Sulle nuove forme della città. Tra Cloud metropolis, lavoro digitale e astrazione – di Alessandro Simoncini

Sulle nuove forme della città. Tra Cloud metropolis, lavoro digitale e astrazione – di Alessandro Simoncini

30 Giugno 2022 Off di Francesco Biagi

Questo testo getta uno sguardo sul modo in cui il capitalismo digitale ha modificato le forme della città e quelle del  lavoro. Nella prima parte si analizza il concetto di Cloud Metropolis, dietro il quale sta l’ipotesi che negli ultimi decenni abbia preso forma qualcosa di simile a una metropoli virtuale planetaria: una metropoli le cui infrastrutture sono le piattaforme digitali, che impattano in modo sensibile sugli assetti materiali delle nostre città. Nella seconda parte vengono presi in esame alcuni aspetti del lavoro che alimenta incessantemente le piattaforme e il modo in cui esso viene assoggettato attraverso vecchie e nuove forme di comando e di sfruttamento. Nella terza parte il capitalismo delle piattaforme viene ricondotto alla logica dell’astrazione, considerata come un’invariante del capitalismo storico e della civiltà capitalista[1].

 

  1. Tra Cloud Metropolis e nuove forme della città

Il concetto di Cloud metropolis è stato coniato dal collettivo di studiosi Into the Black Box. Secondo Into the Black Box, i recenti sviluppi del capitalismo digitale hanno dato forma a una Cloud metropolis «immateriale» da intendersi come l’infrastruttura «tecno-politica» che sostiene l’affermazione di una «metropoli planetaria 4.0»[2]. Questa si istituisce, a sua volta, «lungo le catene globali del valore, le rotte logistiche dell’urbanizzazione planetaria, la costruzione delle città digitali come piattaforme»[3].

Per spiegare il senso della locuzione concettuale «Cloud metropolis» occorre ricordare che il termine Cloud fa riferimento alla «nuvola» di dati e servizi sempre accessibile, se si possiede una connessione, da qualsiasi dispositivo ed in qualsiasi luogo: una nuvola digitale di dimensioni planetarie che ci è stata spesso presentata come qualcosa di prettamente immateriale, ma che in realtà è resa possibile dai materialissimi data center in cui sono collocati i tantissimi computer che fungono da server, ossia da nodi dello stesso Cloud. Banalmente, tutte le volte che facciamo una ricerca, richiediamo un servizio, guardiamo un video, inviamo una mail, ci connettiamo a Zoom o ad altre piattaforme, in qualche angolo del mondo ci sono server che rispondono alle nostre richieste in pochi nanosecondi. In altri termini, il Cloud è l’infrastruttura che sta alla base di tutto il digitale: è il motore di tutte le nostre interazioni digitali. Rende possibili i miliardi di operazioni che ogni giorno estendono sul globo una sorta di metropoli digitale: ecco dunque la Cloud metropolis di cui parla Into the black box. «Inteso metaforicamente come spazialità digitale» – scrivono i membri del collettivo -, il Cloud «può essere considerato in sé una metropoli stratificata, planetaria, virtuale ma con le sue infrastrutture materiali  che la sorreggono»[4]: i data center.

Il Cloud è sottoposto a un rigido oligopolio: Amazon, Microsoft e Google possiedono oltre il 64% della sua proprietà[5]. Inoltre è «una tecnologia estrattiva ad alta intensità di risorse, che converte acqua ed elettricità in potenza computazionale, lasciando dietro di sé una quantità considerevole di danni ambientali»[6]: una tecnologia che alimenta quindi la contraddizione tra capitale e natura. Internet è infatti il quarto consumatore di energia elettrica al mondo dopo Cina, Stati Uniti e India[7]. Si stima che per alimentare l’insieme delle attività della Information and Communication Technology (Ict) ci sia bisogno ogni anno di 4.000 terawatt, di elettricità[8]. Questo significa che l’Ict emette circa 1100 megatonnellate di CO2, il 3,6% di quelle globali nel 2020. Contribuisce cioè «ai cambiamenti climatici più dell’aviazione (2,4% delle emissioni nel 2019) e più di tutte le navi del mondo (2,9%)»[9]. Con i suoi energivori data center, Il Cloud è responsabile del 45% di queste emissioni: 494 megatonnellate. L’Ict produce poi «enormi quantità di rifiuti (rifiuti elettronici o e-waste), di cui la maggior parte viene smaltita nei paesi del Sud globale», i quali subiscono un duplice impatto: «in origine vengono depredati delle loro risorse naturali, e alla fine del ciclo […] diventano delle discariche, con annesse attività di recupero in condizioni lavorative degradate e insalubri»[10]. È questo il lato osceno della Cloud metropolis, questa sorta di metropoli digitale planetaria che rende possibili le incessanti operazioni del capitale globalizzato, alimentando il funzionamento informatizzato delle catene globali del valore e regolando le rotte logistiche dell’urbanizzazione planetaria[11].

È attraverso le operazioni sempre più pervasive delle piattaforme digitali che la Cloud metropolis mette in atto il suo potenziale trasformativo sullo spazio urbano e su ciò che accade al suo interno. Amazon, Uber, Booking Airbnb, Deliveroo, Foodora, Teams, Zoom, per citarne solo alcune delle più famose, sono di fatto le infrastrutture digitali che rimodellano gli assetti della città e della sua vita collettiva, distendendo il Cloud in una sorta di «iper-urbanità»[12]. Di seguito, qualche esempio. Come ha mostrato in modo persuasivo Sarah Gainsforth con una ricca indagine sui quartieri e sui centri storici di Barcellona, Venezia, Firenze, Lisbona, New York, Airbnb ha mutato i connotati del turismo e del mercato immobiliare di molte città rimodellandone il settore abitativo[13]. Ha diffuso a macchia d’olio la prassi degli affitti brevi in città che tendono a divenire luna park per turisti – città in cui il turismo è il «principale strumento di gentrificazione e di marketing» – e ha quindi ridotto la quota di case disponibili per gli affitti a medio-lungo termine, facendone impennare i prezzi per chi ne ha bisogno e stimolando la rendita[14]. Airbnb ha cioè amplificato il processo in atto da lungo tempo per cui le città – «città di case senza gente e di gente senza casa» – vengono trasformate «in strumenti dell’accumulazione finanziaria»[15]. Pur spacciandosi come «rimedio alla crisi dei redditi e dello status del ceto medio impoverito», Airbnb ha funzionato così da «divaricatore sociale»[16]. E facendo della casa di proprietà l’ultima rendita da valorizzare, è diventata «un colosso capace di insidiare le catene alberghiere» e un «nuovo monopolio che ha radicalizzato le politiche urbane neoliberali»[17].

