Per una dialettica della musica elettronica. Una prospettiva adorniana – di Andrea L. Mazzola

Per una dialettica della musica elettronica. Una prospettiva adorniana – di Andrea L. Mazzola

13 Febbraio 2022 Off di Francesco Biagi

La dialettica del materiale musicale, analizzata da Adorno in Filosofia della musica moderna[1], rappresenta il tentativo di cercare una sintesi tra condizioni storico-sociali, stadio della tecnica, e sviluppo delle modalità di composizione. Tutta la musica (colta o popolare che sia) si scontra con il problema del materiale musicale. Sia che la destinazione della composizione sia il salone da ballo o la sala da concerto, il problema della successione degli accordi, dell’organizzazione interna dei suoni, delle progressioni armoniche è un fatto ineludibile, così ineludibile che a volte si tende a considerarlo come un fatto naturale: da ciò derivano le regole rigide dell’armonia occidentale, la valutazione qualitativa dei toni della scala, la correttezza, o meno, dei vari rapporti tonali. Eppure, ci ammonisce Adorno, «la seconda natura del sistema tonale è un’apparenza formatasi nel corso della storia»[2]: per il pensatore francofortese non v’è dubbio che nulla si dà al di fuori del divenire storico, dato che è l’esistenza stessa della storia che testimonia il tentativo dell’uomo di dominare la natura e, attraverso questo dominio, di annullare la sua incomprensibile immutabilità, la sua spaventosa neutralità e indifferenza, nel tentativo supremo dello spirito di soggiogare l’insensata alterità di quel «qualcosa di estraneo in cui lo spirito non si ritrova»[3]. In questa dialettica, tuttavia, la natura acquista senso soltanto come testimonianza della vittoria dello spirito su di essa (la natura, d’altronde, è per sua stessa essenza ciò che è privo di senso), di conseguenza non può esistere nessun sostrato musicale che possa dirsi naturale, la sua stessa esistenza e concettualizzazione è condizionata dall’intervento umano. Si tratta del carattere dialettico dell’opera d’arte, la cui «immanente storicità» è proprio rappresentata dalla «dialettica di natura e di dominazione della natura»[4]. Il materiale musicale, dunque, non è nemmeno pensabile al di fuori della dialettica immanente tra téchne e natura, che rivela l’opera d’arte musicale come storicamente determinata e in stretta relazione con la natura sociale dell’atto stesso del comporre: «la lotta dialettica del compositore con il materiale è anche lotta con la società, proprio nella misura in cui quest’ultima ha migrato nell’opera e non sta più di fronte alla produzione artistica come un fattore puramente esteriore o eteronomo»[5]. Seguendo il ragionamento di Adorno, dunque, il materiale musicale è «spirito sedimentato, qualcosa di socialmente preformato dalla coscienza stessa dell’uomo»[6]. Questo, in parte, lo allontana da Schönberg, secondo il quale nel materiale musicale sussisterebbe, comunque, un carattere di naturalità; ad essere determinato storicamente è l’intervento umano su di esso, ma il sostrato, la materia dei suoni, in quanto indifferente e indistinto sarebbe al pari della creta nelle mani del vasaio. Egli riduce infatti il fatto musicale (e in generale il fatto sonoro) al rapporto tra la serie degli armonici che lo compongono[7]. Per Schönberg, dunque, il compositore interviene su un materiale sonoro preesistente, indifferenziato, e agisce combinando in rapporti diversi il contenuto armonico del suono: è sulla base di questa combinazione che si ottengono gli effetti (storicamente determinati) di consonanza e dissonanza[8]. È noto che per Adorno la dissonanza assume un valore estetico-sociologico di importanza fondamentale, essa esprime: «il dolore non trasfigurato dell’uomo»[9], essa è la «registrazione sismografica di chocs traumatici»[10]. La lacerazione dello spazio sonoro – oramai privato della quiete accomodante degli accordi consonanti – si fa così espressione e concrezione spirituale dell’angoscia e della solitudine dell’uomo contemporaneo, alienato in un mondo che non comprende più, che lo ricaccia nella solitudine e nell’isolamento, e l’opera d’arte non può dunque che tradire se stessa immergendosi nelle stesse contraddizioni, recidendo ogni legame conciliante con la sfera sociale, e assurgendo così allo status d’ opera d’arte autentica. La dialettica musicale di Adorno, tuttavia, può essere a mio avviso un fecondo paradigma d’analisi anche per tentare di condurre un discorso estetico-interpretativo relativo a fenomeni musicali posteriori alle avanguardie storiche novecentesche. Un caso interessante è il tentativo di applicare il discorso adorniano a una delle più peculiari, e storicamente feconde, rivoluzioni musicali della contemporaneità: la rivoluzione, cioè, inaugurata dall’avvento della musica elettronica.

