Winfried Georg Sebald: “il crudele baratro del tempo” – di Massimo Cappitti

Winfried Georg Sebald: “il crudele baratro del tempo” – di Massimo Cappitti

13 Giugno 2022 Off di Francesco Biagi

È un’impresa improba individuare le molteplici trame che innervano i romanzi di Sebald. Egli mette in scena le voci plurali che popolano il mondo, depositaria, ciascuna voce, di una verità che la riguarda intimamente, senza, però, piegarla all’urgenza del dire e alla sua impossibilità. Poco importa che si tratti di volti anonimi, vittime delle ingiurie del tempo. Piuttosto di ognuna porta a evidenza la durezza di una vita senza consolazione, nella quale il suicidio rimane l’unica risposta possibile alla sofferenza, vite spezzate segnate dal fallimento individuale e collettivo, sospese tra la ricerca di una via di salvezza e l’impietoso «gettarsi a capofitto nella propria rovina».[1] Nel mondo descritto da Sebald non c’è traccia di una redenzione possibile. Le tensioni redentive, infatti, si scontrano con lo «sfasamento» e lo scompaginamento della realtà, naufragano davanti all’evidenza dolente delle cose, segnate da una precarietà irrimediabile. L’orrore della dissoluzione è presenza costante nella riflessione dell’autore e la rovina viene elevata a categoria universale, capace di conoscere più esaurientemente il presente. A chi chiede a Sebald ragione delle sue scelte letterarie, irriducibili a ogni classificazione, egli risponde che si tratta di «prose letterarie»,[2] un genere di scrittura caratterizzata da confini labili e dal loro irrefrenabile dissolversi. Letteratura e saggistica entrano in reciproca e feconda consonanza mentre le cose si sfaldano e i fondamenti vacillano, esposti alla loro immedicabile vulnerabilità.

Un dolore trattenuto, una dolente malinconia, mitigati appena dallo sguardo pietoso dell’autore, percorrono le pagine dei libri dello scrittore tedesco. È il dolore che accompagna la sofferta consapevolezza dell’irraggiungibilità del senso ultimo delle cose, sempre che questo senso davvero esista. Ribellarsi alla voracità del tempo comporta la speranza che «il tempo non passi, che mai sia passato», che tutto sia come prima e che «nulla di quanto racconta la storia sia vero».[3] Il tempo «si è già interamente esaurito e la nostra vita non è se non il crepuscolare riverbero di un processo irreversibile».[4] Il tempo non si dispone linearmente, «non avanza costantemente ma si muove a spirale, determinata da ristagni e irruzioni, che si ripresenta di continuo in forma mutata e nel suo sviluppo nessuno sa dove si diriga».[5] Si apre così una frattura nel corso delle cose, come se, finalmente, prendesse forma una nuova scansione temporale, dove passato, presente e futuro si intrecciano. Il capitalismo produce macerie ma non quelle che richiedono di essere attraversate felicemente, perché preannunciano il novum di là da venire. In Sebald le rovine rinviano al niente, emblema di una insensatezza e di una sterilità insuperabili. Eppure, talvolta, una figura apparentemente casuale ci apre per un attimo al possibile. Si produce, così, un «varco» e allora «l’incrociarsi dei riflessi luminosi sul soffitto della stanza indica che presto qualcosa si manifesterà».[6] Sebald dà voce a esistenze prossime a spegnersi definitivamente sull’abisso del tempo, che inesorabilmente testimonia la potenza del negativo e insieme la caducità della vita. Caducità che non risparmia uomini e cose, coinvolti da un medesimo destino.[7] Così «nelle cattive condizioni di questi edifici un tempo signorili, nelle grondaie rotte, nei muri anneriti dall’acqua piovana, nell’intonaco scrostato che lascia trasparire il muro grezzo, nelle finestre rese cieche da assi e lamiere»,[8] Austerlitz, il protagonista dell’omonimo romanzo, vi intravede la manifestazione del suo stato d’animo ancor più disperato, poiché l’autore dichiara di non aver mai saputo chi egli fosse, ignorando così la sua storia familiare, di cui a mala pena coglie solo vaghi e pallidi indizi.

