Joë Bousquet e Hans Bellmer: una corrispondenza dalla sventura – Riccardo Ferrari

Joë Bousquet e Hans Bellmer: una corrispondenza dalla sventura – Riccardo Ferrari

3 Giugno 2022 Off di Francesco Biagi

“Ho davanti a me una grande tela inviatami da Dubuffet, di cui le piacerebbero i colori e la sfrenata, aggressiva ingenuità. Su degli schienali di sedie, la foresta di Ernst, ben incorniciata, felicemente limitata da un tratto nero che getta una bizzarra luce sul lato tenero e sentimentale del nostro amico. Al muro, di fronte a me, la Bambola. La contemplo, di notte, nell’istante di freschezza che segue un risveglio”[1].

Con queste parole Joë Bousquet si rivolge a Hans Bellmer nel 1945, descrivendo il set della sua vita con le opere artistiche che accompagnavano le giornate nell’appartamento in cui era condannato a rimanere per sempre; fra queste, La Bambola, il reportage fotografico intorno al corpo erotico di una bambola variamente ambientato, smontato e articolato che Bellmer iniziò a realizzare negli anni ’30 inscrivendo il suo nome nel territorio più perturbante del Surrealismo.

Durante gli ultimi anni della Seconda guerra mondiale, l’amicizia fra i due si strinse attorno a una corrispondenza e ad alcuni progetti di collaborazione. La vocazione letteraria di Bousquet ebbe inizio in seguito a un traumatico evento biografico: la paralisi provocata, durante la fase finale della Prima guerra mondiale, nel 1918, da una pallottola nella colonna vertebrale. Dopo l’incidente e la morte fisica, Bousquet vivrà per trent’anni a Carcassone in un ritiro spirituale di singolare intensità. Come scrisse a Bellmer: “La letteratura mi ha spogliato della mia identità borghese, ed era già molto augurarselo. La mia trasformazione morale ha snaturato la mia intensità, ha creato la necessità interna dell’infortunio che inizialmente fu la mia ferita. Ha significato ottenere più di quanto sperassi, superare la speranza e rendere irreale a me stesso come un racconto l’esistenza trascorsa – al punto che mi piace parlarne come se avessi vissuto su una stella”[2].

La ferita e la condizione di sventura diventarono l’occasione per l’edificazione di un nuovo soggetto a partire dal trauma. Lo stesso “privilegio” di cui parla a Bousquet un’altra sua straordinaria testimone epistolare, Simone Weil, che pochi anni prima scriveva all’amico: “Lei ha un immenso privilegio, la guerra dimora nel suo corpo, che da anni attende fedelmente che lei sia maturo per riconoscerla […] per pensare la sventura è necessario portarla nella carne, profondamente conficcata, come un chiodo […] felici coloro per i quali la sventura entrata nella loro carne è la sventura del mondo stesso nella loro epoca. Essi hanno la possibilità e la funzione di conoscere nella sua verità, di contemplare nella sua realtà la sventura del mondo”[3].

 

Questa sventura, Weil scrive all’amico, può essere la posizione giusta per “accordare assenso” all’amore, con una decisione che impegna irrevocabilmente”[4].

È proprio l’amore l’orizzonte della poetica di Bousquet, dal letterario amore cortese alle incarnazioni materialistiche di un erotismo “nero”, indagato nelle sue ramificazioni più sotterranee. Attraverso l’oggetto erotico, a un tempo inconoscibile e narcisistico, Bousquet intraprese un viaggio costituito da continue metamorfosi fra il sé e l’altro, e la scrittura divenne lo specchio di questa ricerca. Nelle pagine diaristiche del suo Cahier noir[5] troviamo numerosi esempi di questo percorso iniziatico: il narratore è alle prese con il suo oggetto amoroso, la jeune fille, che si metamorfosa in giovane amica di una sera, cugina, nipote, in una progressione che conduce il lettore al cospetto di un rito di appropriazione corporea dell’immagine del desidero.

