Una notte al museo – di Luca Lenzini
Passa e ripassa in televisione, specie durante i periodi di festa, un film per ragazzi che s’intitola Una notte al museo. Vi si narra la storia fantastica di un museo di “storia naturale” in cui una serie di personaggi storici e di creature preistoriche, da Attila a Jefferson (siamo a New York) ai tirannosauri, hanno una movimentata vita notturna, che un giovane custode scopre a suo rischio e pericolo. Ci voleva quella commediola infantile per riportarmi a una sera del 1965, a Firenze: a casa in Piazza Indipendenza d’improvviso una telefonata avverte mia madre, allora funzionaria agli Uffizi, che è successo qualcosa di grave – non capisco ancora cosa –, e lei deve rientrare precipitosamente alla Galleria. I nonni, con mio fratello piccolo, non sono in casa, e vengo imbarcato anch’io in macchina. Entriamo dall’ingresso di Via della Ninna, dove spesso, nella portineria, ero parcheggiato in attesa che mia madre uscisse dal lavoro e dove i custodi mi chiamavano “pentolino” per una certa tendenza “bipolare” dei miei umori (il noto ritornello delle “lasagne”…)
Saliamo per le scale di servizio ed è buio quasi dappertutto. Un custode ha una torcia elettrica che fende l’oscurità. Raggiungiamo i grandi corridoi con le vetrate, fuori è freddo, già quasi notte; nella Sala della Niobe, sfiorate dalla luce le statue mimano un dramma misterioso, nella Tribuna barbagli dorati guizzano sulle cornici: ma i nostri passi veloci tirano dritto, echeggiando nei vasti spazi dove nei giorni di chiusura potevo far correre le automobiline a molla – le Schuko e le Corgy – che solo lì, impazzite di libertà, esaurivano la carica in lunghi percorsi sbilenchi, mentre a casa sbattevano rabbiosamente contro i battiscopa delle stanze, rovesciandosi come cetonie agonizzanti (ma ora mi chiedo, dopo cinquant’anni e più, se questo non sia il ricordo di un desiderio e non di un fatto accaduto davvero). Passiamo davanti a una serie di quadri, in un’attonita e sgomenta rassegna: il piccolo gruppo è ammutolito davanti agli sfregi che la mano di uno sconosciuto ha inferto alle pitture. Non sono capolavori famosi, ma per me sono famosi tutti e nessuno; soltanto alcuni mi sono più familiari di altri per dei particolari che hanno catturato la mia attenzione, specialmente animali: il cagnolino che dorme sul letto della Venere di Urbino, lo strano mostro che emerge dal mare nella Liberazione di Andromeda di Piero di Cosimo, gli orripilanti capelli-serpenti di Medusa. Ma è solo quando ci troviamo davanti al Giovane ritratto da Lorenzo Lotto che riesco a vedere qualcosa, perché sostiamo più a lungo e il gruppetto degli adulti si mette a parlare animatamente, facendomi spazio durante la discussione. Vedo allora che più o meno al posto degli occhi il volto ha dei fori, due incruente ferite.
Io vedo… – ma a quegli occhi che un giorno avevano guardato, davanti a sé, il pittore, niente più cade sotto lo sguardo. La faccia stessa ha perso di senso, si nega ad ogni contatto al di fuori di sé, intransitiva e spenta. L’immagine è insieme strana e ordinaria, quasi volgare: sembra una maschera, un apparato carnevalesco o uno schermo dal quale spiare – spiare noi stessi, per esempio, che ora stiamo lì a guardare le feritoie dietro le quali si era forse celato, all’insaputa di tutti, qualcuno che è dileguato da poco, un fantasma… Oppure quel volto un po’ scialbo, né bello né brutto, con l’aria di uno viziato, era stato, chissà, colpito per qualche ragione particolare, una precisa vendetta? C’era forse un rapporto tra la sua storia remota e incognita, e il gesto brutale che l’aveva scelto? Il giovanetto aveva visto qualcosa che non doveva vedere, ed era perciò condannato, ora, a tanti secoli di distanza, al ludibrio dei visitatori? In queste domande provo a tradurre il mio stupore di allora, lo smarrimento misto a paura ma anche l’eccitazione di chi stava vivendo un evento inaudito e fantastico, un episodio romanzesco, un “giallo”…
In quel 1965, ho poi scoperto grazie a Google, il vecchio Aldo Palazzeschi definiva quel decantato ritratto, scrivendo all’amico Marino Moretti, «una crosta», aggiungendo: «che faccia di merda aveva mai quel giovane!» Tutto sommato, se guardo le riproduzioni dei cataloghi, direi che non aveva poi così torto. Non ho più rivisto il giovane di Lotto, le pochissime volte che sono tornato agli Uffizi in età adulta l’episodio di quell’inverno lontano nemmeno mi è venuto in mente. Quanto all’autore degli sfregi, non è mai stato identificato, ed il dipinto sarà tornato dopo un po’ al suo posto, restaurato e di nuovo con lo sguardo rivolto, frontalmente, a chi guarda. In ogni caso, io d’intrupparmi tra i turisti per cercarlo non ho alcuna voglia. Vorrei piuttosto ritornare agli Uffizi una volta di notte, di nascosto, penetrando nelle sale con una torcia, come Fantômas in uno di quei vecchi film di tantissimi anni fa, con passo rapido e felpato; ma sul volto – mentre rivedo il cagnolino o il mostro marino sottratti, per me soltanto, al buio d’intorno – avrei il sorriso franco di uno dei miei attori preferiti, Michael Caine o Yves Montand, non certo quello melenso di Ben Stiller.