Un altro esempio del modo in cui il capitalismo delle piattaforme atterra dal Cloud nelle città è quello del Food Delivery. Deliveroo, Foodora, Glovo hanno fatto emergere e moltiplicato in città attività di consegna del cibo che storicamente si svolgevano nella sfera informale. Hanno ridefinito l’intero settore della ristorazione da cui estraggono ampie quote di valore, costringendo i ristoratori ad adeguarsi alle loro logiche organizzative – compresa quella del ranking, con le recensioni dei clienti – e a subire un «legame di dipendenza» nei loro confronti[18]. Le piattaforme del Food Delivery hanno quindi foodificato intensivamente lo spazio urbano. Come nel caso paradigmatico di Bologna dove nel secondo decennio del nuovo secolo si sono infilate nel varco aperto dal progetto-Brand Bologna città del cibo, con cui l’amministrazione puntava a uscire dalla crisi economica attraverso la turistificazione ad oltranza di un centro storico ridefinito come scenografia da consumare[19].

Ma è Amazon a fornire la rappresentazione più plastica e approfondita della dialettica tra Cloud e metropoli. Avvalendosi del lavoro di centri studi e consulenti pagati profumatamente, Amazon studia approfonditamente i territori in cui opera e i soggetti che li abitano. Sviluppa così un’«intelligenza urbana» che le permette di sviluppare «una crescente capacità di produrre un proprio piano urbano»[20]. Nelle città in cui opera Amazon progetta cioè il modo di connettere efficacemente «la rotta oceanica delle navi porta-container con gli attracchi ai porti; questi con le strade che poi conducono ai vari grandi magazzini situati alle periferie urbane[21]; e da lì Amazon struttura i flussi verso centri di smistamento più ridotti arrivando fino alle nostre abitazioni»: il tutto digitalmente e algoritmicamente monitorato grazie al Cloud[22]. Dentro le città l’intelligenza urbana di Amazon articola tra loro grandi e piccole infrastrutture, costruendo grandi magazzini automatizzati collegati a piccoli hub (composti da capannoni e depositi che si trovano in posizioni privilegiate per le operazioni logistiche) e attivando grandi snodi logistici resi sempre più dinamici dalla disseminazione in città di molteplici locker (luoghi adibiti al ritiro dei pacchi che si trovano nei supermercati, nei centri commerciali, negli uffici postali, ma anche nelle tabaccherie o nelle stazioni di servizio).

Insomma, Amazon contribuisce a pianificare le nuove forme della città coniugando la logistica globale – il sistema delle supply chain just-in-time sempre più guidato digitalmente[23] – con la cosiddetta last mile logistics: la logistica dell’ultimo miglio «che ha definitivamente ‘trionfato’ con l’esplosione dell’e-commerce in pandemia»[24]. In sostanza Amazon concepisce il territorio in cui opera come un proprio hub «liberamente malleabile, riprogrammabile a suo piacimento»[25]. Dall’alto del suo potere economico globale, e tramite un’intensa attività di lobbying e propaganda, mostra infatti di possedere una notevole capacità di orientare le politiche urbanistiche surfando «sui dislivelli tra le proposte di esenzione fiscale dei vari Stati, mettendo in concorrenza le amministrazioni locali per farsi garantire maggiori vantaggi»[26]. Insomma, le operazioni di Amazon appaiono paradigmatiche del modo in cui le piattaforme digitali modificano lo spazio urbano per i loro scopi, trasferendo gli assiomi della valorizzazione capitalistica dal livello macro della Cloud metropolis digitale planetaria al livello micro delle singole città.

Le piattaforme però non producono solo effetti fisici sullo spazio urbano. Ne ridefiniscono anche l’immaginario facendo leva sul discorso suadente della smart city. Dai giganti del platform capitalism, la città-piattaforma viene proposta come un «sistema aperto di opportunità, un agglomerato di hardware e software in cui un passaggio in automobile, un pasto a casa o un pernottamento in appartamento sono costantemente a portata di dito»[27]. In questo immaginario – come ha scritto il geografo Alberto Valz Gris – la metropoli diventa il luogo che le trasformazioni tecnologiche rendono uno «spazio privilegiato di opportunità di crescita»: uno spazio dinamico, in perpetua trasformazione, al quale la smartness permetterebbe di aderire in modo resiliente e continuo[28]. Dietro questa suadente rappresentazione neoliberale, però, la città smart è pensata prima di tutto come un meccanismo estrattivo dotato di infrastrutture fisiche e digitali (come le piattaforme) che «accelerano la produzione di valore»[29]. Nella sua dimensione sociale, cioè, la città digitalizzata e «piattaformizzata» pensa ogni interazione come qualcosa che deve diventare produttivo e ogni soggetto – anche il più precario dei lavoratori (ad esempio il rider) – come un individuo-impresa i cui sforzi devono concentrarsi sull’incremento di un capitale umano da investire sul terreno della concorrenza, in una «società della prestazione»[30].

È chiaro ormai che, dentro le città, le piattaforme stanno guadagnando progressivamente «una posizione centrale nelle nostre vite, grazie alla loro capacità di influenzare anche la componente esperienziale»[31]. Si pensi al modo in cui piattaforme comunicative come Zoom, Meet o Teams hanno trasformato il nostro modo di comunicare, apprendere, insegnare e perfino di costruire collettivamente sapere critico. Questa capacità di agire sulla vita è poi emersa chiaramente durante la pandemia, quando il processo di piattaformizzazione della città ha toccato il suo apice e le piattaforme si sono presentate come una risposta efficace alla grande crisi di mobilità che ha sconvolto «la norma  delle nostre esistenze»[32]. «Modellando e razionalizzando queste stesse esistenze», le piattaforme hanno esteso la loro presa sulle relazioni sociali – lavorative, professionali, culturali, di svago e consumo – e hanno svolto un’intensiva «attività governamentale»[33]. Hanno cioè saputo mettere in forma comportamenti individuali e collettivi, strutturando «il campo di azione possibile» degli individui: hanno saputo condurre le loro condotte, per dirla con Michel Foucault[34].

