“METTITI AL MIO POSTO”. IDEOLOGIA E PARANOIA NEL TEMPO POST-IDEOLOGICO – di Dario Malinconico

“METTITI AL MIO POSTO”. IDEOLOGIA E PARANOIA NEL TEMPO POST-IDEOLOGICO – di Dario Malinconico

14 Luglio 2022 Off di Francesco Biagi

Premessa  

Affermare che viviamo in un tempo post-ideologico è un leitmotiv che ci accompagna incessante da almeno trent’anni. Con una prima, lampante conseguenza: se la “fine” può essere declinata in maniera molteplice (fine dell’ideologia in primis, ma anche fine della storia, fine delle grandi narrazioni, fine della lotta di classe), la fiducia diffusa nelle “mirabili sorti e progressive” continua imperturbabile, almeno nella parte occidentale del mondo, accompagnata dalla sensazione di essersi finalmente liberati da fardelli inutili, da strascichi novecenteschi inoperosi e deleteri. La seconda conseguenza è che ogni rigurgito ideologico viene etichettato ormai come una specie di revenant, in un misto di orrore e compassione.

Verrebbe la tentazione di ricondurre queste idee variamente presenti nel dibattito pubblico all’ennesima ideologia mascherata, definendo quindi il tempo post-ideologico come un tempo pienamente e pericolosamente ideologico, soprattutto se consideriamo che negli ultimi anni la drammaticità dei fenomeni storici – pandemia, nuovi conflitti globali, crisi climatica – sta riemergendo come grande rimosso collettivo. Si tratta di una posizione variamente condivisa e per molti aspetti sensata[1]. Potremmo però scegliere una strategia diversa, che proverò a vagliare nelle prossime pagine: prendere sul serio la definizione di tempo post-ideologico per trarne alcune conseguenze politiche e filosofiche.

L’assunto di fondo è che la fine di qualcosa, nelle società umane, non è mai un fatto in sé compiuto; è piuttosto un atto in svolgimento, un intreccio di intenzioni molteplici e di conflitti sovrapposti. In altre parole, presuppone sempre un posizionamento immanente, perché, come scriveva Maurice Merleau-Ponty, non esiste un “lieu de surplomp”, un luogo di sorvolo trascendente che permetta di abbracciare la totalità del sociale[2]. Il tempo post-ideologico è pertanto un evento in fieri, raccontato come fatto compiuto da alcuni o come falsificazione da altri, percepito come dato o respinto come ipotesi, scontato o inaudito a seconda del posizionamento; in fin dei conti, si tratta di una posta in gioco, come direbbe Foucault, o di un vero e proprio campo di battaglia, esperito però dal povero fantaccino di turno e non dall’imperatore che scruta tutto dall’alto della collina.

 

  1. Confessioni dall’Arcipelago 

Per comprendere cosa vuol dire vivere un tempo post-ideologico, ripartiamo da ciò che è stata l’ideologia novecentesca. Vi è una scena dell’Arcipelago Gulag di Solzenicyn, ripresa da Claude Lefort in uno dei primi libri dedicati all’opera del dissidente sovietico[3], che esemplifica al meglio la logica totalitaria. Un funzionario del campo di prigionia si rivolge a un detenuto che ha appena firmato una deposizione – la pratica delle confessioni estorte resa celebre da Orwell in 1984 – giustificando il proprio operato con la seguente frase: “Credi che ci faccia piacere usare mezzi di persuasione? […] Tu sei un vecchio membro del Partito, dì, cosa faresti al posto nostro?”[4].

La frase del funzionario circoscrive uno spazio comune, lo spazio del Noi, che annulla simbolicamente l’asimmetria esistente tra vittima e carnefice, tra un giudice che condanna e un detenuto che sprofonda nella condizione dell’internato, dell’uomo al bando. Espressa in assoluta buonafede, questa logica disattiva la relazione di potere nel momento stesso in cui la si esercita, portando ad un’unica considerazione possibile: non si può fare altrimenti. Secondo la penetrante analisi di Lefort, affinché vi sia una vera dualità di potere è necessario, infatti, un “terzo neutrale”, ovvero la legge, intesa come “fondatrice dello spazio sociale”[5]. Soltanto all’interno di questo spazio sociale, che è sempre frutto di un’istituzione artificiale, è possibile l’esistenza politica di un io e un tu, e non già attraverso delle leggi “empiriche” (costituzioni, carte dei diritti), ma mediante il riferimento ad un Altro, che Lefort appunto chiama la Legge, utilizzando un linguaggio che rimanda tanto alla psicoanalisi lacaniana quanto al celebre apologo Davanti alla Legge di Kafka[6]. In altre parole, esiste una vera reciprocità politica solo nel riferimento ad una esternalità del sociale. In caso contrario, non vi è altro che un noi indistinto, che fagocita ogni alterità e quindi ogni reciprocità possibile. La logica implicita nelle parole del funzionario può essere riassunta così: “il Partito condensa in sé tutti i suoi elementi, in modo che la relazione tra il suo rappresentante e l’imputato è puramente duale (senza riferimento alla Legge, ndr.), e di conseguenza l’uno configura il tutto e l’altro è annientato, sicché la relazione può essere fantasmaticamente annullata, e la materialità della vittima esaurita fino a dissolversi nel Noi del Partito”[7]. Questa logica rappresenta l’ossatura fondamentale dell’ideologia totalitaria che ha caratterizzato parte del secolo scorso.