L’introduzione delle rivoluzioni tecniche e tecnologiche all’interno della prassi compositiva rispondeva ad esigenze interne dello sviluppo musicale che erano le stesse che spingevano Schönberg a oltrepassare i limiti della scala tonale: si trattava cioè del processo di liberazione del materiale sonoro, di totale rifondazione della prassi compositiva, e ciò implicava parimenti non solo una figura tutta nuova di compositore, ma anche una nuova idea di musica, di ripensamento dei suoi elementi costitutivi, e di una diversa relazione tra compositore e materiale sonoro. Se nella prassi dodecafonica il rapporto tra compositore e materiale era quello di un artigiano di fronte a una materia inerte e indifferente (in cui la soppressione della naturalità supposta – la consonanza – lasciava spazio alla naturalità effettiva, cioè l’indifferenza tra i vari suoni), adesso il compositore si fa creatore e artefice anche di quel materiale musicale, il quale non sta più davanti al compositore, ma viene da esso creato e plasmato. L’avvento degli oscillatori, ovvero di circuiti capaci di generare forme d’onda, contenuti sonori che potevano anche essere estremamente semplici, apriva a possibilità fin lì inimmaginabili: se fino a quel momento il timbro (una delle qualità primarie dei suoni, assieme ad altezza e intensità) veniva determinato dalle qualità fisiche degli strumenti o dalla loro combinazione (si pensi alle ricerche timbriche nella Verklärte Nacht op. 4 di Schönberg, o anche alla più contemporanea composizione di György Ligeti, Atmosphères, in cui la qualità sonora della composizione – che ricorda, appunto, gli strumenti elettronici – viene raggiunta attraverso il sapiente impiego e combinazione di strumenti tradizionali), adesso era possibile agire direttamente sulla sorgente della fonte sonora: se la corda del violino produceva un suono, che poteva essere scomposto nelle sue componenti armoniche elementari, adesso si poteva seguire il percorso inverso: era possibile agire direttamente sulle componenti armoniche elementari e – qualora lo si fosse voluto – ricreare il suono della corda di violino.

La rivoluzione della musica elettronica, com’è ovvio, non fu un accadimento immediato, e costituisce lo sviluppo più estremo del processo storico di progressiva liberazione del materiale sonoro, processo che subisce una brusca accelerazione durante il tardo romanticismo. Un importante precursore teorico fu l’italiano Ferruccio Busoni (1866-1924) il quale scrisse il seminale opuscolo Abbozzo per una nuova estetica musicale[11]. In questo breve ma denso scritto Busoni parla esplicitamente di una tendenza della musica a liberarsi da ogni vincolo del passato: «La musica è nata libera e divenir libera è il suo destino»[12]. Egli sostiene anche la necessità di liberarsi dai vincoli delle scale tonali alla ricerca di divisioni ancora più piccole del semitono[13], in ciò anticipando ciò che sarà possibile grazie alla sintesi sonora, che permette di prescindere dall’intonazione e dalla divisione della sola scala temperata; intuisce anche l’importanza dell’introduzione del mezzo tecnico nel processo compositivo e comprende che la vera rivoluzione non è solo comporre regole per “far suonare assieme” i suoni, quanto padroneggiare il modo per “produrli”[14]. Un’altra tappa fondamentale di questo sviluppo passa sempre dall’Italia grazie all’opera innovativa del pittore futurista Luigi Russolo (1885-1947) il quale propone di abbattere ogni barriera che divide ciò che può essere considerato “rumore” dal suono vero e proprio. È interessante notare come anche Russolo leghi indissolubilmente il problema del progresso musicale al il progresso della tecnica: «Questa evoluzione della musica è parallela al moltiplicarsi delle macchine che collaborano dovunque coll’uomo. Non soltanto nelle atmosfere fragorose delle grandi