Introduzione al libro “Società della merce, spettacolo e biopolitica neoliberale. Studi per il pensiero critico” (Per le edizioni Mimesis) – di Alessandro Simoncini

Introduzione al libro “Società della merce, spettacolo e biopolitica neoliberale. Studi per il pensiero critico” (Per le edizioni Mimesis) – di Alessandro Simoncini

29 Marzo 2022 Off di Francesco Biagi

Questo libro raccoglie, revisiona e aggiorna una serie di studi scritti negli ultimi anni e dedicati al pensiero critico. Di qui il sottotitolo. Nati come singole tappe di un approccio critico e genealogico alla teoria politica, tutti i testi qui raccolti si confrontano con autori che meglio di altri hanno messo in luce contraddizioni e problemi la cui ombra moderna si allunga fino al nostro presente di crisi: Baudrillard, Benjamin, Debord, Fortini, Foucault, Lacan, Lippmann, Pasolini, Warhol (mediato dalla suggestiva lettura di Mario Pezzella) sono i principali intercessori. Pensati e scritti in momenti diversi, gli studi in questione sono tra loro eterogenei. Per questo possono essere senz’altro letti separatamente. Tuttavia tornano insistentemente su problemi affini, talvolta identici. Al loro interno si trovano quindi ripetizioni di temi e contenuti che si è consapevolmente preferito non eliminare. Queste ripetizioni mostrano bene, infatti, alcune «ossessioni» ricorrenti dell’autore e indicano le difficoltà di un itinerario che, per scelta, è assai poco lineare.

Tutto questo non sfuggirà al lettore che in questo libro, oltre a qualche incursione nel tempo presente, troverà alcune piste di indagine su autori classici del pensiero critico e qualche percorso genealogico condotto con l’intento di contribuire a un’«ontologia dell’attualità»[1]. Società della merce, spettacolo e biopolitica neoliberale è un titolo che associa i tre assi tematici intorno a cui sono raccolti e organizzati gli studi che compongono il volume. La costituzione e il consolidamento della moderna società della merce, che ha come corollario l’assoggettamento dei viventi al feticismo del valore astratto; la genesi e lo sviluppo dello spettacolo, inteso come rapporto sociale analizzato anche in alcuni suoi risvolti contemporanei; l’ascesa e il declino – un declino dagli esiti oltremodo incerti – di quella che definisco la biopolitica neoliberale: senza alcuna pretesa di esaustività, sono questi i nodi affrontati nel libro. Le tre sezioni del volume prendono corpo dal loro sviluppo. All’interno di queste sezioni, al di là di una spiccata eterogeneità, i testi funzionano comunque da punti di raccordo.

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Lo sfondo teorico del volume è costituito dall’assunto marxiano per cui, mentre nelle società precedenti gli uomini «dipendevano l’uno dall’altro», sotto il capitalismo «sono dominati da astrazioni»[2]. Come ha sostenuto Moishe Postone, le astrazioni di cui parla Marx sono quelle che saturano la società capitalista intesa come «formazione sociale fondata sulla forma-merce e caratterizzata dall’indipendenza personale in un sistema di dipendenza oggettiva»[3]. Con Marx, Postone osserva cioè che «il capitalismo è un sistema di dominio impersonale, astratto»[4]. È un sistema in cui i rapporti sociali fondamentali si ergono di fronte agli individui – indipendentemente dal fatto che essi siano lavoratori o imprenditori capitalisti – come «un insieme quasi indipendente di strutture»: strutture che riproducono non soltanto l’economico, ma anche il simbolico e il culturale, e che a quegli stessi individui «si oppongono» dominandone la vita soggettiva in modo «quasi oggettivo»[5]. Tra queste strutture c’è la forma-merce, attraverso le cui «avventure» si riproduce senza posa il dominio del valore[6]: di quel «soggetto automatico», cioè, che secondo Marx mira innanzitutto a valorizzare se stesso attraverso la sussunzione del lavoro vivo e della cooperazione produttiva[7]. In questo senso, come suggerisce Roberto Finelli, il capitale agisce come un soggetto che mira ad imporsi in modo totalizzante e universalizzante alla società e alle forme di vita, «perché è denaro, quantità di ricchezza astratta che cresce su sé stessa»; e quindi «per la sua natura meramente quantitativa» è obbligato a «una valorizzazione e una accumulazione tendenzialmente illimitate, pena il suo venir meno come capitale»[8].

Ogni singolo capitale – che pure si mostra in apparenza come differente da tutti gli altri capitali per il fatto di essere «materialmente immerso nella produzione di beni economici specifici e differenziati» – è perciò nella sua essenza «ricchezza astratta»: ricchezza che, pur celando questo dato «dietro un’apparenza fatta di cose concrete e di liberi agenti individuali», fatalmente «colonizza, saccheggia e svuota di autonomia il mondo del concreto»[9]. In altri termini, con la sua astratta «logica monetario-accumulativa», il capitale mira a plasmare tutti i luoghi della produzione e della riproduzione sociale, e con questi le forme e i contenuti della «coscienza sociale generalizzata», della soggettività e del lavoro[10]. Sussumendo corpi, menti e natura alla logica del valore, la sua potenza produce e diffonde nel mondo un’«astrazione reale»[11]. E l’astrazione capitalistica – suggeriva Adorno – agisce «indipendentemente dalla coscienza dei singoli individui che le sono soggetti», in un modo tale che il valore di scambio «domina i bisogni umani e li sostituisce»[12].