In sintesi, le città sono i luoghi in cui «i processi innescati dal capitalismo di piattaforma toccano terra»: dove la Cloud metropolis tocca terra, trasformando lo spazio e la vita urbana[35]. Del resto, adottando un’ottica di lunga durata, «l’avanzata delle piattaforme nei contesti urbani» può essere interpretata come il risultato di processi di lunga durata, radicati nel tempo e nello spazio, e di una razionalità logistica che da molto tempo punta «a fare della città il terreno privilegiato dei processi di accumulazione del capitale»[36]. Dalla metropoli ottocentesca – la Parigi di Hausmann (con i suoi «grand boulevards pensati per la circolazione di merci, eserciti, mezzi e persone senza nessun intoppo») o la Barcellona del Piano Cerdà («che organizza la struttura urbana a partire dalla logica della circolazione, con la possibilità di una espansione indefinita») -, attraverso la città fabbrica fordista del ‘900  (dove lo spazio urbano è riprogettato e ristrutturato intorno alla fabbrica), fino alla «città globale» studiata da Saskia Sassen («trama interconnessa di centri finanziari e di servizi a scala planetaria» in cui poderosi processi di terziarizzazione, privatizzazione, finanziarizzazione e gentrificazione asservono lo spazio urbano al mercato)[37]: la città è sempre stata l’infrastruttura fondamentale attraverso cui scorrevano «i flussi economici globali»[38].

La città delle piattaforme – la città «amazonica» – non fa eccezione, rilanciando il tentativo di plasmare uno spazio urbano in cui i flussi globali di denaro, merci, capitali, turisti possano scorrere liberamente e senza intralci. In questo senso, pur evidenziando le novità prodotte dal salto tecnologico digital-algoritmico – come ha osservato Niccolò Cuppini -, il tentativo di produrre la smart city come un dispositivo urbano in cui il territorio sia funzionalizzato senza più attriti all’accumulazione del capitale deve essere tenuto in linea di continuità con il modo in cui Hausmann ha distrutto la vecchia Parigi popolare per edificare la nuova metropoli o con il modo in cui la città-fabbrica ha scardinato e rimodellato il precedente impianto urbano[39]. In altri termini, quando Amazon pensa la città come piega incarnata della Cloud metropolis e come mega-magazzino urbano in cui stoccare le merci per spostarle e venderle nella maniera più comoda e veloce, in fin dei conti non fa che rilanciare su un piano digitalmente e logisticamente aggiornato il grande sogno dell’urbanistica moderna vincente: il sogno capitalistico di realizzare una città in cui – come ha sottolineato Enzo Scandurra – lo spazio (lo spazio liscio del mercato) divora i luoghi della civitas (i luoghi della cittadinanza politica, della partecipazione, delle relazioni) e li sussume compiutamente alla valorizzazione del capitale, tendendo simultaneamente  a riconfigurare il cittadino come mera forza-lavoro e capacità di consumo[40].

Il punto di svolta decisivo per l’affermazione delle piattaforme, e dunque della piattaformizzazione della città, è stata «la crisi finanziaria del 2007-2008, quando il contesto generale di bassi tassi promosso dalle banche centrali ha creato le condizioni per massicci investimenti finanziari in asset ad alto rischio come le piattaforme digitali»[41]. Le piattaforme sono state cioè uno dei modi con cui il capitalismo ha risposto alla crisi mostrandosi capace «di rinnovarsi profondamente e allargando i margini di valorizzazione»[42]. Attraverso quella che prima si è definita la messa a terra del Cloud, ossia attraverso il ripiegamento della Cloud metropolis nella città fisica, nel varco aperto dalla crisi le piattaforme si sono diffuse con grande rapidità su scala globale e hanno digitalizzato la città mettendo «a valore la dimensione extra lavorativa»[43]. Le piattaforme, cioè, generano valore non solo vendendo prodotti o offrendo servizi ma organizzando, trasformando, influenzando e manipolando lo spazio urbano e le sue forme di vita. In questo senso, il divenire smart delle città, la digitalizzazione dello spazio e delle infrastrutture urbane non sono processi politicamente e tecnologicamente neutrali. Piuttosto sono fenomeni segnati dalla logica del capitale che condizionano sempre di più la vita economica e sociale della città, sussumendo alla valorizzazione «porzioni sempre più significative di spazio urbano»[44].

 

  1. Lavoro digitale

Contrariamente alla sua autorappresentazione, il capitalismo delle piattaforme non è quindi l’esito felice della rivoluzione tecnologico-algoritmica. Come ha ben mostrato Christian Fuchs, del resto, dietro il «feticismo tecnologico» dell’ideologia californiana c’è una nuova divisione internazionale del lavoro digitale che tiene insieme «una vasta e complessa rete di processi globali di sfruttamento interconnessi» in cui convivono  «lavoro salariato, lavoro schiavistico, lavoro non pagato, lavoro precario, lavoro freelance»[45]. Quando il Cloud tocca terra nei laboratori segreti della produzione, il capitalismo digitale mostra il suo lato osceno. Il lavoro digitale è infatti composto da figure molto diverse e lontane tra loro: «si va dai minatori congolesi in stato di schiavitù che estraggono i minerali per i componenti TIC, ai salariati ultra-sfruttati delle fabbriche Foxconn, dagli ingegneri del software sottopagati in India, sino agli strapagati, ultra-stressati ingegneri del software di Google e di altre grandi società occidentali» (i programmatori della Silicon Valley, vera e propria «aristocrazia operaia» del capitalismo digitale), «dai freelance digitali precari che creano e disseminano cultura, ai lavoratori addetti ai rifiuti che disassemblano componenti TIC, esponendosi a materiali tossici»[46]. Ci sono poi gli «schiavi del clic» e i microlavoratori di piattaforme di crowdworking come Amazon Mechanical Turch, che senza tutele e per due soldi (talvolta gratuitamente nel caso degli utenti) ai quattro angoli del mondo leggono e filtrano commenti, classificano informazioni, video, fotografie[47]. Compiono cioè micro-operazioni che permettono di addestrare gli algoritmi e l’intelligenza artificiale. Senza tutto questo lavoro non esisterebbero né la Cloud metropolis né le «città delle piattaforme» e la rete Internet non potrebbe nemmeno essere connessa[48].