Questo scritto è costellato di figure di conquista, possessione e penetrazione, dalla messa in scena raffinata e libertina di un’unica scena erotica, la sodomizzazione, e le sue possibili permutazioni, fino al punto in cui dalla notte del corpo emerge la figura di un “angelo di sangue”, che è l’interno, l’intimità dell’amore dopo una traversata “viscerale”. L’amore di Bousquet è un “fiore d’ombra” che rivolta i corpi come guanti, dando vita a un oggetto amoroso che si alimenta di desiderio allo stato grezzo, “alle sorgenti del nero”: “la notte non è al mondo. Le notti generate dal tempo non sono che ombra, sì e no l’immagine della notte assoluta che alberga tra le nostre ossa”[6].

La sintonia di sensibilità spinge i due a progettare un’opera comune. Bousquet sogna una sorta di laboratorio sperimentale dove i due artisti possano fare emergere la loro concezione rivoluzionaria del desiderio. “Anfibio sociale”, come scrisse di sé stesso all’artista, aggiungendo che “bisogna che la si veda, lo dico con orgoglio, rimettermi al mondo, come Baudelaire ha rimesso al mondo Edgar Poe”[7], lo scrittore concepisce un’opera capitale sulla sessualità, un lavoro “puramente sadico” che coniughi il talento grafico di Bellmer alla sua scrittura notturna e poetica. L’opera capitale del sesso interiore non fu mai realizzata, ma le influenze reciproche furono rilevanti. Nella lettera del 15 settembre 1945 Bousquet espone una teoria della “rifisiologizzazione” dell’immagine poi sviluppata da Bellmer nel suo trattatello sulla visione Piccola anatomia dell’inconscio fisico. L’immagine del desiderio viene introiettata fino a essere ricostruita e ritessuta, “scende nella fonte tenebrosa dell’uomo e vi cuce il suo luminoso corpo desiderato, alandoci internamente di una pellicola luminosa che è l’apparenza raddrizzata (o invertita, è da vedere) del corpo desiderato[8]”.

L’immagine è sempre una formazione di compromesso fra una pulsione inconscia e un dato percettivo, uno schermo di proiezione in cui possiamo generare un “essere più raggiante di noi e di cui tutta la nostra realtà viscerale è il peso giacché siamo nati da una donna e congenitalmente donne in tutto ciò che non siamo”[9].

La stessa lettera si conclude con la rivendicazione del valore dell’amicizia e dell’amore: contano solo gli uomini, come Bellmer, ricchi di  un tesoro che deve essere preservato senza lasciarlo annerire alla luce del sole; il documento che progettano di scrivere insieme diventerà un altro talismano capace di trasformare, attraverso la scrittura e il disegno, la ferita e la sventura dell’epoca: “Tutto quello che fa dimenticare a un uomo il dolore di vivere può essere cantato: e tutto quello che si canta è giusto e vero. Il che non vale certo per questa merda di mondo, per questi stronzi di contemporanei, bensì per un mondo che non c’è, che si può soltanto concepire, cosa in sé sufficiente a votare equamente alla morte i falsi giorni in cui ci dibattiamo”[10].

 

Note:

[1] Joë Bousquet, Lettere a Hans Bellmer, in Hans Bellmer, Piccola anatomia dell’inconscio fisico e altri scritti, Arcana Editrice, Roma, 1980, p. 120.

[2] Ivi, p. 127.

[3] Simone Weil – Joë Bousquet, Corrispondenza, SE, Milano, 1994, p. 33.

[4] Ivi, p. 34.

[5] Joë Bousquet, Le cahier noir, Albin Michel, Paris, 1989.

[6] Joë Bousquet, Lettere a Hans Bellmer, cit., p. 126.

[7] Ivi, p. 127.

[8] Ibid.

[9] Ivi, p. 137.

[10] Ivi, p. 129.