Nel capitalismo, insomma, non si dà controllo degli individui sulla produzione sociale: in questo senso essa non è affatto il loro «patrimonio comune»[13]. Sono piuttosto gli individui stessi ad essere «sussunti alla produzione sociale, la quale esiste come un fato a loro estraneo»[14]. La produzione sociale dell’uomo diviene, così, «produzione della sua nullità» e il suo potere sull’oggetto si rovescia in «potere dell’oggetto su di lui» in modo tale che «da signore che era del suo prodotto appaia come servo di questo prodotto»[15]. Sotto il dominio della forma-valore e della forma-merce scorrono così la vita dei soggetti e quella delle società, piegate entrambe alla necessità di «trasformare il prodotto o l’attività degli individui anzitutto nella forma di valore di scambio, in denaro»[16]. L’intero processo si svolge tuttora all’insegna di quello che Marx chiamava «feticismo della merce»[17]: il fenomeno per cui, come i cosiddetti selvaggi, «anche i membri della società di mercato proiettano il loro potere sociale su oggetti inanimati da cui ritengono di dover dipendere»[18].

Come in una riedizione della servitù volontaria – lo vedremo anche nella ripresa benjaminiana di Marx –, gli uomini elevano la merce a idolo di un nuovo rituale collettivo nel quale «si stregano da soli» e finiscono per essere «dominati dal prodotto delle loro mani, come il selvaggio dal proprio feticcio»[19]. Ben lungi dall’essere una semplice mistificazione, il feticismo della merce si impone quindi progressivamente come «una forma di esistenza sociale totale» che determina i modi della vita e del pensiero: come una «forma a priori», cioè, che precede ogni esperienza concreta. Ma che, diversamente dall’a priori kantiano – ha osservato Anselm Jappe –, funziona come uno schema formale storico «soggetto a evoluzione»[20]. Il feticismo della merce si imprime nell’ordine delle cose come una sorta di inconscio sociale, la cui forma – diversamente da quella invariante pensata da Freud – è «subordinata al mutamento storico»[21]. L’inconscio sociale di cui si sta parlando appartiene «all’esistenza di un collettivo storicamente determinato, diviso tra il modo in cui rappresenta se stesso e l’immaginario da cui è inconsapevolmente posseduto»: un immaginario cifrato dal dominio del valore astratto, fatto di «immagini di sogno» che – per dirla con Mario Pezzella – tramano l’«inconscio del collettivo» senza mantenere mai le loro promesse e rinviando anzi, di volta in volta, «l’adempimento del desiderio alla merce successiva»[22]. In questo modo la merce continua ad alimentare senza posa la promessa di libertà – che della merce è d’altra parte il «fantasma fondamentale» – e a «impressionare i processi di soggettivazione» favorendo una «narcisistica autonomia immaginaria»[23]. Il soggetto resta così imbrigliato nel «regime di desiderio del capitale», il dominio della forma-merce si espande insieme al regno dell’astrazione e il rapporto sociale di capitale si rafforza, confinando i più alla «desolazione del lavoro astratto»[24]: il lavoro produttore di merci.

Del lavoro del resto, materiale o cognitivo che sia, il capitale ha una necessità assoluta: solo incorporandolo sotto il proprio comando può infatti generare plusvalore. In sé il capitale – scrive notoriamente Marx – non è che «lavoro morto»[25]. Si direbbe però un morto vivente, un non-morto: un mostruoso zombie che non solo rapprende in sé il fantasma astratto del valore ma possiede anche un ossessivo «istinto vitale»: «l’istinto di aumentare il proprio valore cioè di valorizzarsi, di creare più valore»[26]. Perché ciò avvenga, però – lo vedremo tra poco –, occorre che l’astrazione tocchi terra. Il capitale deve spazializzarsi. La «forza-lavoro vivente» che il capitale ha acquistato dietro il compenso di un salario deve mettersi in movimento dentro i suoi ingranaggi, trasformandosi in lavoro vivo[27]. La metamorfosi non è scontata: anche se il capitalista l’ha comperata, e ha così acquisito il pieno diritto di utilizzarla, la forza-lavoro vivente è sempre custodita dal corpo dei lavoratori, i quali possono resistere e lottare. Il capitale deve vincere le resistenze di chi lavora, deve riprodurre la sua soggettività, in modo che accetti più o meno docilmente lo sfruttamento, e deve risolvere a proprio vantaggio il conflitto tra le classi. Solo in questo modo il non-morto del capitale potrà estrarre il lavoro vivo dai suoi portatori viventi. E, incorporandolo a sé, potrà diventare «valore che si valorizza, mostro animato che inizia a “lavorare” come se avesse amor in corpo» – scrive Marx citando il Faust di Goethe[28]. Il capitale «si ravviva, come un vampiro, soltanto succhiando lavoro vivo, e più vive quanto più ne succhia»[29]. Il capitale-vampiro dipende da questa copula amorosa con la fonte del valore. Dipende cioè fisiologicamente dal lavoro vivo: solo l’afflusso di questo «“fluido” vivificante» può togliere il «valore-denaro dalla sua fissità e dare vita, appunto mostruosa, al capitale»[30].

Come ha ricordato Riccardo Bellofiore, sulla scia della Dialettica della paura di Franco Moretti, è solo grazie alla propria natura di vampiro che il capitale può trasformare «la crisalide del valore-denaro – l’incarnazione, nel corpo del denaro, del fantasma del valore – in farfalla: valore che figlia più valore; lavoro morto che torna alla vita e ammassa sempre più lavoro morto»[31]. La farfalla del valore, ora divenuto «valore auto-valorizzantesi», non si limita a generare localmente plus-valore[32]. Volando di qua e di là essa punta a ghermire, con la presa astratta della sua forma, l’intero corpo vivente della cooperazione sociale. Trainata dall’affermazione della forma-valore, di cui non è che l’altra faccia, l’astrazione della forma-merce conquista così il dominio sociale. E, pur non essendo altro che lavoro morto rappreso, la merce (che deve sempre possedere anche un valore d’uso corrispondente alla capacità di soddisfare qualche bisogno) si mostra capace di conquistare la sensibilità dei viventi instillando in loro il «desiderio di vivere la propria vita attraverso i beni di consumo», che – come ha sostenuto Mark Neocleous – coincide con il «desiderio di vivere attraverso il morto»[33].