Fin dai loro esordi, le piattaforme si sono però presentate come l’effetto ipermoderno di una rivoluzione tecnologica che avrebbe consentito a chiunque di scegliere in autonomia «le modalità e i tempi con cui poter lavorare»[49]. Anche dietro questa retorica smart e auto-imprenditoriale – che correda la smagliante narrazione con cui le piattaforme promettono ai loro utenti l’accesso a spazi digitali aperti e democratici, ricchi di contenuti, idee, emozioni[50] – ci sono una concezione «usa e getta» o just in time del lavoro e una realtà fatta di lavoro alla spina che tende a spremere i lavoratori con ritmi e carichi intensivi, moltiplicando le assunzioni a tempo determinato di breve e brevissimo periodo[51]. Per instaurare questo «laboratorio» in cui si innovano «le logiche del governo capitalista del lavoro», le piattaforme hanno del resto trovato terreno fertile[52]. Sorte come risposta capitalistica alla crisi del 2008 – lo si è detto –, nel secondo decennio del nuovo secolo esse si sono aggrappate a una «morfologia sociale» lavorata ai fianchi prima da decenni di neoliberalismo e poi dalle politiche di austerità. Quelli che recentemente Jacques Rancière ha chiamato i «Trenta ingloriosi» hanno infatti normalizzato una crescente disponibilità individuale «ad accettare prestazioni lavorative occasionali prive di tutela» che nel ciclo precedente erano parse eccezionali[53]. Ha così preso forma un’ampia «sovrappopolazione relativa» composta non da soli disoccupati ma – per dirla con il Marx del primo libro del Capitale – anche da lavoratori «con un’occupazione assolutamente irregolare» le cui «caratteristiche sono: massimo di tempo di lavoro e minimo di salario» e le cui «condizioni di vita scendono al di sotto del livello medio normale della classe dei lavoratori»[54].

Nei decenni neoliberali, cioè, si sono avuti processi di precarizzazione, individualizzazione e frantumazione del rapporto di lavoro che hanno creato l’habitat in cui le piattaforme hanno potuto fruire di un ampio bacino di precari e woorking poor disponibili a farsi assumere come collaboratori pseudo-autonomi[55]. E di quei processi, le piattaforme hanno successivamente amplificato la portata, espandendoli «in contesti nei quali erano assenti»[56]. In questo modo il capitalismo delle piattaforme – che si è trovato a «beneficiare degli effetti della progressiva precarizzazione del mercato del lavoro»  e ne ha amplificato la portata – sembra prendere definitivo congedo da quello che nella «società salariale» era considerato il rapporto di lavoro standard: a tempo indeterminato, tutelato da un contratto collettivo nazionale e finanziatore dei diritti/servizi dello Stato sociale[57]. Secondo Alain Supiot quel rapporto di lavoro rappresentava un «compromesso» in cui la «sottomissione» al comando d’impresa era scambiata con «una certa sicurezza fisica e economica»[58]. Le politiche neoliberali hanno poi superato quel compromesso, richiedendo «l’obbedienza senza dare in cambio la sicurezza»[59]. E le piattaforme hanno ulteriormente accelerato questo processo di abbandono del vecchio compromesso, incarnando un tipo di impresa che non vede più nel lavoro una «matrice del legame sociale» degna di «riconoscimento»[60].

Del resto le piattaforme devono rispondere agli interessi degli azionisti che, come si è accennato, le hanno finanziate fin dall’inizio della loro ascesa. Per poter continuare ad attrarre investimenti da grandi gruppi finanziari come J.P. Morgan, Deutsche Bank, Intesa San Paolo, etc. – che dopo la crisi del 2008 hanno puntato forte sul settore – le piattaforme adottano «modelli organizzativi basati sull’impiego di una forza lavoro sempre più precarizzata», con costi del lavoro iper-compressi e nuovi picchi autoritari nelle relazioni industriali[61]. Le piattaforme stringono cioè il nesso tra finanziarizzazione e precarizzazione del lavoro, testando le nuove frontiere di quello che Luciano Gallino chiamava «finanzcapitalismo»[62]. Non stupisce quindi che, coronando il sogno inconfessabile di ogni datore di lavoro, nella città digitalmente aumentata le piattaforme del Food Delivery puntino ad esempio a riconoscere come lavoro da pagare solo «la mansione di svolgere consegne, senza tenere in considerazione il tempo messo a disposizione per aspettare gli ordini (spesso in giro per strada)»[63]. E infatti il sistema di ranking reputazionale a cui i rider sono quotidianamente sottoposti, attraverso un occhiuto e pressante controllo algoritmico, misura i loro punteggi in base al numero di consegne svolte, ossia all’intensificazione della loro prestazione. I rider vedono così migliorare la loro classifica e la loro forza reputazionale in base alla «velocità dei tempi di consegna», a quella che su queste basi viene considerata la loro «affidabilità», ma anche alla «disponibilità a lavorare nel week end» quando le piattaforme «spinano» più lavoro per «soddisfare l’insieme degli ordini»[64].

Così il sistema degli incentivi a consegna sdogana il cottimo e l’ideologia delle piattaforme genera la finzione di un sistema virtuoso in cui i più meritevoli – ossia i più disponibili a competere – possono guadagnare sempre più denaro, cercando di portare i rider a interiorizzare la spinta «verso l’intensificazione costante della prestazione lavorativa»[65]. È, questa, una meritocrazia del cottimo che sembra ispirarsi al giudizio di Marx sul cottimo stesso inteso come «la forma di salario maggiormente consona al sistema capitalistico»[66]. In altri termini, quello che prende forma nel capitalismo di piattaforma è un regime di governo del lavoro che utilizzando una retorica del «lavoro autonomo» – dietro cui si mal cela una nuova forma di «sudditanza nell’indipendenza»[67] – tende a destrutturare sempre di più il rapporto salariale individualizzando ad oltranza il comando e mobilitando freneticamente l’immaginario dell’imprenditore di se stesso. L’obiettivo è quello di far sì che ogni lavoratore si auto-disciplini «come capitale umano da (auto)-valorizzare» e consideri lo sviluppo di una sempre maggiore capacità prestazionale e competitiva come l’unica strada per il benessere[68]. Il lavoro vivo viene così spinto a sostituire il contratto di lavoro – nel quale era almeno implicito il conflitto di interesse tra capitale e lavoro – con un «contratto interiore» stabilito con se stessi, dentro (e non più contro) le «dinamiche di valorizzazione»[69].

Proprio a partire dall’esempio del lavoro dei driver e dei rider al servizio delle piattaforme digitali, Sandro Mezzadra ha messo in luce con acume uno degli aspetti più interessanti del lavoro di piattaforma. Se osserviamo l’immagine di un rider che percorre la città «concentrato sullo svolgimento della sua mansione, solo sulla sua bicicletta e di fronte allo schermo dello smartphone» da cui viene governato algoritmicamente – scrive Mezzadra -, quel rider ci appare come un lavoratore completamente individuale e individualizzato[70]. Ed empiricamente senz’altro lo è. Tuttavia, a ben vedere, egli è «completamente immerso all’interno di una cooperazione […] i cui principi e le cui forme di organizzazione (e comando) [gli] sfuggono completamente»[71]. Portatore di una nuova forma di alienazione, questo lavoratore non ha infatti alcuna conoscenza del ciclo produttivo e delle complesse reti di cooperazione in cui il suo lavoro è stato inserito dall’algoritmo che lo guida nello spazio urbano. E che, grazie alla sua potenza di calcolo e a una formidabile capacità di gestire imponenti flussi di dati, produce, organizza e sfrutta la «dimensione cooperativa del lavoro»: produce, organizza e sfrutta, cioè, quello che Marx chiamava il «lavoratore complessivo» (Gesamtarbeiter)[72].