Secondo tale ideologia, il funzionario non può che posizionarsi dal lato del Noi. Ma si badi bene: il Noi totalitario non è composto dall’insieme dei funzionari, cui si potrebbe contrapporre l’insieme dei detenuti – in tal caso la dualità avrebbe tutte le ragioni per sussistere, mediata dall’istituzione-carcere, così che al monito “mettiti al nostro posto” ogni detenuto avrebbe la possibilità di rispondere, in forma di diniego anarchico, “al vostro posto non ci so stare”[8]. Si tratta piuttosto di un Noi che incorpora il funzionario e il detenuto all’interno dello stesso blocco immaginario. Il funzionario di Solzenicyn potrebbe anche dire, rivolto al prigioniero che gli sta di fronte, “mettiti al mio posto”, ma quel “mio” non gli consentirebbe in nessun caso di tornare ad essere un individuo che si interfaccia con un altro individuo, perché il Noi perdurerebbe implicitamente nel discorso. Uno degli inquisitori sovietici di Buio a mezzogiorno di Arthur Koestler, rivolgendosi al protagonista, un ex commissario del popolo caduto in disgrazia al tempo delle Purghe, ripeteva non a caso un canovaccio simile: “mettiti nei miei panni […] dopo tutto le nostre posizioni avrebbero potuto benissimo essere capovolte”[9].

Per cui, anche se nel mondo totalitario i ruoli subalterni proliferavano e le asimmetrie di potere restavano brucianti, il discorso ideologico tentava di occultare tutto ciò mettendo in forma[10] un Noi capace di sussumere al proprio interno ogni esternalità. Utilizzo qui il lessico peculiare di Lefort, riprendendo in particolare le riflessioni sul concetto di ideologia espresse in alcuni saggi degli anni Settanta, purtroppo ancora poco noti nel dibattito contemporaneo[11]. L’ideologia, intesa in tal senso, è un’operazione dell’immaginario collettivo che occulta le divisioni e le asimmetrie sociali attraverso l’elaborazione di un complesso sistema di idee e di immagini che giustifica l’esistente come unico esistente possibile. Inoltre, l’ideologia nasconde il luogo vuoto del potere, ovvero l’assenza simbolica di legittimazione delle gerarchie sociali, dietro un muro di asserzioni autoreferenziali e di “logica granitica”[12].

Il totalitarismo novecentesco rappresenta perciò una sorta di ideologia allo stato puro, dove il Noi assume la forma – visibilissima e tentacolare – del Partito e del suo apparato burocratico. Si tratta però di un mondo che appartiene di fatto alla storia ante-1991, non certo all’attualità. Per citare nuovamente De André, vi è stata una “domenica delle salme” e un cadavere seppellito tra “i segni di una pace terrificante”[13]. Dobbiamo quindi domandarci se, con il crollo del mondo descritto nell’Arcipelago, sia venuto meno anche il sistema immaginario che ne giustificava il funzionamento, riassumibile nel motto “mettiti al nostro posto” e nell’impossibilità di procedere altrimenti. Detto in altre parole, dobbiamo domandarci se l’ideologia sia riuscita davvero a sopravvivere ai suoi (maldestri?) becchini.

 

  1. L’ideologia tra-noi

La questione non è peregrina, perché in una società dello “spettacolo integrato”[14], nel profluvio di immagini destrutturate e senza un centro di irradiazione ben identificabile che attraversa di continuo ogni aspetto della comunicazione, non è scontato che un sistema immaginario specifico riesca a diventare egemone. Del resto, l’ideologia totalitaria descritta da Lefort era popolata da fantasmi ormai lontani: in primo luogo, il fantasma dell’egualitarismo e di una società “sana”, senza divisioni di sorta; poi c’era il fantasma del Capo che tutto conosce e tutti protegge, un Egocrate temibile e rassicurante al tempo stesso, come Lefort definiva Stalin; soprattutto, vi era il fantasma del Noi incarnato nel Partito, inteso come una totalità che eccede la somma delle sue parti e che ha sempre ragione rispetto al singolo[15].

