politici di Soderbergh ed è allo stesso tempo uno dei film in cui questo suo carattere politico si riflette maggiormente nelle scelte stilistiche. In esso il montaggio è a servizio di un’ideale continuità ed i “segreti” dislocano questo flusso continuo su piani diversi. Piano ideale e montaggio sono gli elementi di Panama Papers.

La scommessa di Soderbergh è che il cinema possa essere il luogo in cui il vero soggetto attorno a cui ruota tutto il film ovvero la smaterializzazione del denaro nell’epoca del dilagare del capitalismo finanziario possa essere resa visibile; in cui il capitalismo che si fonda su questa smaterializzazione e che insieme la mette in atto possa essere denunciato. Panama Papers si pone dunque come un film di denuncia e lo fa declinando questa denuncia attraverso un sarcasmo irriverente.

Entrando nel merito, nel primo segreto, che visivamente inizia con uno zoom all’indietro su una banconota da un dollaro con la sostituzione della frase “In God we trust” con quella “i miti saranno fregati” chiaro riferimento invertito alla beatitudine evangelica “i miti erediteranno la terra” e al passo di Isaia 61, ci viene narrata la vicenda di Ellen (interpretata da Meryl Streep) che in un incidente nautico (una barca si ribalta in seguito ad una onda anomala in un lago) perde il marito e riceve insieme ai parenti degli altri ventuno deceduti un risarcimento estremamente esiguo dall’assicurazione che avrebbe dovuto coprire l’incidente. La denuncia di Soderbergh e Burns, qui è rivolta a smascherare la truffa delle assicurazioni che vengono riassicurate da altre assicurazioni insolventi come in una serie di gusci vuoti.

E non a caso il secondo segreto ha proprio per titolo “sono solo gusci vuoti”. Vi troviamo ancora Ellen insieme alla figlia e ai nipoti a Las Vegas per acquistare un appartamento con vista su un luogo che le ricorda molti momenti del giorno del primo incontro con l’uomo che poi sarebbe diventato suo marito. Ellen, tuttavia, scopre ben presto che l’appartamento promessole è stato già venduto ad una cifra molto più alta a due russi che l’hanno inoltre pagato in contanti. Nel seguire Ellen abbattuta che incrocia i russi con l’agente immobiliare e li segue fino a sbirciare dallo spioncino della porta dell’appartamento, Soderbergh crea una sequenza estremamente significativa. Ellen, infatti, non vede i russi nell’appartamento vuoto da cui è stata appena costretta ad andarsene, ma li vede in un locale in cui all’inizio del film avevamo visto entrare anche Mossack e Fonseca che ritroviamo all’altro lato dell’immagine. Soderbergh crea un “macro fotogramma” con ai lati da una parte Ellen e dall’altra Mossack e Fonseca ed in mezzo i due russi. Segue una narrazione in cui viene descritta da Mossack e Fonseca la modalità con cui fondare le società offshore e mettere al riparo i propri asset dalle tasse. Ci viene rivelato che per fondare queste società non c’è bisogno né di indirizzi né di impiegati ma solo di un nome, un indirizzo mail e una casella postale in un paese che abbia leggi favorevoli e non restrittive in termini fiscali. Quando Ellen viene a sapere dal suo avvocato che il “riferimento” dei gusci vuoti delle assicurazioni, alla base del mancato risarcimento per la morte del marito, è una certa United Corporation con a presidente un certo Bonkemper (interpretato da Jeffrey Wright) situata in un atollo non lontano dalla Florida, decide di recarvisi animata da un senso di rivalsa e giustizia. Ma il sogno che fa in aereo di fare irruzione negli uffici della United sparando con un fucile in cerca di Bonkemper non si può realizzare non perché Ellen sia una persona evangelicamente mite, ma perché la United non ha uffici né personale ma è solo una casella postale in un ufficio postale e Bonkemper stesso finge di non essere sé stesso quando incrocia Ellen che gli chiede quale sia la sede della United. Quando la truffa della United viene scoperta e il suo presidente arrestato a Miami sotto gli occhi di Ellen in aeroporto, si pone la necessità per Mossack/Fonseca di sostituirlo come presidente delle quarantasei società riconducibili al loro studio. Mossack non si scompone di fronte a quella che dovrebbe essere un’oggettività temporale, ovvero il fatto che il nome di Bonkemper sia su tutti i registri delle quarantasei società. Egli, infatti, afferma che il tempo non ha nessuna sostanza ma può essere eluso: Bonkemper viene sostituito con un’altra prestanome che Ellen scoprirà essere titolare di ben venticinquemila società tutte depositate nel trust fiduciario riconducibile allo studio panamense. Questa reversibilità “metonimica” del tempo è sistematica: quando la nuova presidente muore in un incidente, ad una nuova persona sono dati da firmare i venticinquemila moduli relativi alle società: la nuova presidentessa, Helena, che scopriremo alla fine del film essere John Doe altri non è ancora che Meryl Streep.