città, ma anche nelle campagne, che furono fino a ieri normalmente silenziose, la macchina ha oggi creato tante varietà e concorrenza di rumori, che il suono, nella sua esiguità e monotonia, non suscita più emozione»[15]. Ciò che colpisce, in Russolo, è l’intuizione secondo cui per fare musica basta poter padroneggiare il substrato naturale che la rende possibile, ovvero le vibrazioni acustiche. Da un punto di vista strettamente fisico, osserva Russolo, non vi è alcuna differenza tra una nota intonata dalla corda del violino o un rumore metallico, si tratta in entrambi i casi di vibrazioni acustiche, la cui unica differenza è rappresentata dalla loro organizzazione: nel caso dei suoni abbiamo delle vibrazioni regolari, nel caso dei rumori, invece, si tratta di vibrazioni irregolari e disordinate. Questo principio è molto evidente se consideriamo le due principali fonti sonore dei sintetizzatori analogici: gli oscillatori e i noise generators. I primi sono in grado di generare forme d’onda – che Russolo avrebbe correttamente indicato come suoni –  le quali se visualizzate in un oscilloscopio assumono un aspetto regolare, costante e periodico. Il rumore, invece, viene caratterizzato da oscillazioni irregolari, intermittenti o casuali: come appare evidente se osserviamo lo spettrogramma del rumore bianco. Russolo a tal proposito continua: «il rumore […] si differenzia dal suono solo in quanto le vibrazioni che lo producono sono confuse ed irregolari, sia nel tempo che nella intensità. Ogni rumore ha un tono, talora anche un accordo che predomina nell’insieme delle sue vibrazioni irregolari. Ora, da questo caratteristico tono predominante deriva la possibilità pratica di intonarlo, di dare cioè ad un dato rumore non un solo tono ma una certa varietà di toni, senza perdere la sua caratteristica, voglio dire il timbro che lo distingue»[16]. Russolo si cimenta anche nel campo della sperimentazione pratica e si applica nella costruzione di ingegnosi apparecchi, chiamati appunto Intonarumori, capaci di generare suoni acustici controllandone la dinamica, il volume e la frequenza. Al di là del risultato di queste sperimentazioni, di cui purtroppo ci restano poche testimonianze – gli Intonarumori originali andarono perduti dopo la guerra, sebbene esistano delle repliche degli strumenti conservate in Italia, nei Paesi Bassi e negli Stati Uniti – ciò che è estremamente interessante è l’intuizione secondo cui ogni fenomeno acustico poteva essere “intonato”, cioè utilizzato per comporre musica. Busoni e Russolo non si sono mai cimentati in composizioni elettroniche, tuttavia le loro intuizioni sono fondamentali per i successivi sviluppi musicali e prefigurano i due principi che guideranno, lungo tutto il Novecento, lo sviluppo della musica elettronica: la profondissima dialettica tra materiale musicale e mezzo tecnico (che sarà di fondamentale importanza per lo sviluppo stesso degli strumenti musicali, nonché per lo sviluppo delle tecniche compositive) e la totale liberazione del materiale sonoro, quel materiale musicale che, sebbene considerato da Adorno esclusivamente dal punto di vista della sua determinatezza storica, si avvicina qui allo stato di naturalità e d’indifferenza, in accordo alle intuizioni di Schönberg[17]. Il legame indissolubile tra lo sviluppo del mezzo tecnico e del progresso delle tecniche compositive si concretizza nel tentativo di creare nuovi strumenti musicali in grado di dar corpo alle intuizioni dei compositori, e lo sviluppo tecnologico, vedremo, influenzerà non soltanto la musica elettronica colta (come nel caso dell’avvento dei registratori a nastro, che saranno fondamentali per lo sviluppo della musica concreta) ma anche, e in maniera decisamente rilevante, anche la musica elettronica di consumo, come la musica d’intrattenimento  e le colonne sonore cinematografiche.