Quando, a partire dalla fine degli anni Settanta, comincia ad imporsi a livello immaginario l’idea che “la società non esiste, esistono solo gli individui”, come amava ripetere Margareth Thatcher, diventa evidente che il colpo inferto al Noi visibile dell’ideologia sarà durissimo, e non solo al Noi claudicante del socialismo dell’est, ma a qualsiasi costruzione immaginaria di un Noi sedimentata nell’auto-percezione di sé e non ridotta a semplice slogan pubblicitario. Il Noi comincia ad apparire, soprattutto alle latitudini occidentali, come una postura artefatta, un epiteto da cui allontanarsi alteri, o al più come una veste da mettere e smettere secondo l’occasione. Tanto che perfino le varie “chiamate alle armi” originate dalle guerre occidentali degli ultimi decenni (Iraq, Afghanistan), appellandosi ad un generico Noi-democratico contrapposto ai nuovi barbari antidemocratici, hanno avuto ben poca presa nella coscienza collettiva, nonostante molti si siano variamente sbracciati a definirle guerre di civiltà e quant’altro[16]. In questo senso, è illuminate una riflessione di Žižek ripresa anche da Mark Fisher:

Se il concetto di ideologia è quello classico in cui l’illusione sta nella conoscenza, allora la società di oggi dà l’idea di essere post-ideologica: l’ideologia prevalente è il cinismo; le persone non credono più in nessuna verità ideologica; la gente non prende seriamente nessuna proposta ideologicamente connotata […] Il cinico distacco è però soltanto un modo di renderci ciechi di fronte al potere strutturale della fantasia ideologica: anche se non prendiamo le cose sul serio, anche se manteniamo una distanza ironica da quello che facciamo, continuiamo comunque a farlo.[17]

Può esserci dunque ideologia quando il Noi viene trattato con distanziamento cinico, quando le immagini non hanno più centro né profondità e le opzioni politiche in campo sono accolte con un sostanziale indifferentismo? Alcuni risponderebbe convintamente di no, che ormai possiamo finalmente rinunciare all’ingombrante doppio del reale (come diceva Aristotele a proposito delle idee platoniche) rappresentato dall’ideologia, che ha come unico effetto quello di complicare l’analisi di una realtà di cui bisogna andare al nocciolo, un nocciolo fattuale ed evidente. “Argomenti, signor Galileo, argomenti”, intimavano i vecchi aristotelici al padre del metodo scientifico nell’opera di Brecht[18]. “Fatti, signora Ideologia, fatti”, intimano i nuovi aristotelici del realismo[19]. Dall’altra parte ci sono i figli a vario titolo del Marcuse de L’uomo a una dimensione, che sostengono esattamente il contrario: non vi è mai stata tanta ideologia come nell’epoca della fine delle ideologie, perché ve n’è una soltanto, vincente e tracotante, unica e omnipervasiva[20]; in altre parole, un’unica visione del mondo che seduce, organizza e categorizza la società attraverso i pilastri del consumo e dell’individualismo, senza utilizzare più una prassi essenzialmente coercitiva.

Come direbbe la saggezza popolare – anch’essa di derivazione aristotelica – la verità sta nel mezzo, nel senso che l’ideologia ha subito effettivamente una trasformazione post-ideologica. E qui, ancora una volta, ci viene in soccorso Lefort, che a proposito delle società occidentali del secondo Novecento parla di una nuova ideologia del tra-noi che si sarebbe imposta in maniera surrettizia ed implicita. Si tratta di un registro immaginario nel quale il Noi non viene “affermato ma presupposto – invulnerabile proprio perché rimane invisibile”[21]. Non è più il Noi totalitario, ma un tra-noi “familiare” e “reciproco”, che non ha bisogno di vietare o di espungere l’alterità, di presentarsi come un ideale regolativo esterno al corpo sociale. Questa nuova forma dell’ideologia, che non necessita più dell’identificazione con il potere politico tipica dei sistemi totalitari, si presenta perciò come socialmente invisibile. La pluralità dei suoi linguaggi e l’organizzazione sociale che determina sfuggono ad ogni localizzazione. Non è soltanto transnazionale in senso geografico, ma è appunto tra-noi, come una sorta di presupposto implicito ad ogni tentativo di decifrazione del presente. Oltretutto, aggiunge Lefort, il suo obiettivo peculiare, perseguito attraverso una diffusione comunicativa senza precedenti, è di “impedire la domanda sul senso dell’ordine prestabilito, la domanda sul possibile[22]. Il “qui ed ora” della comunicazione 24h su 24h diventa perciò una sorta di recinto senza sbarre e senza secondini. Dietro questa fascinazione per un eterno presente fatto di novità da inseguire senza sosta si nasconde il progressivo “naufragio” dell’idea di una società altra nata insieme alle grandi rivoluzioni della modernità. Lefort suggerisce pertanto che la traiettoria ideologica del Novecento sembra essersi in qualche modo compiuta, poiché ad essere occultata è ora l’alterità per eccellenza, quella che permette di pensare un’altra società possibile o addirittura un altro “mondo” possibile, come recitava uno slogan dell’ultimo grande movimento globale di critica sociale.