Nel terzo segreto, intitolato “Dillo ad un amico” scopriamo che Mossack è figlio di un ex nazista spostatosi a Panama dopo la guerra ma soprattutto scopriamo la vicenda di Fonseca. La sequenza ci porta in una chiesa in cui Fonseca ci presenta la figura di padre Hector Gallego esponente della teologia della liberazione cattolica assassinato dall’esercito per la sua predicazione a favore dei più poveri. Fuori dalla chiesa, Fonseca ricorda la laurea in legge e l’essere andato alle Nazioni Unite per cambiare il mondo, ma senza ottenere i risultati sperati. Troviamo poi Fonseca attraversare il mercato di un campo profughi, confessare di non essere riuscito a cambiare nulla ma solo sé stesso, e infine salire in un’auto lussuosa in cui ad attenderlo c’è proprio Mossack. Questa continuità costruita su lunghi piani sequenza in cui si passa da un contesto ad un altro diametralmente opposto è indicazione filmica di come queste realtà siano nello stesso mondo.

Il quarto ed il quinto segreto ci portano nell’ambito del perverso utilizzo della privacy e nell’ambito della corruzione.

Nel quarto che inizia con la macchina da presa in zoom verso una banconota da 100 euro, con l’ennesimo cambio di set ci troviamo questa volta a Los Angeles nella casa di Charles, un ricco uomo d’affari afroamericano che è in procinto di festeggiare con una grande festa la laurea della figlia Simone. Quando Simone scopre che il padre tradisce la moglie con Astrid la sua compagna di stanza all’università, Charles ne compra il silenzio offrendole una società del valore di venti milioni di dollari gestita con azioni al portatore. Tutto sembra molto semplice: chi ha quelle azioni è proprietario della società. Ma la società è controllata da un trust che ne svuota il valore delle azioni tramite trasferimenti di asset, trust anch’esso riconducibile allo studio di Mossack e Fonseca. Ed è lì quando Simone e la madre scoprono che le società in mano loro in realtà non valgono che pochi dollari ad azione che Mossack fa riferimento alla privacy, ovvero al suo non essere costretto a dire nulla sul suo cliente. Ciò che i clienti chiedono a Mossack e Fonseca sono privacy e segretezza e se l’una è lecita perché tutela ciò che si può fare, l’altra copre qualcosa che non si dovrebbe fare ed è in una società offshore che le due vanno a braccetto. Nella “definizione” della società offshore, Soderbergh ritorna all’immagine che avevamo visto quando Ellen aveva spiato i due russi che le avevano sottratto l’appartamento. Una società offshore, infatti, è simile a quando si guarda da una finestra e si vede una stanza vuota ma stanza e finestra possono essere in due posti differenti.

Nel quinto segreto ambientato in Cina, Soderbergh e Burns alzano il tiro della loro denuncia: tutte “le idee” presenti in esso, ovvero la mazzetta per la fabbrica ottenuta dal membro del partito comunista cinese, la sua richiesta al complice occidentale di riciclare quel denaro comprandogli una casa in Costa Azzurra, la richiesta da parte di quest’ultimo di riciclare altro denaro con altre società offshore con il ricatto di rivelare la prima mazzetta in un paese il cui presidente è impegnato in una campagna anti-corruzione, provengono dagli Stati Uniti d’America. Sono gli Stati Uniti ad essere il paradiso fiscale migliore del mondo grazie, per esempio, ad uno stato come il Delaware che per attirare investitori vara leggi fiscali più favorevoli e che è la “patria” di numerosissime società che non pagano tasse statali. Ed è tutto legale! Si chiama elusione fiscale che è differente da evasione fiscale: anche il regista del film ne ha cinque, lo sceneggiatore una. Il punto decisivo inizia ad emergere quando in un piano sequenza troviamo Ellen intenta in chiesa a pregare: tutto ciò che ha subito – la morte del marito, la vendita dell’appartamento a Las Vegas e la truffa dell’assicurazione – si ripercuotono sulla sua salute, perché si rende conto che il mondo è sempre più fuori dal suo controllo. Ellen può solo pregare perché non può permettersi di finanziare campagne elettorali di politici che cambino le leggi.

Una preghiera che sembra esaudirsi quando avviene la fuga di notizie da cui è tratto il “caso” Panama Papers che ci viene mostrata attraverso una lunga sequenza mixata di immagini tratte da telegiornali e programmi di approfondimento o dichiarazioni di politici tra cui lo stesso presidente Obama. Fuga di notizie che avviene per opera di John Doe che è un nome usato solitamente nel gergo giuridico statunitense per indicare un uomo la cui reale identità è sconosciuta o va mantenuta tale.

Ciò che emerge dalla fuga di notizie di Panama Papers, è che il neocapitalismo consiste in un intreccio che coinvolge persone in tutto il mondo.