Il primo sintetizzatore mai costruito, il grandioso Telharmonium, ideato da Thaddeus Cahill intorno al 1897 (a cui fa riferimento Busoni nel suo Abbozzo per una nuova estetica musicale, cfr. nota 14), fu infatti destinato alla produzione (e riproduzione) di musica perfettamente inserita nel repertorio tonale: notissimi capolavori del repertorio classico e brani di popular music. Il primo ingresso dello strumento elettronico, dunque, avviene nel territorio consueto della musica tradizionale: esso rappresenta più una rivoluzione tecnica che una rivoluzione concettuale, sebbene ne costituisca la base e, alla luce dei successivi eventi, fu di un’importanza incalcolabile. Innanzi tutto dal punto di vista tecnico esso costituisce la base del funzionamento di tutti gli strumenti elettronici ed elettroacustici successivi: funzionava attraverso ruote foniche e induttori capaci di generare correnti alternate di varie frequenze, dei pick-up elettromagnetici captavano le frequenze generate trasformandole in segnale elettrico e in seguito un circuito di amplificazione le riproduceva sotto forma di suono. Si tratta dello stesso funzionamento dell’organo costruito da Laurens Hammond nel 1935, costituisce inoltre il principio di funzionamento di tutti gli strumenti elettroacustici ed elettromeccanici: chitarre elettriche, piani e organi elettrici. Il suo visionario inventore aveva anche immaginato un originale e assolutamente innovativo sistema di broadcasting attraverso la linea telefonica,  e a cui si sarebbe potuto accedere tramite sottoscrizione di un abbonamento. All’inizio i primi sottoscrittori furono locali pubblici, come i ristoranti, in seguito si aprì la possibilità di sottoscrizioni private. Mark Twain, pochi giorni dopo aver installato il telefono nella sua abitazione nel 1877, fu il primo sottoscrittore privato del servizio[18]. Si trattava, in sostanza, di un lontanissimo antenato di Spotify e dei contemporanei servizi musicali di streaming. Il sistema che permetteva al Telharmonium di funzionare, tuttavia, era estremamente ingombrante e costoso, e arrecava disturbo alle regolari linee telefoniche. Esso quindi fallì e fu in seguito smantellato.

Il primo strumento musicale elettronico che godette di grandissima fama presso il pubblico fu il Theremin. Esso fu inventato dall’ingegnere elettronico russo e violoncellista Lev Sergeyevich Termen (1896-1993), il cui nome fu appunto anglicizzato in Leon Theremin. Fu brevettato tra il 1924 e il 1925 e fu per la prima volta suonato pubblicamente negli Stati Uniti nel 1927[19]. Si trattava di uno strumento del tutto peculiare, il quale aveva la caratteristica di non richiedere che il musicista lo toccasse: il suono veniva controllato attraverso il movimento delle mani nelle prossimità delle sue antenne. Sebbene fu utilizzato anche nella musica colta, gran parte della sua fama si deve tuttavia al fatto che fu impiegato ampiamente nell’ambito del repertorio disimpegnato e popolare. Ciò contribuì attivamente a far sì che l’elettronica cominciasse a entrare nel mercato mainstream.  Il famosissimo thereminista Samuel J. Hoffmann incise alcuni importanti dischi assieme a Leslie Thompson Baxter (1922-1996), conosciuto come Les Baxter, che mischiavano le sonorità futuristiche rese possibili dal Theremin con tipiche melodie easy-listening: Music Out of the Moon (1947), composto da Harry Revel (1905-1958), è un classicissimo disco lounge, con sonorità space-pop assolutamente convenzionali, così privo di “guizzi” che non si fatica a immaginarlo come sottofondo in un lussuoso ristorante; accompagna, senza disturbare. Sempre di Samuel J. Hoffmann è Music for peace of mind (1950), altro classico del lounge. Anche nell’ambito della musica classica il Theremin veniva utilizzato nel più tradizionale dei modi: virtuosi come Clara Rockmore (1911-1998) portarono alla fama lo