L’ideologia del tra-noi, identificabile con le società a capitalismo avanzato, si distingue perciò dall’ideologia totalitaria perché spoglia il Noi della sua “visibilità”, così da renderlo un presupposto implicito anche se costantemente negato. Non ci sono più la Società, il Capo e il Partito, ma l’impresa e la sua organizzazione, l’individuo e la sua libertà di essere o fare ciò che vuole. Destituendo le “maiuscole”, il tra-noi opera quella “naturalizzazione” delle gerarchie sociali che il totalitarismo non riusciva a compiere fino in fondo, perché, come spiega bene Fisher, “una posizione ideologica […] non può dirsi naturalizzata fino a quando viene recepita in termini di principio anziché come fatto compiuto”[23]. In tal senso, il totalitarismo viveva di principi roboanti e faticava a presentarsi come un fatto. Le società a capitalismo avanzato, al contrario, rifuggono le giustificazioni di principio e presentano il proprio funzionamento come semplicemente ovvio, attraverso quel marchingegno post-ideologico che Fisher chiama “realismo capitalista” e che coincide con l’imporsi a livello globale del neoliberismo.

Prima di avviarci alle conclusioni, è necessario perciò abbandonare la riflessione di Lefort e spostarci al di là della Manica, in terra “thatcheriana”, per interrogare il rapporto fondamentale tra neoliberismo e tempo post-ideologico.

 

  1. La pax neoliberista

In realtà non c’è nulla di nuovo ad affermare che l’“età della fine” cui accennavo nella premessa coincide con l’età del neoliberismo. Si tratta a ben vedere di una constatazione scontata. Cosa ci può essere di meno ideologico di un sistema che si presenta refrattario ad ogni sovrastruttura e ad ogni statalismo, “minimo” nei suoi diktat economici e “smart” nella sua progressiva dematerializzazione del fordismo novecentesco? Lo smantellamento del Welfare State, la precarizzazione del mondo del lavoro, la burocratizzazione fatta di call center e rendicontazioni continue[24] è sotto gli occhi di tutti, ed anzi la crisi pandemica scoppiata nel 2020 ne ha rivelato i tratti grottescamente inquietanti. Non basta però additare la sconfessione di ogni spessore ideologico come una grande menzogna (ideologica); bisogna cogliere il carattere di ideologia post-ideologica all’opera nel neoliberismo, un’ideologia che non si costruisce più attraverso il Noi ma si situa tra-noi, rendendoci degli individui “isola” circondati dal “mare” dell’infodemia, dei desideri indotti e delle frustrazioni perpetue. Come nel celebre apologo raccontato da David Foster Wallace: due giovani pesci incontrano un pesce più anziano che domanda loro “com’è l’acqua?”, al che i due non rispondono e poi si chiedono basiti “che diavolo è l’acqua?”[25]. L’acqua è appunto il tra-noi che assume la forma di una presenza invisibile, inavvertita e sostanzialmente inavvertibile, come se l’assolutamente ovvio e l’assolutamente estraneo si congiungessero tra loro. La conseguenza è che viene troncata sul nascere ogni domanda sul senso del presente e sul senso del possibile, poiché ormai è più facile immaginare la fine del mondo anziché la fine del capitalismo, come scrive Fisher.

Non è un caso che due delle voci più interessanti della critica al neoliberismo, David Harvey e, appunto, Mark Fisher, provengano da ambiti “eccentrici” rispetto alla classica teoria critica, segno che il tempo post-ideologico scompagina perfino le suddivisioni disciplinari tanto care alla seconda metà del Novecento. Harvey è geografo e antropologo, mentre Fisher, morto precocemente in circostanze tragiche, era un blogger cyberpunk, anche se di formazione filosofica. Nonostante siano separati anagraficamente da più di trent’anni, entrambi assumono l’epoca thatcheriana come visuale privilegiata per comprendere la genesi del neoliberismo. Al tempo stesso, ci danno delle ottime armi interpretative per analizzare l’apparente contraddittorietà di una ideologia post-ideologica.