La storia mostra bene come questa specifica modalità del dominio abbia progressivamente mercificato il lavoro umano, le relazioni sociali e ogni forma di attività vitale, spingendo altresì le soggettività verso un’«auto-astrazione desiderata che prende la forma di identità mercificate»[34]. Nelle società neoliberali e performative in cui ci troviamo a vivere, questa mercificazione si manifesta ordinariamente nel marketing di se stessi, che si svolge in un mondo segnato dalla trasformazione dei dispositivi spettacolari «assolutamente saturo di pubblicità, di merci e di marche»[35]. Così negli ultimi decenni, come suggerisce lo storico William Sewell Jr., il potere dell’astrazione del capitale e la forma-merce hanno plasmato la nostra personalità di «individui apparentemente indipendenti e autodeterminati», proprio mentre le forze e le strutture sociali che innervavano l’ordine globale si facevano «sempre più difficili da comprendere e contestare»[36].

Come hanno sostenuto Sandro Mezzadra e Brett Neilson, si tratta infatti di strutture costituite da una complessa serie di operazioni estrattive, logistiche, finanziarie, digitali e di altro genere che articolano socialmente l’unità di quello che Marx chiamava «capitale complessivo» (Gesamtkapital)[37]. Il capitale agisce sempre come una «macchina produttrice di differenze» ma le molteplici operazioni che lo spazializzano concretamente nei territori, lo considerano una «matrice unitaria» di riferimento da implementare in «modi eterogenei»[38]. In altri termini l’unità del capitale è sempre connessa alle «operazioni multiple» che lo mettono «a terra»[39]. Mentre danno forma materiale allo spossessamento, allo sfruttamento e alla cattura della cooperazione sociale, quelle operazioni garantiscono la valorizzazione del valore e la riproduzione del rapporto sociale di capitale: è così che l’astrazione si fa reale [40]. Da una parte, nella globalizzazione neoliberale le «operazioni del capitale» producono una loro «politica», con cui danno forma al mercato mondiale e ai mille piani delle sue differenze. D’altra parte, però, il mercato mondiale stesso è il «presupposto politico» dell’esistenza dello sviluppo capitalistico[41]. Con il suo incedere «rivoluzionario» e il suo carattere distruttivo, infatti, esso agisce «come un principio assiomatico che permette la riproduzione continua» del potere dell’astrazione[42]. Con Alfred Sohn-Rethel, l’«astrazione reale» va insomma intesa come un processo definito da rapporti materiali e spaziali capitalistici. Fin dagli inizi del capitalismo questi rapporti determinano su scala globale «la grandezza e la sostanza del valore», riproducendo materialmente le relazioni sociali all’insegna della forma-merce, del lavoro astratto e del denaro[43].

Come sintetizza Werner Bonefeld, «l’astrazione reale si cristallizza nel denaro ed è attraverso il denaro che si stabilisce il legame collettivo della riproduzione sociale capitalista»[44]. Sotto il suo dominio sempre di più

 

il nostro benessere, le nostre routine quotidiane, le nostre traiettorie di vita o il valore delle nostre competenze e risorse sono in larga misura determinate da forze «economiche» astratte, anonime, apparentemente oggettive e fuori dal nostro controllo – ivi comprese quelle che ci spingono verso l’insostenibilità ambientale[45].

 

Questa insostenibilità ha radici profonde nel passaggio al «capitalocene», l’era geologica in cui si afferma quello specifico modo di produzione e organizzazione della natura in cui quest’ultima viene ridefinita come oggetto di cui appropriarsi «a buon mercato» e da subordinare alla valorizzazione capitalistica[46]. E si tratta di un’insostenibilità evidentemente ed inestricabilmente connessa alla produzione sociale massificata del desiderio consumistico: desiderio che non è affatto naturale, ma sorge da «bisogni artificiali» fabbricati all’interno di un dispositivo di potere-sapere che – nella seconda metà del XX secolo – ha visto decollare congiuntamente il potere pubblicitario, l’espansione incontrollata del credito al consumo e il sistema dell’obsolescenza programmata delle merci[47].

Né la crisi economica né quella pandemica sembrano avere incrinato l’affermazione di questi processi. Il desiderio dei viventi resta plasmato dalla forma-merce e continua a dirigersi verso oggetti-feticcio «che gli promettono assoluti immaginari per poi sgretolarsi una volta adempiuta la loro transustanziazione in denaro»[48]. L’immaginario egemone continua a comandare godimento e sogni di successo. Simultaneamente però decreta la colpa di chi non raggiunge gli obiettivi prescritti dalla società della prestazione[49]. Sempre più repentinamente, così, il consumatore gaudente e l’imprenditore di se stesso si convertono in soggetti indebitati e colpevoli: soggetti assai spesso destinati alla depressione e al fallimento[50]. Il rancore che ne consegue finisce fatalmente per ingrossare il successo di neo-populismi in grado di offrire nemici di comodo su cui scaricare la rabbia generata dall’impoverimento e dalle disuguaglianze[51]: neo-populismi che, lungi dall’opporsi al neoliberalismo e alla società della merce, ne incarnano piuttosto il rovescio osceno[52].

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Il libro tiene sullo sfondo questi assunti teorici. La prima parte si focalizza sul rapporto tra il soggetto e la merce nella modernità. Il primo capitolo è dedicato a Walter Benjamin. La sua lettura di Marx e delle famose pagine sul feticismo della merce è infatti indispensabile per mettere a fuoco il modo in cui la fantasmagoria delle merci – come si è già accennato – ha prodotto le «immagini di sogno» con cui la logica del valore si è innervata nell’inconscio del collettivo e ha contribuito in modo rilevante a generare l’assoggettamento dei viventi nella modernità. Il tema è centrale anche nella riflessione di Pasolini. Il secondo capitolo si concentra quindi sul modo in cui, proprio grazie alla sua sensibilità antimoderna, il poeta friulano è riuscito a comprendere con estrema lucidità l’affermazione tardo-moderna della società del capitale e della merce. È con Salò e le 120 giornate di Sodoma che questa sensibilità raggiunge il suo vertice. Qui, architettando una vera e propria trappola per spettatori, Pasolini utilizza l’inferno del fascismo storico prima maniera per mettere in scena quello che per lui era il «vero fascismo», ancora invisibile ai più: il fascismo della società dei consumi al cui interno prende forma qualcosa di simile a un’«apocalisse culturale» capace di trasformare irreversibilmente la vita di tutti e di ciascuno.