strumento attraverso l’incisione di classici intramontabili della musica colta occidentale (già ampiamente sedimentati nella tradizione) come Il cigno di Saint-Saëns o il valse sentimentale di Tchaikowskij[20]. L’utilizzo dello strumento era così convenzionale che John Cage affermò: «Quando Theremin ha fornito uno strumento con nuove possibilità, i thereministi hanno fatto il possibile per farlo suonare come un vecchio strumento, dandogli uno stucchevole e dolce vibrato, e suonando su di esso, con difficoltà, i capolavori del passato. Sebbene lo strumento sia capace di una grande varietà di qualità sonore […] i thereministi hanno agito come dei censori, dando al pubblico solo quei suoni che pensavano esso avrebbe gradito»[21]. Credo che qui sia possibile assistere a quel fenomeno, che sarà evidentissimo nei decenni dello sviluppo del sintetizzatore analogico, della standardizzazione e feticizzazione del suono elettronico. Il Theremin, sebbene capace di infinite possibilità sonore, fu ridotto e reificato in un solo e riconoscibilissimo timbro, che costituiva la “cifra” stilistica dei dischi e delle performance che ne facevano uso. Divenne, insomma, un marchio. E ancora oggi il Theremin, così prevedibile e riconoscibile, viene utilizzato nelle produzioni contemporanee allo stesso modo: per produrre, cioè, delicate ed eteree melodie cantabili, simili a un violoncello. Si potrebbe dire, dunque, che il mezzo tecnico in sé sia più importante della musica con esso prodotta. L’elemento di novità, dunque, non stava affatto nella nuova musica resa possibile dallo strumento tecnico, ma dallo strumento tecnico in sé. Questo fenomeno, vedremo, accompagnerà tutto il successivo sviluppo della musica elettronica popolare, cioè rivolta ad un pubblico di massa, e non riservata a una piccola cerchia di pubblico colto e avvezzo alle avanguardie.

La musica colta, infatti, aveva nel frattempo preso tutt’altra direzione. I compositori del primo novecento avevano deciso di portare alle estreme conseguenze quel processo di progressiva liberazione del materiale sonoro: si dedicarono interamente al processo di liberazione tonale, grazie alle nuove acquisizioni tecniche rese possibili, innanzi tutto, dall’utilizzo del registratore a nastro e dallo sviluppo della sintesi. I nuovi orizzonti sonori prendevano forma in quelli che furono i centri nevralgici della musica d’avanguardia in Europa: lo studio del Groupe de Recherches Musicales a Parigi, dove lavorarono Pierre Schaeffer e Pierre Henry, pionieri della musica concreta, e lo Studio für Elektronische Musik di Colonia, che annoverava tra i suoi illustri membri Karlheinz Stockhausen e Gyorgy Ligeti[22]. Sebbene i due studi interpretassero in maniera differente il paradigma della liberazione del materiale sonoro (la manipolazione di suoni preesistenti nel caso della musica concreta a Parigi e la sintesi puramente elettronica dei suoni nello studio di Colonia) la predominanza estetica ed ontologica era sempre il suono, e non il mezzo tecnico atto a produrlo.  Mentre il Theremin, dunque, si configurava come estrema feticizzazione dello strumento, gli esperimenti di Colonia e di Parigi, al contrario, si focalizzavano maggiormente sul processo compositivo in sé: sia nel caso in cui esso fosse caratterizzato da un approccio più libero ed espressivo come nel caso della musica concreta, oppure governato da un approccio più rigoroso, come nel caso della elektronische Musik di Colonia. Adorno non mancherà tuttavia di mettere in evidenza come, anche nel caso della musica elettronica d’avanguardia, il pericolo della feticizzazione sia sempre dietro l’angolo, e la radice di tale processo, in accordo a quanto descritto nella Dialettica dell’Illuminismo, è sempre il carattere totalitario della tecnica: «Si può ammettere che […] il materiale compositivo è stato mondato dalle scorie e dai