Tracciando la sua breve storia del neoliberismo[26], Harvey ricostruisce il filo rosso che lega la scuola di economisti formata a Chicago da Milton Friedman al Cile di Pinochet, dove verranno sperimentate per la prima volta le ricette elaborate dai “boys” di Friedman, fatte di privatizzazioni e riduzione del costo del lavoro, per poi arrivare all’epoca di Reagan e soprattutto di Thatcher, oltre che alla Cina di Teng Hsiao-ping. Il suo obiettivo è mostrare che una visione del mondo non diventa imperante dall’oggi al domani, né può fare a meno di think-tanks capillari e strutturati che rendano pensabile ciò che fino a pochi anni prima era impensabile. L’imporsi globale del liberismo è stato infatti possibile grazie ad un cambiamento profondo al livello del senso comune operante delle nostre società, sollecitato da un richiamo costante alla “causa delle libertà individuali”[27]. Il risultato non è stato soltanto quello di imporre una dottrina economica che, come sintetizzava Joseph Stiglitz, è riuscita “a far tirare la cinghia ai poveri e a farla allentare ai ricchi”, ma anche di presentarla come “un modo necessario, o addirittura del tutto naturale, per regolare l’ordine sociale”[28]. Harvey passa in rassegna le apparenti contraddizioni del neoliberismo di Reagan e Thatcher (come “l’alleanza profana tra grandi affaristi e cristiani conservatori” in America, oppure l’alleanza tra la classe media inglese rappresentata da Thatcher e i “capitani” dell’industria e della finanza[29]) per mostrarne la vera forza ideologica: aver trasformato in “correnti dominanti” delle posizioni che fino ad allora erano state minoritarie, e di averlo fatto attraverso il lavorio integrato di scuole economiche, istituzioni internazionali, politiche monetarie e mass media. Tutto ciò ha permesso di “costruire” un ordine delle cose naturale e immodificabile, che diventa l’unico orizzonte di pensabilità possibile; un ordine – ed è qui il punto decisivo – che parla il linguaggio della “dignità umana” e della “libertà individuale”[30], dell’autodeterminazione e dell’automiglioramento, schermi perfetti per mascherare quella che Harvey chiama “la tendenza alla restaurazione del potere di classe”. Questa filogenesi del neoliberismo ci mette perciò in guardia rispetto al rischio insito in un’analisi del reale prospettata in termini di ideologia, e cioè restare vittima di ideologia nel momento stesso in cui si utilizza tale categoria. Del resto lo spiegava molto bene già Gramsci, paragonando chi ragiona in maniera ideologica al cuculo, l’uccello che depone le sue uova nei nidi altrui: a differenza del realista, che sa quanto sia arduo “organizzare” la volontà collettiva in vista di un rivolgimento politico, l’ideologo-cuculo, dato che non “sa costruire nidi, pensa che le volontà collettive siano un dato di fatto naturalistico, che sbocciano e si sviluppano per ragioni insite nelle cose”[31]. Harvey ci dice quindi che l’ideologia presuppone un lavorio lungo e complesso, e che solo tale lavorio integrato riesce a rendere naturale ciò che naturale non è; oltretutto, è stato proprio sollecitando continuamente i desideri e l’aspirazione alla libertà degli esseri umani che l’ideologia neoliberista è riuscita ad imporre il proprio ordine diseguale del mondo.

A differenza dell’analisi “classica” di Harvey, Mark Fischer utilizza svariati riferimenti alla cultura pop tra anni Ottanta e anni Duemila per mostrare in che modo prenda forma la visione del mondo neoliberista dentro una società dell’immagine come la nostra. Oggetto della sua analisi non è quindi da dove proviene, ma verso dove procede il neoliberismo imperante. Ma anche secondo Fischer la direzione diventa sempre più chiara proprio a partire dall’epoca thatcheriana: il neoliberismo tende ad imporsi come l’unico principio di realtà possibile (il “realismo capitalista”), ipostatizzando lo slogan “There is no alternative” e facendolo diventare una “profezia che si autoavvera”[32]. Impotenza riflessiva (sapere che la situazione è brutta ma sapere ancor di più che non ci si può fare niente), edonia depressa (“l’incapacità di non inseguire altro che il piacere”[33]), medicalizzazione dei problemi sociali e individualizzazione dei problemi collettivi sono solo alcune delle conseguenze che il realismo capitalista porta con sé e che Fisher analizza in maniera impietosa. Soprattutto, il realismo capitalista ci pone di fronte “una realtà infinitamente plastica, capace di riconfigurarsi come e quando vuole”[34], e che quindi ci getta in una “perenne instabilità”, in una stasi instabile e in una vera e propria pax romana che lascia attorno a sé le macerie materiali del consumo e le malattie mentali associate ad un sistema che valuta continuamente le prestazioni e colpevolizza ogni fallimento. Nonostante siamo ancora immersi nella “lunga e tenebrosa notte della fine della storia”, secondo Fisher dobbiamo però riuscire a cogliere ogni minima opportunità di “ritagliare un buco nella cortina” asfissiante del neoliberismo[35]. Se la direzione del realismo capitalista è l’assuefazione ad una stasi instabile e ad un presente eternamente frenetico, gli antidoti vanno ricercati, oltre che in nuove forme di antagonismo collettivo, anche in nuove pratiche di “auto-limitazione del desiderio” di spinoziana memoria, che consentano di “accantonare le passioni tristi che ci intossicano e ci ipnotizzano”[36].