Nella sequenza successiva, troviamo un carrello indietro su Mossack che prima è inquadrato in primissimo piano con alle spalle una spiaggia ed il mare, ma poi quando l’inquadratura si apre vediamo anche Fonseca: la spiaggia ed il mare sfumano su un muro e l’inquadratura si allarga ancora scoprendoli in una cella in una prigione. La sequenza continua e sulla didascalia che ci informa che Mossack e Fonseca sono stati in carcere per circa tre mesi, la porta della loro cella si apre da sola. Qual è la mano che la apre? È il sistema stesso!

La continuità della sequenza non è tuttavia conclusa: essa si allarga a mostrare come la prigione altro non sia che un teatro di posa. Per Mossack e Fonseca la vittoria di John Doe che li ha costretti a chiudere il loro studio, non è tuttavia la vittoria dei miti o dei poveri ma la vittoria degli Stati Uniti, ovvero ancora del più grande paradiso fiscale al mondo. Segue di nuovo un lungo piano sequenza che chiude il film con John Doe, alias Ellen Martin, alias Helena, alias Meryl Streep che entra nel teatro e si spoglia dei suoi travestimenti prima e dei suoi costumi poi. Seguita dalla macchina da presa, procede attraverso teatri di posa vuoti citando passi del manifesto di John Doe ed affermando che nel sistema attuale gli schiavi non conoscono le loro condizioni né i loro padroni che vivono in un mondo a parte mentre le loro catene consistono in rivoli “legalesi”, e affermando che se c’è stato bisogno di John Doe allora vuol dire che i contrappesi della democrazia sono venuti meno, fino a che seduta su una sedia Maryl Streep afferma che è necessario cominciare ad agire e che ciò inizia dal fare domande e dal sostenere che la politica non può accettare finanziamenti dalle elites incentivate ad evadere le tasse. Sempre la Streep conclude prendendo il copione sotto il braccio da un tavolino ed affermando con in pugno una spazzola ed il braccio in alto che la riforma del sistema di finanziamento delle campagne elettorali d’America non può più attendere.

Il film si chiude su una didascalia secondo cui 60 delle più ricche società degli USA non hanno pagato tasse per utili di 79 miliardi di dollari.

Per finire alcune osservazioni conclusive.

Con Panama Papers, il cinema di Soderbergh si pone in termini diversi: è un cinema dell’equivalenza degli spazi e dei tempi, un cinema in grado di mostrare insieme alla smaterializzazione del denaro anche la smaterializzazione dello scontro di classe perché questo scontro si dà a partire dalla smaterializzazione degli stessi soggetti in campo, dalla “fantasmaticità” di tutto il sistema.

Crediamo abbia ragione da vendere Roy Menarini, quando afferma che in Panama Papers il denaro crea la storia, ma ci è permesso vederne solo una piccola parte, legata al nostro qui e ora. Il capitalismo globale è una bio-pluto sfera: un battito d’ali da una parte crea un terremoto da un’altra parte. Il film di Soderbergh rende in maniera estremamente più attuale la dimensione immateriale del neocapitalismo rispetto a quanto fanno per esempio film come Wall Street di Oliver Stone o The wolf of Wall Street di Martin Scorsese ancora legati alla materialità del denaro e del successo.

Quello che forse è il limite maggiore del film di Soderbergh è che l’elemento satirico rischia di depotenziarne il contenuto critico. Ma soprattutto non è possibile negare che Soderbergh porti il suo film su Netflix ovvero la più grande struttura di film e serie, la più indebitata e, da ultimo, la più simile al capitalismo globale. La domanda è: fino a che livello il regista di Atlanta riesce a far esplodere le contraddizioni rispetto a Netflix e le contraddizioni tra il suo cinema e Netflix e non solo ad indicarle?[1]

E ancora, l’utilizzo dei molti piani sequenza per mostrare l’onnipervasività del sistema che ingloba tutti delineando ancora metonimicamente il tempo e lo spazio come un unico spazio-tempo globale, non lo mostra come costituito da una serie di omogeneità vuote simile appunto ai gusci vuoti di cui si è detto nei primi due segreti? Ma non è forse questo, al contrario si potrebbe sostenere, il punto forte del film? Quello cioè di saper rendere visivamente il proprio contenuto?

Ad ogni modo, in Panama Papers le esplosioni delle contraddizioni non avvengono tanto a livello formale, magari con un uso del montaggio volto a scardinare questo spazio-tempo omogeneo destrutturandone i piani, ma in quell’elemento che è tipico della critica al capitalismo del cinema soderberghiano, ovvero il far agire il “capitale” cinematografico – attori famosi, alti budget etc. – contro sé stesso in una maniera che non si era mai spinta così avanti, quando a parlare direttamente in macchina denunciando il sistema non è più il personaggio, sia esso Helena, Ellen o John Doe, ma la stessa Meryl Streep che non rappresenta più nessuno tranne sé stessa. Quanto, poi, questo sia l’ennesimo modo per essere “recuperato” dal sistema spettacolare, è una domanda che rimane aperta e mostra tutta l’ambiguità del cinema di Steven Soderbergh.

 

Note:

[1] Cf. Il podcast di Roy Menarini, Il posto delle fragole in www.roymenarini.it, 25/10/2019.