In altri termini, il comando algoritmico non agisce semplicemente sul singolo rider – il cui lavoro vivo individualmente considerato per la piattaforma non produce alcun valore –, ma sulla cooperazione lavorativa delle centinaia di rider che lavorano simultaneamente per la stessa piattaforma e delle migliaia di «rider potenziali» su cui la piattaforma progetta le sue future operazioni di valorizzazione e «fonda il network effect»[73]. In forme nuove, così, il governo algoritmico del lavoro distende al di fuori degli stabilimenti produttivi quel comando capitalistico sulla cooperazione lavorativa che Marx aveva visto all’opera dentro le mura della fabbrica dei suoi tempi: un comando che puntava a far emergere una forza collettiva del lavoro superiore alla somma delle forze produttive dei singoli operai. Allo stesso modo oggi – applicando «la scienza […] al processo di produzione immediato»[74] – il governo algoritmico del lavoro  continua a porsi lo stesso obiettivo: «costituire una forza produttiva il cui effetto deve essere superiore alla somma delle forze elementari che la compongono»[75]. In una parola, il valore di cui le piattaforme si appropriano proviene ancora dallo sfruttamento della cooperazione lavorativa astratta.

 

  1. Estrazione/astrazione

La cooperazione lavorativa di cui si sta parlando è l’effetto dei processi di astrazione algoritmica. Da una parte quella cooperazione è infatti letteralmente prodotta dal modo in cui le operazioni degli algoritmi astraggono «mansioni e attività specifiche dall’esperienza incarnata di un singolo lavoratore inserendolo in un flusso di lavoro» ben più complesso a lui oscuro; dall’altra parte il controllo algoritmico della performance dei lavoratori – controllo che calcola ad esempio la media ottimale dei tempi in cui il rider accetta gli ordini, si sposta verso il ristorante e raggiunge il cliente – riproduce «la misura del lavoro astratto come griglia normativa per la valutazione e la remunerazione dell’attività umana»[76]. Questa «doppia astrazione del lavoro» rappresenta certamente una prova della persistenza e dell’espansione del marxiano lavoro astratto al tempo del capitalismo di piattaforma[77].

La cooperazione produttiva però non è la sola fonte del valore nel capitalismo di piattaforma. Parlando di una «doppia fonte del valore», ancora Mezzadra ha ricordato il fatto ben noto che la valorizzazione del capitale investito nelle piattaforme – in tutte le piattaforme (e in maniera paradigmatica in quelle social come Facebook o Instagram) – passa principalmente dall’estrazione e dall’espropriazione dei dati. I dati sono cioè la nuova materia prima che si cava dall’interiorità umana: una materia prima «la cui estrazione e manipolazione costituisce la base delle operazioni di piattaforma»[78]. E la cui fonte – come ha sostenuto Nick Srnicek – è rappresentata dalle «attività degli utenti» delle piattaforme[79]. Come si sa, infatti, in cambio dell’accesso gratuito ai servizi queste attività, basate sulla mera capacità vitale di «incontrarsi, comunicare, mostrarsi, generare senso», vengono cedute dagli utenti ai signori della rete[80]. La capacità comunicativo-relazionale della vita e la cooperazione sociale di rete sono la base stessa su cui opera il data mining: l’insieme delle procedure in grado di estrarre i dati, ossia la materia prima che andrà poi profilata (data profiling)  e infine venduta come merce[81]. Passata al vaglio dell’astrazione algoritmica, cioè, la cooperazione di milioni di donne e uomini diventa «serbatoio di bio-diversità» che alimenta la valorizzazione[82].

Nick Couldry e Ulises A. Mejias hanno parlato a questo proposito di un «data colonialism» da intendersi, non metaforicamente, come l’ultima tappa – questa volta coestensiva al mondo orientale e a quello occidente – di una storia che lega intimamente colonialismo e capitalismo.

Se il colonialismo storico si è annesso i territori, le loro risorse e i corpi che ci lavoravano – scrivono i due autori -, la presa di potere del data colonialism è contemporaneamente più semplice e più profonda: riguarda la cattura e il controllo della stessa vita umana attraverso l’appropriazione dei dati che da essa  possono essere estratti a fini di profitto[83].

Con il data colonialism saremmo insomma di fronte all’«estensione di un processo globale di estrazione iniziato sotto il colonialismo, continuato attraverso il capitalismo industriale» e culminante nel capitalismo delle piattaforme[84]. Questo capitalismo non si appropria più soltanto delle risorse naturali e del lavoro, delle labour relations, ma mira ad appropriarsi della «vita umana attraverso la sua conversione in dati»[85]. E per farlo esercita la sua presa sulle «data relations», le quali – per Couldry e Mejias – non sono relazioni tra i dati, ma «modi di interazione tra individui e con il mondo» enormemente «facilitati dagli strumenti digitali»[86]: sono appunto cooperazione sociale, «aree della vita umana che in precedenza non erano considerate input diretti alla produzione» e non erano sottoposte al rapporto di capitale[87]. E che ora invece generano dati da cui sgorga il valore. Nel suo biofagico annettere sempre nuovi aspetti della vita umana direttamente al processo produttivo, il data colonialism conferma così l’intuizione marxiana secondo cui «il capitalismo ha sempre cercato di gestire la vita umana per la massimizzazione del profitto»[88]. Come ora fa estraendo valore dalle data relations passate al vaglio dall’astrazione algoritmica, che «rende i dati una merce potenziale»[89].