 

  1. Oltre la paranoia ideologica 

Proviamo a tirare (provvisoriamente) le somme di quanto detto fin qui. Se prendiamo sul serio la definizione di tempo post-ideologico, o di “lunga e tenebrosa notte della fine della storia” come scrive Fisher, allora dobbiamo ripensare a fondo l’utilizzo stesso del concetto di ideologia. Dobbiamo cioè considerarne il paradossale carattere post-ideologico, nel senso che oggi l’ideologia non ha più un Noi immaginario da costruire, ma assume esclusivamente la logica del realismo, diventando un’operazione dell’immaginario che funziona alla maniera del debugging: appena si prova a costruire un altrove, l’ideologia interviene a “correggerlo” in nome del semplicemente ovvio, dell’evidentemente impossibile[37].

Il tempo post-ideologico non ha più bisogno di invitare alla reciprocità fittizia del “mettersi al posto del comando”, perché ormai tutti occupano quel posto in maniera immaginifica, anche se nella quotidianità praticano il distanziamento cinico cui faceva riferimento Žižek – non prendere niente sul serio ma continuare a fare ciò che la società pretende da noi. Il risultato è che tutti si “mettono al posto” dei medici che dirigono la profilassi pubblica o degli analisti dell’intelligence, accettando implicitamente che quella sia l’unica logica possibile. Qui non si tratta ovviamente dell’accusa mossa da medici e studiosi di geopolitica che si sentono vittime di lesa maestà. Il punto è che l’identificazione immaginaria rappresenta la modalità attraverso cui l’ideologia rende “naturali” le gerarchie sociali. L’esperienza totalitaria ci ha insegnato infatti che “mettersi al posto” di comando significa disattivare l’altrove, impedire ogni esternalità del potere costituito. Solo che nel mondo dell’Arcipelago questa identificazione immaginaria doveva essere continuamente innescata dal Partito con un processo spettacolare, un interrogatorio-confessione o una seduta nel Ministero dell’Amore, per citare Orwell. Adesso, invece, si tratta di un’identificazione “realistica”, autoindotta e “naturale” come una coazione a ripetere, proprio perché il principio di realtà rappresenta “la forma più alta di ideologia, quella che si presenta come fatto empirico, come necessità biologica o economica”[38]. Al tempo stesso, l’identificazione “realistica” con la logica del potere costituito serve a contenere il reale inteso in maniera lacaniana, ovvero il reale che è “una X non rappresentabile, il vuoto traumatico che può essere soltanto intravisto tra le spaccature e le contraddizioni della realtà apparente”[39].

Eppure, anche il reale può riemergere in forme inaspettate. Uno dei rischi insiti in un’ideologia senza Noi, un’ideologia post-ideologica che è diventata struttura stessa del vivere sociale, è che alla critica dell’ideologia finisca per subentrare la paranoia ideologica dei vari complottismi che si stanno affermando negli ultimi anni. Da questo punto di vista, la tesi sviluppata da Wu Ming 1 nel recente La Q di Qomplotto è molto interessante: le fantasie di complotto hanno sempre avuto la funzione di deviare verso il “basso” ogni critica sociale, come una sorta di “messa a terra del capitalismo” che “scaricava in basso la tensione e impediva che le persone fossero folgorate dalla consapevolezza che il sistema andava cambiato”[40]. Queste fantasie si tramutano oggi in un’ossessività paranoide che comincia a vedere ideologia dappertutto proprio perché l’ideologia è tra-noi e il suo funzionamento è “invisibile”.

Ecco allora che la critica dell’ideologia si ritrova a dividere il terreno di gioco con la paranoia ideologica. Si tratta di un crinale complesso, ben rappresentato dall’immagine degli occhiali da sole utilizzata da Slavoj Žižek nel documentario The Pervert’s Guide To Ideology del 2013. In un film “cult” di John Carpenter intitolato They lives (1988), un paio di occhiali da sole, una volta indossati, permettono di scorgere il vero messaggio che si cela in ogni propaganda o pubblicità, rivelando i segni della dittatura dietro la facciata democratica della società americana. “Il nostro senso comune – spiega Žižek nel documentario – ci porta a pensare che l’ideologia sia qualcosa che appanna, che confonde la visione diretta delle cose. L’ideologia dovrebbe essere gli occhiali da sole che alterano il nostro punto di vista e la critica all’ideologia dovrebbe essere l’opposto, cioè il togliersi gli occhiali in modo da poter finalmente vedere la realtà delle cose”. Ma le cose funzionano in modo opposto: l’ideologia, nella metafora del film di Carpenter, è la realtà che abbiamo davanti agli occhi e che recepiamo mediante la pubblicità e la comunicazione diffusa; la critica dell’ideologia incomincia quando si indossano gli occhiali, quando cioè si intraprende un percorso di pensiero critico che rompe la monodirezionalità dei discorsi imperanti.

