Trauma e ferita nel dialogo tra Catherine Malabou e Slavoj Žižek – di Domenico Licciardi

Trauma e ferita nel dialogo tra Catherine Malabou e Slavoj Žižek – di Domenico Licciardi

8 Settembre 2022 Off di Francesco Biagi

 

Ferito (Blessé).

  1. Aggettivo Che ha ricevuto un infortunio. Un ginocchio ferito.

– Figurato Ferito nel suo orgoglio

  1. Nome Persona ferita. Due morti e dieci feriti. Feriti di guerra

(Dictionnaire Le Robert)

 

Vi sono tanti modi in cui la parola “feriti” (al plurale: molti di loro, molteplici) dev’essere letta nel testo che è oggetto della nostra presentazione.[1] Cominceremo da due di questi, i più evidenti. “Feriti” sono i traumatizzati, i cerebrolesi, coloro che sono affetti da malattia neurodegenerativa o da dipendenze, da tendenze aggressive e autodistruttive, e così via. Si tratta dell’insieme particolare dei soggetti con disturbi o patologie neuropsichiatriche, in condizioni gravi, con scarse (o nulle) possibilità di recupero. “Feriti” sono, per estensione, le vittime socio-politiche e socio-economiche di una nuova forma di violenza, caratterizzata in primo luogo dalla sua mancanza di senso. Nell’epoca della decostruzione di ogni struttura messianica[2] (avvento, apocalisse, illuminismo, comunismo – qualunque nome si voglia dare alla promessa) la violenza è insensata. Non nel senso triviale a cui si risponderebbe che in fondo lo è sempre stata, bensì nel senso della pura catastrofe, del disastro che eccede ogni interpretazione possibile. Oggi, la violenza giunge da un deserto ontologico che trascende e circonda, da qualunque coordinata lo si osservi, il regime del significato (ovvero: di ogni significato). In questo orizzonte, i due sensi che abbiamo tentato di isolare della parola “blessés” rivelano la natura paradigmatica del loro rapporto: dal momento che le parole dei traumatizzati non sono più interpretabili, dal momento che essi hanno, per così dire, smesso di parlarci, la loro afasia costituisce il caso esemplare di ogni vittima di violenza.

Questione dell’auto-immanenza del senso e dell’estraneità del non-senso, dunque, ma si tratterebbe di un non sens che ha perduto ogni potenza ermeneutica ed estetica, deprivato di ogni slancio filosofico o avanguardistico. Così, se da un lato oggi si diffonde (anche all’interno di una «coscienza comune»)[3] una certa concretezza scientifica della natura cerebrale della sessualità e della nostra vita affettiva, dall’altro lato rimane ancora un’illusione: quella di potersi preservare dalla consapevolezza per cui la nostra vita biografica dipende da fragilissime connessioni neuronali. L’intento della riflessione di Malabou su psicoanalisi e neuroscienze (se non altro, nella circoscrizione di un testo come Les nouveaux blessés, su cui vertono gli interventi contenuti ne Il trauma: Ripetizione o distruzione?) sembra duplice. Da un lato, lo scopo sarebbe quello di decostruire l’ottimismo scientista che accompagna la divulgazione delle neuroscienze e la speranza di poterci appropriare del nostro cervello (e, con esso, delle nostre emozioni e capacità). Dall’altro lato, quello di decostruire la fiducia nel senso del non sens, ossia in quell’istanza che media tra il vuoto di senso (ad esempio, il delirio) e le sue strutture manifeste: l’inconscio. Entrambi questi poli (il polo neuroscientifico e il polo psicoanalitico) si sosterrebbero sull’esclusione del potere plastico dell’accidente, o della possibilità di un’accidentalità slegata da ogni causalità, psichica e cerebrale. Ripensare l’opposizione tra psicoanalisi e neuroscienze a partire da una fenomenologia della catastrofe (del senso) è l’ultima sfida (e, probabilmente – nel doppio senso dell’attuale e del terminale) della (“post-”) decostruzione.