Altrettanto fuori dal tempo, come quell’attimo salvifico, sospeso nell’eternità e che continua ad aver luogo qui e ora, erano tutti i ninnoli, gli attrezzi e i souvenir arenatisi nel bazar di Terezìn, i quali, per una serie di coincidenze imperscrutabili, erano sopravvissuti ai loro antichi proprietari e scampati al processo della distruzione, sicché ora in mezzo a essi riuscivo a cogliere indistintamente con fatica la mia ombra.[9]

Lo spaesamento cui è soggetto il protagonista impedisce di riprendere familiarità con il linguaggio e le sue infinite possibilità, ridotte a una «accozzaglia di frasi insulse». L’intera articolazione della lingua, «l’ordine sintattico delle singole parti, la punteggiatura e le congiunzioni, perfino i nomi degli oggetti comuni tutto era avvolto da una nebbia impenetrabile»,[10] in un inconcludente balbettio. Il linguaggio rivela le sue crepe e il suo sfaldarsi, come se tutto precipitasse nel buio irrimediabilmente. Noi studiamo l’ordine delle cose senza venirne a capo, come «luci isolate nell’abisso dell’ignoranza, nell’edificio del mondo investito da fitte ombre».[11] Nello scompaginamento della lingua il protagonista, come lui stesso afferma, non riesce più a cogliere i nessi tra le cose: «le frasi si disgregano in singole parole, le parole in una serie arbitraria di lettere».[12] I racconti del protagonista aprono la catena dei ricordi, del loro affastellarsi e inatteso imporsi. Gli uomini non reggono l’oblio: senza i ricordi e la loro capacità immaginativa pretendono di imbrigliare la vita, condannandola alla ripetizione insensata del medesimo. Non saprebbero, cioè, strutturare le loro esperienze in attesa, proustianamente, che un evento, magari irrilevante, li ridesti, donando loro una nuova possibilità di vita. Continuava Austerlitz dicendo che non siamo in grado di riconoscere «le leggi che regolano il ritorno del passato», benché fosse altrettanto convinto che il tempo non esista. L’oscurità, pertanto, anziché diradarsi, diventa tanto più fitta quanto più le cose ci sfuggono cadendo nell’oblio.

Un bambino, assorto sulla panca di una squallida e desolata sala d’aspetto con un piccolo zaino, genera la persuasione che quel luogo sia la sede di una esperienza epifanica. Da lì anche la consapevolezza che i propri genitori sono stati perseguitati dai nazisti perché ebrei.

Avvertivo in me uno strappo, e vergogna e tormento, o un che di affatto diverso e di cui non si può parlare perché le parole appropriate mancano, così come mi sono mancate le parole allora, quando si avvicinarono a me i due estranei di cui non capivo la lingua. Ricordo soltanto che, nel vedere il bambino seduto sulla panca, divenni consapevole, con un’angoscia sorda, della devastazione che l’abbandono aveva prodotto in me nel corso dei lunghi anni passati, e una stanchezza spaventosa mi assalì al pensiero di non essere mai stato veramente in vita o di essere venuto al mondo solo allora, per così dire alla vigilia della morte.[13]

Per la prima volta e grazie allo zaino Austerlitz finalmente riconosce in quel bambino sé stesso. Si avvia un percorso a ritroso che non teme il conflitto con «i terrori dell’infanzia». Nulla rimane delle cose, della loro saldezza apparente, soltanto l’algido risucchio del vuoto che tutto trascina con sé. Il passato non si chiude mai definitivamente: è un appuntamento che si rinnova costantemente. È il presagio di morte che corre nelle fibre più riposte delle nostre esistenze.

In ciò che ai nostri occhi appare irrevocabile, si annida un senso profondo che attende di essere riconosciuto e ricondotto alla luce. Ovunque sfacelo e abbandono. Gli oggetti portano in sé la loro futura esistenza di rovine. La vita, lungi dall’avviarsi verso un futuro radioso, è, all’opposto, costellata da affanni e insensatezza. Non esiste progetto che muova virtuosamente la storia, tutto appare già morto e perfino ciò che più profondamente ci appartiene è più l’esito di «un oscuro moto interiore» che il frutto di una scelta consapevole. Sembra impossibile che la vita possa ancora scorrere, stretta tra la «smania nichilista» e l’orrore della devastazione dell’umano. L’accumulo di cose vinte dal tempo è il simbolo della incapacità moderna di serbare le promesse originarie di emancipazione. Promesse che si sono rovesciate nell’edificazione di un dominio totalitario.