Ma gli “occhiali” che mostrano ovunque i segni dell’ideologia possono essere anche quelli della paranoia ideologica, che non sa più dove cercare l’ideologia e quindi la vede ovunque. Si tratta di una spirale di isolamento condiviso che porta alla riattualizzazione del Noi nella forma di “piccoli noi” separati, chiusi in un recinto di asserzioni che rintuzzano l’esistente dato, inscalfibili da ogni debunking inteso un “confutazione analitica nel procedere e polemica nei toni”[41]. Nel meccanismo paranoide vi è sempre la loro ideologia che noi abbiamo smascherato ovunque si trova, dallo studio ovale al programma in seconda serata. Ma ciò che è ovunque, oltre ad essere “indecente”[42], non è mai in nessun luogo specifico. Per questo l’ideologia smascherata dai complottisti sfuma tra le mani come una statua di sabbia.

Ci si può dunque sottrarre al rischio della paranoia ideologica senza ricadere nella pura e semplice ipostatizzazione dell’esistente? Le indicazioni non possono essere che parziali. Sicuramente è nel tra-noi che bisogna operare, senza lasciarsi irretire dai piccoli recinti ma senza rinunciare alla testarda costruzione di un Noi-altro, pur consapevoli che potrebbe trasformarsi nell’ennesima proiezione paranoica. Bisogna però evitare di riporre tutta la nostra fiducia nella scelta degli occhiali “giusti” atti a cambiare la realtà, ritenendo che la colpa sia delle “idee sbagliate” – proprio come quel “valentuomo” secondo il quale “gli uomini annegano nell’acqua soltanto perché ossessionati dal pensiero della gravità”[43]. In questo modo si ricadrebbe nella “trappola del cuculo” di cui parlava Gramsci, e cioè nella convinzione (ideologica) che esistano delle “ragioni insite nelle cose”. Il campo del possibile comincia oltre il realismo e oltre la paranoia, ma non si esaurisce nell’altrove immaginario. Solo una prassi istituente e collettiva potrà metterlo in relazione col reale.

 

Note:

[1] Cfr. la ricostruzione del dibattito degli ultimi decenni proposta da Claudio Belloni in «Fine delle ideologie? Una domanda ideologica», gennaio 2018, www.dialetticaefilosofia.it. A questo proposito, è interessante notare che anche negli ambienti tradizionalmente conservatori qualcuno comincia a mettere in dubbio la “fine della storia” teorizzata da Francis Fukuyama negli anni Novanta: il politologo americano Robert Kagan, ex membro del Partito Repubblicano, ha coniato nel 2018 l’espressione “la giungla della storia sta ricrescendo”, espressione citata recentemente (marzo 2022) da Mario Draghi in un discorso sul conflitto russo-ucraino tenuto al Senato della Repubblica italiana.

[2] M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, trad. it. di A. Bonomi, Bompiani, Milano 2009, p. 100.

[3] C. Lefort, L’uomo al bando. Riflessioni sull’arcipelago Gulag, trad. it. di M. Colombo, Vallecchi Editore, Firenze 1980.

[4] Ivi, p. 106.

[5] Ibidem

[6] Questa analogia viene proposta in particolare da Bernard Flynn in La philosophie politique de Claude Lefort, Belin, Parigi 2012, pp. 228-229.

[7] C. Lefort, Un uomo al bando, cit, p. 107.

[8] “Non mi aspettavo un vostro errore/uomini e donne di tribunale/se fossi stato al vostro posto/ma al vostro posto non ci so stare” sono versi della canzone Nella mia ora di libertà di Fabrizio De André, contenuta nell’album Storia di un impiegato del 1973.

[9] A. Koestler, Buio a mezzogiorno, Mondadori, Milano 1946, p. 103. Cfr. M. Revelli, «Processi politici e paranoia» in Paranoia e politica, a cura di S. Forti e M. Revelli, Bollati Boringhieri, Torino 2007, pp. 181-232.

[10] Termine tipicamente lefortiano, mutuato dallo studio dell’antropologia sociale e utilizzato a partire dai primi anni Cinquanta, la mise en forme è il movimento simbolico che dona alla società il suo ordine condiviso e permette di passare dall’individuale ai valori universali. Sul significato di questo ed altri concetti lefortiani utilizzati nelle prossime pagine, mi permetto di rimandare a D. Malinconico, L’incertezza democratica. Potere e conflitto in Claude Lefort, La scuola di Pitagora editrice, Napoli 2020.