Nell’esplorare la risposta di Žižek, ripartiremo dalla violenza. Esiste dunque una forma contemporanea della violenza e si tratterebbe di una violenza «senza legami trasparenti»[4], ovvero senza un esplicito rapporto causale – una violenza “occasionalista”, basata sul raddoppiamento di piani irriducibili. D’altro canto, non è possibile escludere dalla riflessione quei casi in cui l’accidente è fantasmagoricamente anticipato. Ad esempio, le catastrofi nel cinema hollywoodiano anticipano – e doppiano – l’apparente shock collettivo dell’undici settembre, dimostrando che «l’impensabile che è accaduto era già da tempo oggetto di fantasie, sicché, in un certo senso, l’America ha ottenuto ciò su cui andava fantasticando, e questa è stata la sorpresa più grande».[5] Un trauma come il disastro delle Torri Gemelle porta dunque alla luce la possibilità che l’assenza di causa sia in realtà l’effetto di limite di un’istanza inaccessibile: dietro l’apparente non sens della violenza, si celerebbe l’impeto del (ritorno del) fantasma, precedentemente espresso nelle forme distopiche del godimento cinematografico. Il fantasma, dunque – o ciò la cui posizione media tra il piacere e il godimento – è l’istanza che accoglie l’evento traumatico e lo fa «risuonare» fino al registro del Reale.[6] Estendendo l’argomento al problema dell’interruzione causale nelle forme contemporanee di violenza, si produce una curiosa situazione in cui noi non vediamo la causa dell’effetto, ma la causa (per così dire) guarda noi. Ci guarda e ci doppia: siamo noi stessi la ragione della catastrofe che osserviamo, pur nell’oscenità della nostra ignavia.

Questa ripartizione degli sguardi è ciò che, secondo Žižek, Malabou non vede o fa finta di non vedere: troppo coinvolta nella contemplazione (distopica) della forma (mutilata), Malabou non separa i piani di risonanza per cui dalla forma (finita) si potrebbe risalire alla causa (infinita) per scoprire, infine, che la prima non è che un effetto della seconda. In altre parole, ciò di cui Malabou eviterebbe (deliberatamente) di parlarci è che, senza la mediazione dell’istanza del doppio (o dell’istanza che sdoppia), il discorso sulla neuropatologia si perde nell’attorniamento e nella dissimulazione – processi panottici, tipici del regime (fantasmatico) della visione totale. L’enfasi di Žižek sulla dialettica tra piacere e jouissance punta a rivelare il circuito nascosto dietro i prestigi del fantasma, il gioco orgiastico del senso e del non-senso, oltre il cui velo si cela la verità per cui il soggetto (forma vuota, trascendentale) sarebbe «già-da-sempre»[7] ciò che sopravvive alla perdita genetica di sostanza (alla perdita cioè della spensierata pienezza di senso che fu propria del soggetto pre-cartesiano). E che il ferito – sia esso lo sfruttato o il soggetto autistico – non è l’unicum o il monstrum di un evento assolutamente singolare o irriducibile a qualsiasi struttura causale, bensì il «“grado zero”» della soggettività cartesiana.[8]

Ora, nella «Presentazione» a Il trauma: Ripetizione o distruzione?, Luigi Francesco Clemente e Franco Lolli affermano che, quello intercorso tra Malabou e Žižek, non sia in realtà un dialogo bensì «l’interazione tra due monologhi».[9] Ciò è vero, oltre che per il motivo riportato dai curatori (ogni dialogo filosofico è un doppio monologo), anche per un altro motivo. Nel leggere questo testo, noi assistiamo alle conseguenze o alle inferenze di due concezioni della trascendenza.

Da un lato, la trascendentalità di un soggetto psichico la cui struttura immaginifica (fantasmatica) e narcisistica (raddoppiante) corrisponde alla stessa, identica struttura del folle. Per Lacan, l’ultima istanza destinale di un soggetto geneticamente e strutturalmente esposto alla follia – destino che Henry Ey individuava in un’energetica funzionale del sistema nervoso – è da imputare ad una «insondabile decisione dell’essere»[10], che regge (pur senza reggerla) lo sviluppo dialettico della causalità psichica. In quest’ottica, l’evento traumatico (Ereignis) non può che essere doppio: doppiato nella sua contingenza e nella sua risonanza all’interno della spaziatura tra il corpo e l’imago, o tra la dimensione estetico-biologica di un sentire e di un vivere immediati e la dimensione della perpetua mediazione narcisistico-fantasmatica, che media appunto tra l’intimità e l’«ex-timità»[11] del soggetto. Per via dell’irriducibilità dei due piani o delle due dimensioni, non è possibile riflettere sulla deflagrazione del soggetto senza pensarla nei termini della «distruzione dell’oggetto a»[12], salvo riconoscere, in questa distruzione, nient’altro che il soggetto stesso nel suo statuto trascendentale e nel suo essere «già-da-sempre»[13] assoggettato alla separazione da (e al raddoppio di) sé. La ferita è il taglio irriducibile di questa separazione trascendentale (la castrazione).

Dall’altro lato, ritroviamo una concezione orizzontale della trascendenza, in cui si espleta il finale catastrofico di tutta una fenomenologia post-bellica dell’Altro, dell’esteriorità del volto e della traccia.[14] La violenza che pensavamo di aver lasciato alle nostre spalle ritorna nella forma dei nuovi “musulmani” di Buchenwald – tutta una folla di volti attoniti, assolutamente incomprensibili, accidentalmente trascendenti o – trascendenti per (mero) accidente. Non se ne ricava alcun senso, nessuna verità etica, o “non-epistemologica”. Qui manca perfino la seppur minima dignità del lutto, dato che il cerebroleso non piange per la morte del soggetto che era prima della lesione.