Ai tratti di contiguità tra questa riflessione di Pasolini e l’analisi lacaniana del «discorso del capitalista» è dedicato il terzo capitolo, che prende però le mosse da un’acuta riflessione di Franco Fortini sul nodo «pasoliniano» della metamorfosi antropologica. In risposta ai movimenti sociali degli anni’60 e ‘70, per Fortini è sorto un «surrealismo di massa» industrial-culturale che ha permesso di sussumere le potenzialità desideranti e sovversive del discorso surrealista alla logica della merce, dando vita così a una nuova stagione dell’alienazione soggettiva di massa. Anche Lacan – come Pasolini e Fortini – ha concentrato la propria attenzione sullo sfruttamento del desiderio soggettivo, che nella società della merce avviene attraverso l’instaurazione del «divieto di non godere» fin dentro l’inconscio. La merce funziona per Lacan come un piccolo «oggetto a» che continuamente stimola il desiderio. L’oggetto a sostituisce la Cosa, la fusione con l’essere materno. Surrogato di quella fusione, la merce ne mantiene attiva la nostalgia continuando a prometterne il godimento: promessa sempre delusa  sotto il dominio del capitale. Nonostante il tradimento delle promesse però – lo si è già detto in avvio – il desiderio resta feticisticamente centrato sulla merce. Con il dominio del discorso del capitalista emerge quindi un nuovo Super-Io sociale, sempre insoddisfatto, che spinge alla colpa quando non si riesce a godere. Ne risulta un godimento senza piacere né desiderio, che spinge il soggetto a un narcisismo sconfinante in quello che Colette Soler ha definito «narcinismo».

Dal modo in cui il sistema degli oggetti si impone al soggetto affascinandolo, parte anche la riflessione su Jean Baudrillard. Il quarto capitolo si focalizza sull’aspetto più originale della sua indagine sulla società della merce: la critica dell’economia politica del segno, intesa come riforma e superamento (o forse sarebbe meglio dire aggiornamento) della critica dell’economia politica di Marx. Per Baudrillard gli oggetti non sono istanze reificate in cui il soggetto si proietta e si aliena, ma segni che producono un codice totalmente arbitrario: un sistema di comunicazione, cioè, che come un feticcio avvinghia il soggetto. Se c’è feticismo delle merci, però, per Baudrillard non è semplicemente perché il soggetto viene piegato dalla forza magica dell’oggetto-merce a una falsa coscienza dedita al culto del valore di scambio, bensì perché il soggetto è già da sempre interno a un discorso in cui gli oggetti circolano come segni emancipati dal reale. Una macchina semiotica immerge gli individui in un processo di simulazione entro il quale si riproduce senza posa il dominio del valore astratto, che prolifera per escrescenza e metastasi anche all’interno della rete. Non convince, però, l’ipotesi baudrillardiana che la società dei simulacri, con la sua logica spettrale e disincarnante, sarebbe in aperta discontinuità con la società dello spettacolo e con la sua dinamica alienante. Non appare infatti così marcata la distanza tra gli spettatori passivi della scena spettacolare e i figuranti interattivi che si muovono liofilizzati tra le maglie della rete.

Per questo la seconda parte del libro torna a riflettere proprio sul concetto di spettacolo. Nel primo capitolo viene analizzata l’originale riflessione di Mario Pezzella sul volto di Marilyn. Se le celebri serigrafie di Warhol con il volto di Marilyn  disvelano la realtà del sempre uguale e della ripetizione che sta dietro ogni apparenza di novità enfatizzata dallo spettacolo e dalla merce, è in Marilyn Black on blue Green (il ciclo che l’artista newyorchese produsse tra il 1979 e il 1986) che viene svelato il cuore di tenebra del feticcio-merce e della società spettacolare: il volto oscurato e luttuoso della diva segnala che dall’universo dei simulacri non c’è via d’uscita. Sotto il regno dello spettacolo ogni senso del possibile risulta barrato. Lo spettro del capitale domina e non ammette redenzione.

Il secondo Capitolo propone un percorso interno alla genealogia della società dello spettacolo: un percorso relativo alla nascita della figura del «pubblico», figura collettiva della soggettività spettatoriale che prende forma anche in quel vero e proprio laboratorio antropologico che sono le Esposizioni universali, dove si ha un’anticipazione miniata di quella che sarà la colonizzazione mercantile degli spazi e dei tempi sociali. È qui che sembra emergere il pubblico come doppio del popolo dei moderni. Qui il popolo dei cittadini è fin da subito un pubblico di consumatori e di spettatori. O almeno così appare nel testo genealogicamente indagato all’interno di questo capitolo: il Rapport sur l’exposition universelle de 1855 présenté á l’Empereur redatto dal principe Napoleone Giuseppe Carlo Bonaparte.

Interrogandosi sul buon uso del concetto di spettacolo, il terzo capitolo ripercorre invece il pensiero di Guy Debord inquadrandolo nell’ordine della democrazia postbellica. Al senso comune del cosiddetto «compromesso socialdemocratico», che consolida lo spettacolo inteso come rapporto sociale in cui l’individuo contempla e non vive, Debord si oppone radicalmente. Lo spettacolo, che per lui – marxiano sui generis – eredita la potenza feticistica della religione, «è il capitale a un tal grado di accumulazione da divenire immagine». Nella non vita spettacolare, così, il  desiderio finisce fatalmente sotto il dominio del capitale e del valore astratto. Un buon uso del concetto di spettacolo non può quindi prescindere dalla valorizzazione di questo assunto anticapitalistico.