Spetta alla scrittura sottrarre il mondo alla voracità predatoria del tempo. Eppure, anche la scrittura può cadere nell’insensatezza e nell’inadeguatezza di tutte le parole impiegate. «Non c’era parola che non suonasse svuotata e mendace».[14]

Era come se in me stesse per scoppiare una malattia, già latente da un pezzo, come se avesse preso piede qualcosa di ottuso e caparbio che, a poco a poco, avrebbe paralizzato tutto. Dietro la fronte avvertivo già quell’infame torpore che prelude al declino della personalità, sentivo di non possedere realmente né memoria, né raziocinio, né un’esistenza nel vero senso del termine, di non aver fatto altro per tutta la vita che cancellarmi volgendo le spalle al mondo e a me stesso.[15]

Alla frantumazione del linguaggio corrisponde la frantumazione della personalità. Presto «la luce svanirà nella cenere». Il vivente è soggetto all’entropia che spinge le cose verso la loro morte, destinato per questo a scomparire inghiottito dall’oscurità che implacabilmente lo riprende in sé.

Numerose fotografie sono presenti nei romanzi dello scrittore tedesco. La foto immobilizza l’istante consegnando il soggetto a una sorta di irriscattabile immortalità. L’incanto del lavoro del fotografo è il momento in cui emergono dal nulla «le ombre della realtà».[16]

L’intransigenza etica di Sebald nei confronti del tempo rinvia a quella di Canetti nei confronti della morte. In entrambi c’è il rifiuto inaggirabile di stipulare patti con il nemico. La riflessione di Sebald acquista sempre più forza e capacità persuasiva in un’epoca che sta davvero precipitando nell’oscurità: caratterizzata – l’epoca – dalla devastazione del vivente, promossa dalla ferocia capitalista. Più volte, tuttavia, Sebald evoca una luce, morente ma pur sempre luce, che potrebbe orientare il mondo alla sua trasformazione.

 

 

Note:

[1] W. G. Sebald, Gli emigrati, Adelphi, Milano 2007, p. 111.

[2] Per approfondire si veda Il fantasma della memoria. Conversazioni con W. G. Sebald, a cura di L. S. Schwartz, prefazione di F. Tuena, Treccani, Roma 2019.

[3] W. G. Sebald, Austerlitz, trad. it. A. Vigliani, Adelphi, Milano 2002, p. 113.

[4] Id., Gli anelli di Saturno, trad. it. A. Vigliani, Adelphi, Milano 2010, p. 165.

[5] Id., Austerlitz, cit., p. 113.

[6] Id.,Vertigini, trad. it. A. Vigliani, Adelphi, Milano 2003, p. 132.

[7] Come spesso in Sebald si legge, egli è attento a cogliere i passaggi del tempo stretti tra il non ancora di un futuro che fatica a prendere vita e il non più che ci consegna alla definitività. Per un attimo, però «tutto è ordinato per il meglio, come se il mondo di fatto consistesse esclusivamente di parole, come se così anche ciò che suscita orrore vi trovasse una collocazione certa, come se per ogni cosa ci fosse il suo contrario, per ogni male un bene, per ogni fastidio una gioia, per ogni sventura una fortuna e per ogni menzogna un pizzico di verità». Ivi, pp. 99-100.

[8] Id., Austerlitz, cit., p. 228.

[9] Ivi, p. 213.

[10] Ivi, p. 137.

[11] Id., Gli anelli di Saturno, cit., p. 30.

[12] Id., Austerlitz, cit., p. 137.

[13] Ivi, p. 151.

[14] Ivi, p. 136. È il caso esemplare di Flaubert e della sua paura di sbagliare, persuaso di non aver scritto fino a quel momento qualcosa che potesse efficacemente opporsi al rimbecillimento collettivo di cui temeva di divenire parte.

[15] Ibidem.

[16] Id., Vertigini, cit., p. 17. Tuttavia, anche la riproduzione «finisce per sostituirsi totalmente al ricordo che abbiamo di qualcosa, anzi si potrebbe addirittura dire che lo distrugge». Ibidem.