Poiché il processo è dominato da una nuova aristocrazia della rete, Cedric Durand ha parlato di un «tecno-feudalesimo» nel quale le grandi corporations si disputano il cyber-spazio per controllare le fonti dei dati, mentre i nuovi sudditi sono imbrigliati alla gleba digitale[90]. Ma questo tecno-feudalesimo – ha aggiunto Maxime Ouellet – è incastrato nell’iper-modernità del capitalismo delle piattaforme, che estrae continuamente rendita dagli «scambi simbolici degli utenti» e in ultima analisi dalla «prassi costitutiva dell’essenza simbolica dell’essere umano»[91]. In questo modo i processi capitalistici di astrazione e di quantificazione del sé prendono ad oggetto la comunicazione e il linguaggio. Con la digitalizzazione algoritmica, infatti, la lingua cessa di essere «l’espressione di una cultura particolare» e diventa «una lingua universale astratta, un codice composto da dati numerici» che una volta estratti e trattati diventano merce e valore di scambio[92]. Come sempre, nel capitalismo la qualità diventa quantità. Così parafrasando Adorno, in questa sorta di «mondo digitalmente amministrato» sotto la regia degli algoritmi, le piattaforme estendono i processi di astrazione da sempre attivi nel capitalismo con l’obiettivo di rendere più pervasivi i processi di estrazione del valore dalle relazioni umane (riconfigurate come data relations)[93]. Estrazione ed astrazione marciano quindi insieme, estendendo la presa coloniale del capitale sulla vita secondo un’inedita modalità iper-moderna e non repressiva di spossessamento della vita stessa. In questo grande processo di estrazione, che «permette al capitalismo di passare a una scala e a un’integrazione operativa ancora più ampie», vengono così innovati ed estesi anche i processi di astrazione, che da sempre accompagnano come un basso continuo la vicenda storica del capitale.[94].

In conclusione, il capitalismo digitale rilancia il potere costitutivo dell’astrazione capitalistica distendendo il «potere astratto delle operazioni algoritmiche» sulla cooperazione sociale e su quote di vita mentale, comunicativa, linguistica, relazionale che ancora gli sfuggivano[95]. Con la presa sulle data relations, cioè, le piattaforme innovano ed amplificano la vocazione con cui il capitale – per dirla con Roberto Finelli – tende a «plasmare della sua logica monetario-accumulativa tutti i luoghi essenziali della produzione e della riproduzione sociale»[96]. Il capitalismo digitale riesce così a esprimere in forme nuove la pulsione del capitale «a realizzarsi, attraverso il superamento dei limiti che incontra, e [attraverso] lo svuotamento/colonizzazione del mondo concreto»[97]: colonizzazione che mira ad imporsi alla cooperazione sociale che alimenta  la vita di rete; la manipola algoritmicamente e la riduce «a misura quantitativa, a criteri di commercializzazione e scambiabilità»[98].

Sotto il capitalismo digitale, ai tempi della Cloud metropolis e della città delle piattaforme – mentre si consolida quella che è stata definita una «sussunzione vitale», – è proprio con questa estensione del dominio dell’astrazione (l’«astrazione reale» di cui parlava Alfred Sohn Rethel) che ci troviamo  ad avere a che fare[99]. Torna quindi l’inaggirabile problema del «che fare», ossia quello di pensare i processi di soggettivazione capaci di sottrarre la cooperazione lavorativa e la cooperazione sociale alla pulsione totalizzante del capitale.

 

Note:

[1] I. Wallerstein, Capitalismo storico e Civiltà capitalistica, Trieste, Asterios, 2020.

[2] Into the black box, Cloud Metropolis, in «www.intotheblackbox», 31 gennaio 2022.

[3] Ibidem.

[4] Ibidem.

[5] Synergy Research Group, As Quarterly Cloud Spending Jumps to Over $50B, Microsoft Looms Larger in Amazon’s Rear Mirror, in «sgresearch.com», 3 Febbraio, 2022, on line.

[6] Tung-Hui Hu, A Prehistory of the Cloud, MIT Press, Boston, 2015, p. 146. Sul punto cfr. anche T. Bonini, IA: né intelligente, né artificiale, in «Doppiozero», 15 gennaio 20202, on line.

[7] L. Belkhir, A. Elmeligi, Assessing Ict global emissions footprint: Trends to 2040 & recommendations, in «Journal of Cleaner Production», 177, 2018, pp. 448-463. Sul punto cfr. anche A, Carruth, The Digital Cloud and the Micropolitics of Energy, in  «Public Culture», 2, 2014, pp. 339–364 e Tung-Hui Hu, A Prehistory of the Cloud,  cit., pp. 79 e ss.

[8] Ibidem.

[9] D. Passeri, Internet divora troppa energia e scalda la Terra, in «Il manifesto», 17 giugno 2021.

[10] G. Pirina, Capitalismo delle piattaforme e materialità sociale. Degradazione del lavoro e della natura lungo la filiera del coltan, in «Culture della Sostenibilità», 25, 2020, on line.

[11] L’urbanizzazione planetaria è tenuta in forma da «un’immensa trama logistica, che interconnette l’umanità e i territori grazie a nuove e vecchie tecnologie (dai cavi per internet sui fondali degli oceani alle ferrovie) e ai sempre più rapidi e ampi spostamenti di donne e uomini, merci e capitali». N. Cuppini, Le città come sistemi logistici, in «Intotheblackbox.com», 6 marzo 2019, on line.

[12] Id., On platforming. Notes for navigating contemporary hyper-urbanscapes, in «Into the black box», on line, 9 giugno 2021.

[13] Cfr. S. Gainsforth, Airbnb città merce. Storie di resistenza alla gentrificazione digitale, Roma, DeriveApprodi, 2019.

[14] Ibid., p. 19. Sul turismo come industria urbanicida altamente inquinante, cfr. Id., Oltre il turismo, Esiste un turismo sostenibile?, Torino, Eris, 2020; M. d’Eramo, Il selfie del mondo, Roma, Feltrinelli, 2017; G. Attili, Le macerie dell’ipersfruttamento turistico, in E. Scandurra, I. Agostini, G. Attili, Biosfera, l’ambiente che abitiamo Crisi climatica e neoliberismo, Roma DeriveApprodi, 2020, pp. 167-189.

[15] R. Ciccarelli, Airbnb: il lato oscuro del micro-affitto digitale, in «Il manifesto», 1 ottobre 2019.

[16] Ibidem.

[17] Ibidem.

[18] M. Marrone, Rights against the machines. Il lavoro digitale e le lotte dei rider, Milano, Mimesis, 2021, p. 100.

[19] Ibid., pp. 131-136. Sui processi di Food-gentrification, cfr. M. Perucca, P. Tex, Foodification. Come il cibo si è mangiato le città, Torino, Eris Edizioni, 2022 e N. Cohen, Feeding or Starving Gentrification: the Roole of Food Policy, 27 marzo 2018, on line.

[20] Into the black box, Cloud Metropolis, cit.

[21] Periferie in cui, come ha sottolineato Agostino Petrillo, proliferano «territori orfani» che si riconfigurano progressivamente come contenitori di ipermercati, magazzini, siti della logistica. A. Petrillo, Diseguaglianze e coronavirus: una città in frammenti, in «genovacheosa.org», 13 aprile 2022, on line.