Lo spettacolo – questa la tesi del quarto capitolo – non ha smesso di vincere e continua a colonizzare in forme nuove la nostra società della prestazione. Al suo interno l’immaginario neoliberale ha riconfigurato i soggetti come imprenditori di se stessi operanti in base agli imperativi della performance e del godimento. Veicolati dal «nuovo» spettacolo – dai format della nuova televisione (i talk, i talent, i reality) e dai social network – quegli imperativi si ergono a norma sociale insieme a competizione e narcisismo. Intanto continua in rete il processo di sussunzione della vita al capitale. Nel capitalismo delle piattaforme il dominio del valore astratto si estende a un nuovo tipo di relazioni umane che rende i dati una merce potenziale – le data relations – e si appoggia su una governamentalità algoritmica che orienta incessantemente le nostre vite di rete, spinte costantemente su una scena dove, secondo un motto debordiano del Collettivo Ippolita, «lo spettacolo della  specie umana è divenuto merce». Una miriade di spettatori sperimenta così l’illusione di diventare attore. Ne emerge un pubblico di tipo nuovo, che si frammenta in bolle autoreferenziali e tende a divenire sciame.

Torna dunque il problema del pubblico, con cui si apre la terza parte del volume dedicata alla critica del neoliberalismo e alla crisi della biopolitica neoliberale. Nell’ottica di una genealogia del neoliberalismo e della postdemocrazia, il primo capitolo analizza il modo in cui Walter Lippmann ha costruito la figura del popolo democratico in analogia con quella di un pubblico fantasmatico. Da Liberty and the News (1920) a Public Opinion (1922) a The Phantom Public (1925), Lippmann sosterrà che la sovranità del popolo è una finzione. Il popolo è per lui un fantasma che non può dirigere gli affari pubblici. Non è che un pubblico di spettatori in cui si sommano tante ignoranze individuali. Per questo, scrive Lippmann anticipando alcuni motivi postdemocratici, non può che «scegliere tra due grandi opzioni concorrenti, impegnandosi per il partito le cui promesse gli parlano meglio». Con The Good Society (1937), poi, Lippmann pone tra i primi il problema della rifondazione del liberalismo: è il motivo per cui questo libro sarà al centro dei lavori del Colloque Lippmann, dove si confronteranno i maggiori pensatori liberali dell’epoca. The Good Society sintetizza infatti la comune ispirazione di fondo delle due anime del liberalismo presenti al convegno: quella austro-americana degli Hayek e dei Von Mises; quella tedesca dei Rüstow e dei Röpke. Riconoscendo gli errori del liberalismo classico, Lippmann richiama la necessità di un intervento governamentale che da una parte sappia garantire l’ordine del mercato e, dall’altra, punti a riprodurre le dinamiche forme di vita che lo sostengono. Il compito più importante per il nuovo liberalismo sarà quindi, per Lippmann, quello di favorire «l’adattamento della razza umana» ad un ordine economico fondato sulla concorrenza generalizzata. Di qui la grande importanza del suo pensiero per la genealogia del neoliberalismo e della biopolitica neoliberale, che – si potrebbe aggiungere – non sono che una nuova frontiera della società del capitale.

Sulla biopolitica neoliberale – una biopolitica che diversamente da altri usi correnti del termine viene qui intesa come governamentalità – si concentra il secondo capitolo, che parte da una ricognizione nel cantiere filosofico di Michel Foucault e segnala le differenze tra la biopolitica del Welfare e quella neoliberale. Se la prima è essenzialmente una strategia governamentale che accetta la triade libertà-proprietà-mercato, ma risponde almeno parzialmente alla sfida dell’insicurezza prodotta dal mercato, la seconda governa i processi sociali attraverso l’individualizzazione. Priva cioè i singoli dei supporti del Welfare e li spinge ad adeguarsi responsabilmente alle logiche del mercato. Lo Stato intanto costituzionalizza la logica della competizione, promuovendola a fattore di socialità e a dispositivo pedagogico capace di educare i viventi al buon uso del «capitale umano» in base alle regole di una «costituzione economica». Formalizzare la società sul modello dell’impresa è quindi il compito della biopolitica neoliberale. Il programma neoliberale, però, si è incagliato contro l’iceberg della crisi iniziata nel 2007-2008. Il capitolo tiene quindi sullo sfondo quella che Colin Crouch ha chiamato la «strana non morte» del neoliberalismo – che in Europa ha continuato a proporsi fino ad oggi come un modo efficace di governare la crisi – e getta uno sguardo nei suoi mutamenti fin dentro la pandemia. Le centrali di governo dell’Unione europea hanno infatti cercato di trasformarla nell’occasione di consolidarsi come centro di direzione politica transnazionale, nell’ottica di una stabilizzazione capitalistica della crisi e di un rilancio dell’Unione stessa come grande spazio competitivo interno alla globalizzazione. La chiusura del capitolo e del libro accenna quindi al significato e alle ambivalenze del Recovery Fund, che corre il rischio di rappresentare soltanto l’eccezione che conferma la regola neoliberale su cui si regge l’Unione europea.

 

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Indice del volume

Introduzione

Parte prima – Sulla società della merce

  1. Un «nuovo sonno affollato di sogni»: Benjamin e la società della merce

 

La merce come immagine di sogno e promessa di felicità

L’«ebbrezza religiosa delle grandi città»: la merce come droga

Teologia della merce e feticci intelligenti

 

  1. Essere (in)giusti con Pasolini. Salò e l’inferno dell’edonismo

 

«Pasolinismo» come ideologia?