Per questo motivo, l’obiezione che Žižek muove a Malabou (a un certo punto, bisognerà pur far dialogare i due monologanti) è, pur nella sua perspicacia e nella dovizia di argomenti, al contempo troppo docile e troppo crudele. Critica crudele, perché le imputa la colpa di non mettere in gioco il proprio godimento, quando, dall’altro lato, si potrebbe ritorcere il fendente e rimproverare a Žižek un eccesso di (speranza nel) godimento (per esempio in relazione all’argomento per cui noi non sappiamo se l’indifferenza dei “feriti” – ad esempio, gli autistici – sia dovuta a sofferenza o una sorta di «beata ignoranza»[15] – essendo impossibile saperlo, non si può confermare né confutare l’argomento di Malabou, ma neppure quello di Žižek). Critica docile in quanto, assumendo di petto la difesa della psicoanalisi, egli risparmia a Malabou la difficoltà di dover tornare a riflettere sul rapporto tra il senso e il non senso, e dunque sulla relazione tra plasticità e decostruzione. Per esempio: senso e non-senso sono due domini opposti o due istanze che da sempre si (in-)abitano? Il loro rapporto è tetico o differenziale? Una volta che il viaggio della plasticità (uno dei concetti più promettenti, oggi, anche in ambito scientifico: si pensi al concetto biologico di “plasticità del vivente”) – una volta che il viaggio è approdato sulla sponda della fine del senso, dell’assoluto non sens della distruzione, come assicurarsi del fatto che questa sponda non sia anche l’ultima della plasticità? (O, se non altro – ma non è una questione da poco – la sponda finale del discorso, della possibilità di filosofare o di poter dire anche una sola altra parola sulla plasticità della vita – e della morte). Sul piano filosofico, la nozione di plasticità distruttrice porta con sé tutte queste domande.

Ad ogni modo, per concludere, la lettura de Il trauma: Ripetizione o distruzione? fornisce un’idea complessiva del potere dislocante del trauma, nel suo valore al contempo psicologico, esistenziale e politico-ontologico. Per questo motivo, i cinque saggi che compongono questo bellissimo testo non sono dedicati soltanto agli specialisti (filosofi, psicoterapeuti, neurologi) ma si rivolgono anche ad un pubblico più vasto. Al netto dell’articolazione delle questioni, psicoanalisi e decostruzione ci insegnano forse il significato più profondo della parola “blessé”: che il predicato può, per sempre o già da sempre, infrangere la sovranità della sostanza (e l’immunità ideale del senso). Ed è una possibilità, questa, che riguarda tutti noi, collettivamente.

 

Note:

[1] Catherine Malabou, Slavoj Žižek, Il trauma: Ripetizione o distruzione? Un confronto tra psicoanalisi, filosofia e neuroscienze, a cura di Luigi Francesco Clemente e Franco Lolli, Galaad Edizioni, Giulianova (TE) 2022.

[2] Rimandiamo, a tal proposito, a: Ontologia dell’accidente. Saggio sulla plasticità distruttrice, trad. it. di V. Maggiore, Meltemi, Sesto San Giovanni 2019.

[3] C. Malabou, Les nouveaux blessés. De Freud à la neurologie, penser les traumatismes contemporains, PUF, Parigi 2017, p. 19.

[4] Žižek, «Descartes e il soggetto post-traumatico», in: Il trauma: Ripetizione o distruzione?, cit., p. 36.

[5] Ivi, p. 45. Cfr. S. Žižek, Benvenuti nel deserto del reale, trad. it. di Piero Vereni, Meltemi, Sesto San Giovanni 2022.

[6] Il leitmotiv della risonanza ritorna in punti strategici del testo di Žižek, cfr.: Ivi, p. 38, p. 43, p. 53.

[7] Ivi, p. 63.

[8] Ivi, p. 72.

[9] Malabou, Žižek, Il trauma: Ripetizione o distruzione?, cit., p. 8.

[10] J. Lacan, «Discorso sulla causalità psichica», in: Id. Scritti. Vol. I, trad. it. di Giacomo Contri, Giulio Einaudi editore, Torino 2002, p. 171.

[11] Žižek, «Descartes e il soggetto post-traumatico», cit., p. 54.

[12] Ivi, p. 56.

[13] Ivi, p. 63.

[14] Cfr. C. Malabou, La plasticité au soir de l’écriture. Dialectique, destruction, déconstruction, Éditions Léo Scheer, Parigi 2005.

[15] Žižek, «Descartes e il soggetto post-traumatico», cit., (ripetuto tre volte nel corso di) pp. 48-50.