[22] N. Cuppini, Intervento al seminario Alle frontiere dell’Amazon-capitalism. Cloud Metropolis, Università di Bologna, 15 febbraio 2022.

[23] Per Kim Moody i cluster logistici da cui dipendono le supply chain rappresentano un nuovo, potenziale «terreno della lotta di classe». K. Moody, On New Terrain. How Capital is Reshaping the Battleground of Class War, Chicago, Haymarket Books, 2017 e Id., The Supply Chain Disruption Arrives ‘Just in Time’, in «Labornotes», 6 Dicembre 2021, on line. Cfr. anche Infoaut, Il nuovo terreno della lotta di classe, in «Infoaut», 23 maggio 2018, on line.

[24] Into the black box, Cloud Metropolis, cit.

[25] Ibidem.

[26] Ibidem.

[27] A. Valz Gris, Appunti su città e piattaforma. Dentro e oltre la metafora, in Laboratorio Crash (a cura di), Il campo di battaglia urbano. Trasformazioni e conflitti dentro, contro e oltre la metropoli, Roma, Redstar, 2019, p. 99.

[28] Ibidem.

[29] Ibid., p. 100.

[30] Sul punto, cfr. F. Chicchi, A. Simone, La società della prestazione, Roma, Ediesse, 2017. Sulla soggettivazione neoliberale, cfr. almeno i classici M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), Milano, Feltrinelli, 2013 e P. Dardot, C. Laval, La nuova ragione del mondo, Critica della razionalità neoliberista, Roma, DeriveApprodi, 2009.

[31] M. Marrone, Rights against the machines, cit., p. 116.

[32] N. Cuppini, On platforming, cit.

[33] S. Mezzadra, Per la critica delle operazioni estrattive del capitale. Piattaforme digitali e cooperazione sociale, in AA.VV., L’enigma del valore. Il digital labour e la nuova rivoluzione tecnologica, Milano, Effimera, 2020, p. 101.

[34] M. Foucault, Il soggetto e il potere. Come si esercita il potere?, in H.L. Dreyfus, P. Rabinow, La ricerca di Michel Foucault, Firenze, Ponte alle Grazie, 1989, p. 249.

[35] M. Marrone, Rights against the machines, cit., 109.

[36] Ibid., p. 116.

[37] N. Cuppini, Le città come sistemi logistici, in «Intotheblackbox.com»,  6 marzo 2019, on line. Cfr. S. Sassen, The Global City: New York, London, Tokyo, Princeton University Press, 1991 e Id., Le città nell’economia globale, Bologna, Il Mulino, 1997, pp. 153-160.

[38] M. Marrone, Rights against the machines, cit., p. 120.

[39] N. Cuppini, intervento al seminario Cloud Metropolis, cit.

[40] E. Scandurra, Architettura tra bellezza e funzionalità. La costruzione dei luoghi e le relazioni intersoggettive, relazione al seminario Le forme della città, in «centroriformastato,it», 29 aprile 2022, on line.

[41] N. Cuppini, On platforming, cit. Adattando liberamente una nota tesi di David Harvey sulla città, si potrebbe dire che le piattaforme sono state anche «nuovi campi di investimento in grado di garantire […] l’assorbimento dell’eccedenza di capitale». D. Harvey, The right to the city, in «New Left Review», 53, 2008, on line.

[42] M. Marrone, Rights against the machines, cit. p. 175.

[43] Ibid., p. 109.

[44] Ibid., p. 137.

[45] C. Fuchs, Digital Labor and Imperialism, in «Monthly Review», 1 gennaio 2016, on line. Sull’ideologia californiana come «mix di libero spirito hippie e zelo imprenditoriale yuppie», cfr. R. Ciccarelli, Dalla critica all’ideologia tedesca alla critica dell’ideologia californiana: la liberazione nella filosofia della forza lavoro, in AA. VV., L’enigma del valore, cit., pp. 71-97 e Id. Forza lavoro. Il lato oscuro della rivoluzione digitale, Roma, DeriveApprodi, 2018, pp. 26-30. Per la prima formulazione del concetto, cfr. R. Barbrook, A. Cameron, The Californian Ideology. A critique of West Coast cyber-libertarianism, Amsterdam, Notebook, 1995.

[46] C. Fuchs, Digital Labor and Imperialism, cit. Cfr. anche Id., Digital labour and Karl Marx, London, Routledge, 2014. Sul tema torna S. Mezzadra, Oltre il riconoscimento. Piattaforme digitali e metamorfosi del lavoro, in «Filosofia politica», 3, 2021, pp. 496-498. Cfr. anche G. Pirina, Degradacão do trabalho no capitalismo de plataformas. O caso do coltan, in C. H. B. Haddad et alii (a cura di), Discussões interdisciplinares sobre a escravidão contemporânea, Belo Horizonte, MG, 2021; Id., Il costo ecologico dell’economia di piattaforma. Ovvero, l’inquinamento connesso alle nuove tecnologie, in «Effimera», 28 dicembre 2019, on line; P. Ngai, J. Chan, M. Selden, Morire per un iPhone, Milano, Jaca Book, 2015; R. Ciccarelli, Lavoro digitale, in Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Annali, Milano, Feltrinelli, 2020, pp. 259-283; R. Antunes, P. Basso, F. Perocco (a cura di), Il lavoro digitale. Maggiore autonomia o nuovo asservimento del lavoro?, in «Socioscapes», 2, 2021.

[47] Cfr. A. Casilli, Schiavi del clic. Perché lavoriamo tutti per il nuovo capitalismo?, Milano, Feltrinelli, 2020.

[48] Sul punto cfr. R. Antunes, Il privilegio della servitù. Il nuovo proletariato dei servizi nell’era digitale, Milano, Punto Rosso, 2020, p. 45 e H. Huws, Labour in the global digital economy. The Cybertariat Comes of Age, Monthly Review Press, New York, 2014, pp. 157-158.

[49] M. Marrone, Rights against the machines, cit., p. 175.

[50] M. Pirone, Scatole nere e tempeste. Passato e presente del capitalismo digitale, in «Zapruder», 46, 2018, p. 50.

[51] Into the black box, Working-Class Cyborg, in «Intotheblackbox.com», 15 dicembre 2021. Sul tema, con un’ottica differente, cfr. anche A. Somma, Lavoro alla spina, welfare à la Carte. Lavoro e Stato sociale ai tempi della gig economy, Milano, Meltemi, 2019.

[52] M. Marrone, Rights against the machines, cit., p. 176.

[53] Ibid., p, 176. J. Rancière, Les Trentes ingloriouses, Paris, La Découverte, 2022.