Crisi del sacro e critica del nuovo fascismo

Salò, o dell’edonismo come fascismo

Tra Salò e Petrolio: corpo a corpo con lo spettatore

Salò come «teorema della morte»: la fine del fuori e il fascismo nel futuro

 

  1. Tra «surrealismo di massa», «discorso del capitalista» e «vero fascismo». Appunti su Fortini, Pasolini e Lacan

 

Le nuove armi del capitalismo: tra surrealismo di massa e discorso del capitalista

Sul discorso del capitalista: mettere il desiderio al lavoro

Lacan con Pasolini: sulla coazione a godere

 

  1. Critica della società della merce e regno dei simulacri nel pensiero di Jean Baudrillard 

 

Per una (nuova) critica della società della merce

Logica della merce e «terrorismo del valore» nella critica dell’economia politica del segno

Fine dello scambio simbolico, crisi del reale e regno dei simulacri

Che cosa ha visto Baudrillard

 

Parte seconda  – Sullo spettacolo

  1. Tra merce e spettacolo. Marilyn come metafora: una riflessione di Mario Pezzella

 

Marilyn e Warhol: lo spettacolo e il «valore fantasmatico» della merce

Spettri della merce

Sul cuore di tenebra della merce

 

  1. Note sulla nascita del pubblico. Per una genealogia della società dello spettacolo

 

Lo spettacolo come rapporto sociale

L’emergenza del pubblico alle Esposizioni universali

Alberto Abruzzese e la genealogia del pubblico

Il pubblico e la ragion spettacolare

 

  1. Sul buon uso del concetto di spettacolo. Debord prossimo nostro

 

Lo spettacolo nel suo contesto. L’ordine della democrazia postbellica

Debord contro il senso comune socialdemocratico. Spettacolo, fascismo, democrazia

La sostanza dello spettacolo

Debord, il ’68 e l’assalto al «cielo spettacolare»

Lo spettacolare integrato nei Commentaires

 

 

  1. Vecchi e nuovi scenari dello spettacolo

 

Anima e forme dello spettacolo

Spettacolo e società della prestazione

Lo spettacolo ai tempi del Bioipermedia: plusvalore di rete e pornografia emotiva

Lo spettacolo nella rete: tra data relations, governamentalità algoritmica e nuova servitù volontaria

 

 

Parte terza – Critica del neoliberalismo e crisi della biopolitica neoliberale

  1. Il popolo come pubblico nel pensiero di Walter Lippmann. Per la genealogia del neoliberalismo e della postdemocrazia

 

Premessa

Il popolo come pubblico e come fantasma

The Good Society: sul governo del popolo nel nuovo liberalismo

Lippmann a Parigi

 

  1. Note sulla biopolitica neoliberale e sulla sua crisi

 

Michel Foucault, il biopotere, la biopolitica

Dalla biopolitica del Welfare alla biopolitica neoliberale

Crisi del programma neoliberale, disavventure dell’imprenditore di se stesso e capitalismo pandemico

 

 

NOTE:

[1] M. Foucault, Le gouvernement de soi et des autres. Cours au Collège de France (1982-1983), Paris, Gallimard-Seuil, 2008, p. 22.

[2] K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (1857-58), Firenze, La Nuova Italia, 1968, vol. I, p. 107.

[3] M. Postone, Time, Labor, and Social Domination: A Reinterpretation of Marx’s Critical Theory, Cambridge, Cambridge University Press, 1993, p. 125.

[4] Ibidem.

[5] Ibidem.

[6] A. Jappe, Les aventures de la marchandise. Pour une critique de la valeur, Paris, La Découverte, 2017.

[7] Per Marx, nel movimento che lo spinge a valorizzarsi, il valore assume sempre diversi modi di esistenza. Esso «trapassa costantemente da una forma all’altra, senza perdersi in questo movimento, e si trasforma così in un soggetto automatico». In questo modo «il valore diventa il soggetto di un processo nel quale, nell’assumere forma di denaro e forma di merce, passando continuamente dall’una all’altra, esso altera anche la propria grandezza e, in qualità di plusvalore, si stacca da se stesso in quanto valore iniziale: valorizza se stesso». K. Marx, Il Capitale. Critica dell’economia politica, Libro I (1), Roma, Editori Riuniti, 1973, p. 170. Sul tema cfr. anche R. Bellofiore, Il Capitale come Feticcio Automatico e come Soggetto, e la sua costituzione: sulla (dis)continuità Marx-Hegel, in «Consecutio Temporum», 5, 2013, pp. 42-78 e G. Cesarale, Soggetto automatico vs. soggettività: il rapporto di capitale e le condizioni dell’antagonismo, in M. Gatto (a cura di), Marx e la critica del presente, Firenze, Rosenberg & Sellier, 2020, pp. 165-175.

[8] R. Finelli, Critica, capitale e totalità, in «L’ospite ingrato», 10, 2021, p. 4.

[9] Ibidem.

[10] Ivi, pp. 5-6. Finelli osserva, ad esempio, che dietro l’apparenza di un lavoro cognitivo presentato come libera attività creativa e linguistico-calcolante, indipendente dall’uso capitalistico delle macchine informatiche, c’è la realtà dell’«uso comandato ed eterodiretto di lavoro mentale».

[11] Ivi, p. 7. Per un approfondimento, cfr. Id., Un parricidio compiuto. Il confronto finale di Marx con Hegel, Milano, Jaca Book, 2014.

[12] T. W. Adorno, Sociologia e ricerca empirica, in AA. VV., Dialettica e positivismo in sociologia, Torino, Einaudi, 1972, p. 96.

[13] K. Marx, Lineamenti fondamentali, cit., p. 100.

[14] Ibidem.

[15] Id., Scritti inediti di economia politica, Roma, Editori Riuniti, 1963, pp. 13-14.

[16] Id., Lineamenti fondamentali, cit., p. 100.

[17] Id., Il Capitale, Libro I (1), cit., pp. 84-97.