[11] Si tratta di due testi editi per la rivista Textures, «La naissance de l’idéologie et l’humanisme» ed «Esquisse d’une genése de l’idéologie dans les sociétés modernes», elaborati tra il 1973 e il 1974 come parti di un’opera più ampia sull’ideologia mai portata a termine e pubblicati poi nella raccolta Les formes de l’histoire. Essais d’anthropologie politique, Gallimard, Parigi 1978, ed. it. Le forme della storia. Saggi di antropologia politica, trad. it. B. Aledda, P. Montanari, Il Ponte, Bologna 2005.

[12] C. Lefort, L’uomo al bando, cit., p. 108.

[13] Sono versi tratti dalla canzone La domenica delle salme, scritta da De André e Mauro Pagani, contenuta nell’album Le nuvole del 1990.

[14] G. Debord, Commentari sulla società dello spettacolo (1988), in La società dello spettacolo, trad. it. di P. Salvadori e F. Vasarri, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2004, pp. 194-195.

[15] Cfr. l’analisi che propone Lefort dei “fantasmi” e delle “illusioni” del socialismo reale in uno dei suoi ultimi testi, La complicazione. Al fondo della questione comunista, trad. it. di G. Regoli, Eléuthera, Milano 2000.

[16] Cfr. S. P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 2001.

[17] M. Fisher, Realismo Capitalista, trad. it. di V. Mattioli, Nero, Roma 2018, pp. 44-45.

[18] B. Brecht, Vita di Galileo, a cura di E. Castellani, Einaudi, Torino 1963, p. 54.

[19] Cfr. Bentornata realtà. Il nuovo realismo in discussione, a cura di M. De Caro e M. Ferraris, Einaudi, Torino 2012.

[20] H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, trad. it. di T. Giani Gallino, Einaudi, Torino 1999, pp. 30-31.

[21] C. Lefort, Le forme della storia, cit., p. 343.

[22] Ivi, p. 348

[23] M. Fisher, Realismo Capitalista, cit., p. 51.

[24] Fisher è stato un grande analista dell’intreccio tra burocratizzazione, informatizzazione e sorveglianza dei lavoratori nel capitalismo avanzato, tanto che utilizzava ironicamente l’espressione “stalinismo di mercato” per intendere che il capitalismo di oggi “riprende questo suo [dello stalinismo, ndr.] attaccamento ai simboli dei risultati raggiunti, più che l’effettiva concretezza del risultato in sé” (M. Fisher, Realismo Capitalista, cit., p. 92). Una rappresentazione icastica di questo processo la dà anche Ken Loach nel suo capolavoro del 2016 I, Daniel Blake, vincitore della Palma d’oro a Cannes, durissimo atto d’accusa contro il sistema iper-burocratizzato dei sussidi statali in Gran Bretagna.

[25] Cfr. D. F. Wallace, Questa è l’acqua, trad. it. di G. Granato, Einaudi, Torino 2009.

[26] D. Harvey, Breve storia del neoliberismo, trad. it. di P. Meneghelli, Il Saggiatore, Milano 2007.

[27] Ivi, p. 51.

[28] Ivi, p. 53.

[29] Ivi, p. 63 e p. 76.

[30] Ivi, p. 14.

[31] A. Gramsci, Quaderni dal carcere, vol. III, Einaudi, Torino 1975, p. 1789.

[32] M. Fischer, Realismo Capitalista, cit., p. 58.

[33] Ivi, p. 59.

[34] Ivi, p. 110.

[35] Ivi, p. 152.

[36] Ivi, p. 139.

[37] Per restare alle metafore informatiche, è una funzione che potrebbe essere paragonata a quella che svolge l’Architetto in Matrix Reloaded (2003), generando i nemici del sistema e replicandoli all’infinito con l’unico scopo del mantenimento dell’esistente, della stabilizzazione progressiva del programma “matrice”.

[38] M. Fisher, Realismo Capitalista, cit., p. 53.

[39] Ibidem

[40] Wu Ming 1, La Q di Qomplotto. QAnon e dintorni. Come le fantasie di complotto difendono il sistema, Edizioni Alegre, Roma 2021, p. 163.

[41] Ivi, p. 255.

[42] “«È vero che il buon Dio è in ogni luogo?» domandò una bambina a sua madre: «ma io trovo che questo sia indecente» – un consiglio per i filosofi!” (F. Nietzsche, La Gaia Scienza, a cura di C. Gentili, Einaudi, Torino 2015, p. 11).

[43] K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca, trad. it. di F. Codino, Editori Riuniti, Roma 2000, p. 7.