[54] K. Marx, Il capitale, libro primo (3), cit., p. 94. Cfr. R. Antunes, Prefazione, in H. Huws, Il lavoro nell’economia digitale, cit., p. 9.

[55] Cfr. F. Chicchi, E. Leonardi, S. Lucarelli, Logiche dello sfruttamento. Oltre la dissoluzione del rapporto salariale, Verona, Ombre Corte, 2016.

[56] M. Marrone, Rights against the machines, cit., p. 83.

[57] Ibidem. Sulla società salariale e il suo sgretolamento cfr. l’ormai classico R. Castel, Le metamorfosi della questione sociale. Una cronaca del salariato, Avellino, Elio Sellino, 2007, pp. 381-554 e Id., L’insicurezza sociale. Che significa essere protetti, Torino, Einaudi, 2004.

[58] R. Ciccarelli, Alain Supiot, il lavoro mutante intrecciato alla vita, in «Il manifesto», 1 dicembre 2021. Per Supiot la formula riassuntiva di questo compromesso è: «tu ti assoggetti e io ti prometto che domani avrai un lavoro e una casa». Cfr. anche A. Supiot, Homo faber: continuità e rotture, in Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Annali, cit., pp. 14-15.

[59] E «degradando il lavoro affinché tutti possano averne uno pessimo», aggiunge Supiot. R. Ciccarelli, Alain Supiot, cit.

[60] S. Mezzadra, Oltre il riconoscimento. Piattaforme digitali e metamorfosi del lavoro, in «Filosofia politica», 3, 2021, p. 488.

[61] M. Marrone, Rights against the machines, cit., p. 73.

[62] L. Gallino, Finanzcapitalismo, Torino, Einaudi, 2011.

[63] M. Marrone, Rights against the machines, cit., p. 88.

[64] Ibidem.

[65] Ibid., p. 91.

[66] K. Marx, Il capitale, libro primo (2), cit., p.  275, cit. in Ibid., p. 90, dove la funzione del cottimo e quella del controllo algoritmico nel capitalismo di piattaforma vengono indagate in maniera esaustiva.

[67] Cfr. A. Supiot, I nuovi volti della subordinazione, in Id., La sovranità del limite. Giustizia, lavoro e ambiente nell’orizzonte della mondializzazione, Milano, Mimesis, 2020, pp. 84 e ss.

[68] M. Pirone, I «nuovi poveri». Piattaforme digitali, economie formali e woorking poor, in L. Coccoli (a cura di), I poveri possono parlare? Soggetti, problemi, alleanze, Roma, Ediesse, 2021, p. 154.

[69] Ibidem.

[70] S. Mezzadra, Oltre il riconoscimento, cit., p. 501.

[71] Ibidem.

[72] M. Pirone, I «nuovi poveri», cit., p. 151; K. Marx, Il Capitale. Libro primo (2), cit., p. 222.

[73] S. Mezzadra, Intervento al seminario Il lavoro tra rivoluzione digitale e riduzione di orario, «La Lezione del 2020», 10 aprile 2022, You tube, on line.

[74] K. Marx, Il Capitale. Capitolo VI inedito. Risultati del processo di produzione immediato, Milano, Etas, 2002, p. 47.

[75] M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino, Einaudi, 1976, p. 179.

[76] S. Mezzadra, B. Neilson, Operazioni del capitale. Capitalismo contemporaneo tra sfruttamento e estrazione, Roma, Manifestolibri, 2020, p. 118.

[77] Ibidem.

[78] S. Mezzadra, Oltre il riconoscimento, cit., p. 502. Cfr. anche Id., Un mondo da guadagnare. Per una teoria politica del presente, Milano, Meltemi, 2020, p. 271 e ss.

[79] N. Srnicek, Capitalismo digitale. Google, Facebook, Amazon e la nuova economia del web, Roma, Luiss University Press, p. 40.

[80] Ippolita, Anime elettriche, Milano, Jaca Book, 2016, p. 31.

[81] Ibid., pp. 31-32.

[82] Ibid., p. 95.

[83] N. Couldry, U. A. Mejias, The Costs of Connection. How Data Is Colonizing Human Life and Appropriating It for Capitalism, Stanford, Stanford University Press, 2019, pp. xi e 5.

[84] Ibid., p. XIX.

[85] Ibidem. Sul punto cfr. M. Ricciardi, Relazione al seminario Sull’utilità e il danno dell’algoritmo per la vita, Università di Bologna, Dipartimento di scienze politiche e sociali, 25 marzo 2021, Facebook, on line.

[86] N. Couldry, U. A. Mejias, The Costs of Connection, cit., p. xiii.

[87] Ibid., p. 12.

[88] Ibid., p 5.

[89] Ibid., p. 27.

[90] C. Durand, Techno-feudalism. Critique de l’économie numérique, Paris, La Découverte, 2020, pp. 179-226.

[91] M. Ouellet, Pour une théorie critique de la gouvernance algorithmique et de l’intelligence artificielle, in «Tic&société», 1, 2021, p. 19.

[92] Ibidem. Sul tema cfr. anche E. Sadin, L’humanité augmentée: l’administration numérique, Paris, Éditions L’échappée, 2013.

[93] M. Ouellet, M. Ménard, M. Bonenfant, A. Mondoux, Big Data et quantification de soi: La gouvernementalité algorithmique dans le monde numériquement administré, in «Canadian Journal of Communication», 4, 2015, p. 605.

[94] N. Couldry, U. A. Mejias, The Costs of Connection, p. XVIII.

[95] S. Mezzadra, B. Neilson, Operazioni del capitale, cit., p. 119.

[96] R. Finelli, Critica, capitale e totalità, in «L’ospite ingrato», 20 dicembre 2021, on line.

[97] Ibidem.

[98] Ibidem. Finelli riflette a fondo sull’astrazione come fenomeno originante del capitale in uno dei suoi più importanti libri su Marx: Id., Un parricidio compiuto. Il confronto finale di Marx con Hegel, Milano, Jaca Book, 2014, su cui cfr. M. Pezzella, Socialismo o astrazione? in «Altronovecento», 28, 2016, on line.

[99] A. Fumagalli, The concept of Subsumption of Labour to Capital. Towards the Life Subsumption in Bio-cognitive Capitalism, in E. Fisher, C. Fuchs (eds), Reconsidering Value and Labor in the Digital Age, Palgrave, McMillan, Londra, 2015, pp. 224-245; G. Griziotti, Neurocapitalismo, cit., pp. 173-182.

 

L’immagine è Casa di scale, (1954), di M. C. Escher.