[18] A. Jappe, Peut-on s’émanciper du fétichisme ?, in «Palim-psao. Critique de la valeur-dissociation», 15 novembre 2012, on line. Per uno sviluppo del tema e per una rassegna di posizioni, cfr. Id., Un concept difficile. Le Fétichisme chez Marx, in «Jaggernaut», 1, 2019, pp. 291-318. La bibliografia sul feticismo è sterminata. Mi limito qui a segnalare, in prima battuta, A. M. Iacono, Teorie del feticismo. Il problema filosofico e storico di un immenso malinteso, Milano, Giuffrè, 1985; Id., Sul concetto di «feticismo» in Marx e Antropologia e storia in Marx. Il caso particolare del «feticcio della merce», in Id., Studi su Karl Marx. La cooperazione, l’individuo sociale e le merci, Pisa, Ets, 2018, pp. 101-118; S. Mistura (a cura di), Figure del feticismo, Torino, Einaudi, 2001; F. Chicchi, Il feticismo come teoria generale di Marx, in Id., Karl Marx, Milano, Feltrinelli, 2019, pp. 86-110. Con una diversa prospettiva, che propone di sostituire il concetto di «feticismo del capitale» a quello di «feticismo della merce» cfr. anche R. Finelli, La soggettività complicata di Karl Marx, in R. Gatto (a cura di), Marx e la critica del presente, Torino, Rosenberg & Sellier, 2020, pp. 15-32 e Id. Il Capitale di Marx come «inconscio sociale», in AA. VV., L’inconscio sociale, «Altraparola», 3, 2020, pp. 9-16.

[19] D. Scalzo, Con i suoi stessi occhi. Walter Benjamin e la città, Milano, Transeuropa, 2012, p. 321.

[20] A. Jappe, La société autophage. Capitalisme, démesure et autodestruction, Paris, La Découverte, 2017, p. 22.

[21] Per questo Jappe sostiene che il capitalismo fa parte «della storia delle costituzioni inconsce dell’umanità» e che la forma-merce funge da veicolo del dominio del valore sull’inconscio sociale. Ibidem.

[22] M. Pezzella, L’inconscio sociale, in «Altraparola», 3, 2020, pp. 5-6.

[23] F. Chicchi, Karl Marx, cit., p. 103.

[24] M. Pezzella, L’inconscio sociale, cit.

[25] K. Marx, Il Capitale, Libro I (1), cit., p. 253.

[26] Ibidem.

[27] Ivi, p. 213.

[28] Ivi, p. 214.

[29] Ivi, p. 253. Cfr. anche ivi, pp. 291-2 e p. 338. Già nei Grundrisse Marx scrive che il capitale ottiene la capacità di garantire la «perennità del valore […] soltanto succhiando di continuo l’anima del lavoro vivo, come un vampiro». K. Marx, Lineamenti fondamentali, II, cit., p. 652. Sul punto, cfr. E. Dussel, Le metafore teologiche di Marx, Roma, Inschibboleth, 2018, p. 261.

[30] R. Bellofiore, Karl Marx e il «rapporto di capitale», in Id., Ricardo, Marx, Sraffa. Il lavoro nella riflessione economico-politica, Firenze, Rosenberg & Sellier, 2020, p. 231.

[31] Ibidem. Cfr. F. Moretti, Dialettica della paura, in «Calibano», 2, 1978, ora in Id., Segni e stili del moderno, Torino, Einaudi, 1987. Sulla metafora del vampiro in Marx torna efficacemente M. Neocleous, Il mostro e la morte. Funzione politica della mostruosità, Roma, Deriveapprodi, 2008, pp. 49-84.

[32] K. Marx, Il Capitale, Libro I (1), cit., p. 206.

[33] M. Neocleous, Il mostro e la morte, cit., p. 67. In questo senso, Neocleous afferma che la merce è sì «morta», ma «non ancora deceduta». Come il capitale, anch’essa è «un non-morto, nel senso che riesce a vivere grazie alla sensibilità dei vivi». E «dopo essersi riportato in vita, il vampiro-merce raggiunge il controllo servendosi di una potente dialettica di paura e desiderio» (p. 68).

[34] W. Sewell Jr., The Capitalist Epoch, in «Social Science History», 1-2, 2014, p. 5.

[35] Ibidem.

[36] Ivi, p. 6. Sewell Jr. non si limita a ricordare con Marx che il capitalismo ha condotto l’umanità fuori dalle precedenti forme di dipendenza personale, sviluppando nuove e più pervasive forme di dominio astratto. Sottolinea anche come il «processo di astrazione sociale» stimolato senza posa dalla forma-valore e dalla forma-merce – un processo sotto le cui forme nuove ancora ci troviamo a vivere –, abbia «anche contribuito allo sviluppo di forme culturali come le scienze sociali e l’idea di uguaglianza che servono da base a una critica di questo stesso dominio».

[37] K. Marx, Il Capitale, Libro III (1), cit., p. 260. Sandro Mezzadra e Brett Neilson propongono di tradurre  Gesamtkapital con «capitale aggregato». Il termine rende maggiormente l’idea che, «anche se il capitale si caratterizza per le sue tendenze totalizzanti», esso «non è una totalità». L’unità del capitale è infatti «sempre instabile e messa in crisi dai contrasti e dagli scontri di interesse». S. Mezzadra, B. Neilson, Operazioni del capitale. Capitalismo contemporaneo tra sfruttamento ed estrazione, Roma, Manifestolibri, 2021, pp. 86 e 92.

[38] Ivi, pp. 121 e 101.

[39] Ivi, p. 120.

[40] Ibidem.

[41] M. Battistini, E. Capuccilli, M. Ricciardi, Global Marx. Mercato mondiale e movimento sociale, in Id. (a cura di), Global Marx. Storia e critica del movimento sociale nel mercato mondiale, Milano, Meltemi, 2020, p. 10. In questo senso – sostengono  gli autori – il mercato mondiale non coincide affatto con la mera estensione geografica degli scambi commerciali. Esso va piuttosto inteso come la «struttura di potere – comunicativa, economica e istituzionale – che ridefinisce ripetutamente la geografia del capitale, stabilendo le coordinate mutevoli delle forme e delle figure dello sfruttamento del lavoro salariato grazie alla subordinazione di masse sempre più estese di individui».

