In ricordo di Piergiorgio Bellocchio – di Luca Baranelli

In ricordo di Piergiorgio Bellocchio – di Luca Baranelli

3 Maggio 2022 Off di Francesco Biagi

Vorrei ricordare brevemente Piergiorgio Bellocchio per la “generosità militante” che, a partire dai primi anni ’60 del Novecento, egli mise al servizio di persone, gruppi e movimenti impegnati più di lui, e in modo diverso da lui, nella lotta politica e sociale.

La sua statura di scrittore, saggista e intellettuale – fra i maggiori, più liberi e meno incasellabili dell’ultimo sessantennio italiano – è ormai riconosciuta da molti. Ma pochi ricordano o sanno quanto Piergiorgio fece per circa vent’anni, in modo del tutto disinteressato, mettendo i «quaderni piacentini» a disposizione non solo di figure eminenti della cultura italiana come Cases, Fortini, Giudici, Jervis, Solmi, Timpanaro e molti altri, ma anche di voci e posizioni minori, talora assai lontane dalle sue e spesso effimere.

Non penso solo alla condanna a 15 mesi con la condizionale inflittagli come direttore responsabile di «Lotta continua», ma al lavoro che per molti anni lo impegnò a fondo (insieme con Grazia Cherchi) nella direzione e gestione concreta della rivista. Mi riferisco soprattutto anch’io, come ha fatto Matteo Palumbo su «alias» del 1° maggio, a quanto Piergiorgio disse in un’intervista a Gianni Saporetti di «una città» nel 1995, subito dopo la morte di Grazia Cherchi:

 

C’era il problema di tenere insieme un gruppo di persone sempre più numeroso. Tutte persone intelligenti e spesso legate anche da sincera amicizia, ma tenerle unite e farle produrre, è un altro conto.

Il ruolo di chi dirige l’impresa, e deve governare e comporre tensioni e contrasti (che non mancano mai, e non mancarono neanche nella nostra rivista), non è uno scherzo. Dove questo ruolo non sia coperto o sia carente, l’impresa fallisce. In questo compito Grazia si rivelò sempre di un’eccezionale bravura. Incombevano poi tutte le questioni pratiche, materiali. L’autogestione resterà uno dei maggiori titoli d’onore della rivista, ma è costata cara in termini di impegno. Avendo l’ambizione e l’orgoglio di gestire in toto la rivista, dalla programmazione degli articoli alla correzione delle bozze, dalla stampa alle spedizioni a abbonati e librerie, per non parlare della contabilità, il lavoro era a tempo pieno. In quegli anni si parlava molto di militanza. Io andavo molto meno di altri a distribuire volantini davanti ai cancelli delle fabbriche. Ma credo di essere stato un buon militante anch’io facendomi i calli alle mani a furia di confezionare pacchi che legavo con lo spago. E tante altre sfacchinate che avrebbero inorridito il 99% dei nostri intellettuali, anche quelli che si dicevano militanti.

 

Chi, come me, ha seguito da vicino quell’intensa attività organizzativa di Piergiorgio, sa quanto tempo e quanto impegno egli vi dedicasse, sottraendoli spesso ad altre attività a lui più congeniali e organiche: la lettura, la scrittura, la riflessione a contropelo sugli eventi politici, sociali, culturali dell’Italia e del mondo. Ma per un “moralista” e un “libertino” come lui quello era il modo di partecipare attivamente a un processo di cambiamento in corso, di cui pure vedeva contraddizioni, limiti e vicoli ciechi.

Dopo la chiusura dei «quaderni piacentini» (1984: ma per lui, come per altri, quell’esperienza era già conclusa nel 1980), si cominciarono a vedere in modo più chiaro – prima con i quaderni di «Diario», poi con le sue collaborazioni a giornali e riviste, infine con le raccolte degli scritti ­– le sue grandi doti di saggista o meglio, di autentico scrittore. Non voglio dire con questo che il suo impegno di organizzatore culturale negli anni ’60-’70 vada messo a passivo nel bilancio della sua vita. Tutt’altro: penso anzi che l’abbia arricchita. Intendo solo ricordare che anche quello fu il suo modo generoso di partecipare al movimento di quei decenni.