[42] S. Mezzadra, B. Neilson, Operazioni del capitale, cit., pp. 120-121. È Marx a sostenere che «il capitale opera distruttivamente», attuando una «rivoluzione permanente» capace di abbattere «tutti gli ostacoli che frenano lo sviluppo delle forze produttive, la dilatazione dei bisogni, la varietà della produzione e lo sfruttamento e lo scambio delle forze della natura e dello spirito». K. Marx, Lineamenti fondamentali, tomo II, cit., p. 12. Sul punto cfr. S. Mezzadra, Per la critica del capitalismo globale. Un progetto «marxiano»? in Id., Un mondo da guadagnare. Per una teoria politica del presente, Milano, Meltemi, pp. 289-306.

[43] A. Sohn-Rethel, Lavoro intellettuale e lavoro manuale. Per la teoria della sintesi sociale, Milano, Feltrinelli, 1977, p. 39. Sul tema, cfr. A. Jappe, Il denaro ci pensa? Perché leggere Sohn-Rethel oggi, in A. Simoncini (a cura di), Dal pensiero critico. Filosofie e concetti per il tempo presente, Milano, Mimesis, 2015, pp. 105-130, che sottolinea però il grande limite di Sohn-Rethel: quello di non avere colto la modernità capitalistica dell’astrazione reale ricondotta impropriamente al mondo greco e considerata come momento fondativo della stessa filosofia.

[44] W. Bonefeld, On Capital as Real Abstraction, in A. Oliva, Á. Oliva, I. Novara (a cura di), Marx and Contemporary Critical Theory. The Philosophy of Real Abstraction, London, Palgrave-MacMillan, 2020, p. 155. Bonefeld osserva che il dominio delle astrazioni economiche avvantaggia certamente i proprietari di grandi ricchezze, ma questo «non implica che essi ne abbiano il controllo». Dal momento che l’astrazione reale riguarda tutti, «una critica personalizzata del capitalismo non giunge a toccare quest’ultimo con il pensiero». E la pur necessaria lotta per la redistribuzione della ricchezza non è sufficiente ad emancipare donne e uomini dal dominio astratto del capitale.

[45] W. Sewell Jr., The Capitalist Epoch, cit., p. 5. Pur non discutendola, questo volume tiene sullo sfondo la prospettiva eco-socialista per la quale, di fronte al rovescio catastrofico del progresso e al dominio dell’astrazione, è necessario ripensare benjaminianamente l’orizzonte della rivoluzione come un necessario «freno di emergenza». Cfr. M. Löwy, Qu’est-ce que l’écosocialisme?, Montreuil, Le temps des cerises, 2020 e Id., La révolution est le frein d’urgence. Essais sur Walter Benjamin, Paris, Editions de l’éclat, 2019.

[46] J. W. Moore, Antropocene o capitalocene? Scenari di ecologia-mondo nell’era della crisi planetaria, Verona, Ombre corte, 2017. Nel suo libro Moore mette in grande risalto il tratto capitalogenetico del cambiamento climatico e della crisi planetaria. Per lui inoltre il «deterioramento della natura» non va inteso come un generico effetto dell’azione umana sul pianeta (secondo quella che lui definisce la prospettiva di un’«Antropocene alla moda»), ma come «l’espressione specifica dell’organizzazione capitalistica del lavoro» (p. 35). Questa organizzazione è finalizzata all’accumulazione del capitale e alla riproduzione della forma-valore, che si afferma «attraverso una dialettica di sfruttamento e appropriazione» (p. 45): sfruttamento del «lavoro sociale astratto» (il lavoro retribuito nella sfera della produzione) e appropriazione della «natura sociale astratta» (il lavoro non retribuito nella sfera della ri-produzione). Recependo la lezione del femminismo marxista, Moore sostiene così che «la condizione della trasformazione teorica del lavoro (retribuito) in valore è la svalutazione della maggior parte del lavoro (non retribuito)» (p. 75;  il riferimento è a M. Dalla Costa, S. James, Potere femminile e sovversione sociale, Padova, Marsilio, 1972). Per lui, in ultima analisi, il dominio sulla natura è riconducibile al dominio sul lavoro e alla sua riduzione a lavoro astratto. Cfr. anche Id., Ecologia-mondo e crisi del capitalismo. La fine della natura a buon mercato, Verona, Ombre corte, 2017.

[47] R. Keucheyan, I bisogni artificiali. Come uscire dal consumismo, Verona, Ombre corte, 2021.

[48] M. Pezzella, L’inconscio sociale, cit.

[49] F. Chicchi, A. Simone, La società della prestazione, Roma, Ediesse, 2017.

[50] Cfr. M. Lazzarato, Il governo dell’uomo indebitato, Roma, Deriveapprodi, 2013. Per una ripresa del tema, cfr. il mio A. Simoncini, Democrazia senza futuro. Scenari dall’interregno postdemocratico, Milano, Mimesis, 2018, pp. 193-226.

[51] W. Brown, In the Ruins of Neoliberalism, New York, Columbia University Press, 2019; M. Revelli, La politica senza politica. Perché la crisi ha fatto entrare il populismo nelle nostre vite, Torino, Einaudi, 2019.

[52] I. Dominijanni, La trappola sovranista, in «Parolechiave», 3, 2020, pp. 17-34; Id., L’ultima maschera del neoliberalismo, in «Jacobin», 8, 2020, pp. 26-34; P. Dardot, H. Guéguen, C. Laval. P. Sauvêtre, Le choix de la guerre civile. Une autre histoire du néolibéralisme, Paris, Lux, 2021;  A. Simoncini, Populism and neoliberalism. Notes on the morphology of a «perverse alliance», in «Interdisciplinary Political Studies», 2, 2021, pp. 63-95.