residui del passato, e che oggi si chiude forse la possibilità di una scrittura rigorosa: ma resta sempre da chiedersi se questa purificazione da ogni possibile scoria non minacci, più che giovare alla musica in sé, di mettersi al servizio di una mentalità tecnocratica che, con i suoi zelanti sforzi per prendere consistenza, fa presentire qualcosa di troppo reciso, di forzato e insomma di anti-artistico»[23]. Anche il processo stesso di liberazione del materiale, secondo Adorno, non sfugge alla dialettica di reificazione; esso giunge allo stesso rivolgimento dialettico a cui erano destinati la dodecafonia e, come suo epigono, il serialismo: «[…] la sopravvalutazione del materiale, che si mantiene pervicacemente in vita, […] induce […] a credere che l’allestimento di materie prime musicali sia né più né meno che musica. Nella razionalizzazione si cela un pessimo fattore irrazionale, la fiducia, cioè, che una materia astratta possa avere un significato in se stessa: ed è invece il soggetto che si misconosce in essa, mentre esso solo potrebbe cavarne un senso»[24]. Adorno ravvisa dunque nelle tendenze della musica d’avanguardia una totale scomparsa del soggetto, una spersonalizzazione estrema la quale, tuttavia, non viene sublimata nel carattere espressivo che Adorno ritrova invece nelle composizioni dodecafoniche. Il soggetto è stato completamente assorbito dal procedimento tecnico, è stato sussunto dal processo, senza per questo riuscire a esprimere alcunché se non il processo stesso: «La razionalità estetica dei mezzi non raggiunge l’ideale matematico né domina la realtà: l’unico risultato è così una mimesi di procedimenti scientifici, una specie di moto riflesso sul predominio scientifico, che tanto più spietatamente mette in luce la differenza tra arte e scienza quanto più la prima si dimostra impotente di fronte all’ordinamento razionale del reale. Un’arte scientifica e null’altro che scientifica si ridurrebbe ad essere un’analogia dell’industria, ad onta di ogni severità di atteggiamento»[25]. Sembrerebbe dunque che le tendenze intrinseche della musica d’avanguardia costituiscano un’anticipazione di quella feticizzazione della tecnica e dello strumento che ritroveremo  nella musica elettronica popolare a cavallo tra gli anni ‘50 e gli anni ‘80: la liberazione timbrica si ridurrà a una standardizzazione delle possibilità sonore, così come la feticizzazione dello strumento porterà a un progressivo ingresso della concorrenza di mercato nella produzione di sintetizzatori.

Si è detto che negli strumenti elettronici la fonte sonora è costituita da un oscillatore, il quale assolve lo stesso compito di una corda di chitarra o di violino, cioè quello di produrre materialmente un suono. L’oscillatore produce forme d’onda di frequenza e periodicità variabile; queste variazioni vanno a costituire il numero di armonici presenti nel suono risultante e, di conseguenza, la sua natura timbrica. Agli albori della sintesi la tecnica più utilizzata era quella di sommare tra di loro diverse forme d’onda semplici: si parla in questo caso di sintesi additiva[26]. Questa tecnica di sintesi permetteva di ricreare virtualmente qualsiasi timbro, e le sue possibilità espressive erano pressoché infinite (era, tra i tanti, uno degli approcci tecnici per la progettazione timbrica impiegato a Colonia). Tuttavia, sebbene la sintesi additiva rivesta una fondamentale importanza per lo sviluppo della musica elettronica, essa, a causa dell’intrinseca difficoltà del procedimento, rimase confinata agli studi musicali e venne usate principalmente dai professionisti che in essi operavano. L’acquisizione tecnica che contribuì a rendere accessibile il procedimento di sintesi anche ai musicisti non accademici e meno avvezzi alle complesse strumentazioni è sicuramente  l’introduzione della sintesi sottrattiva, la quale è inseparabile dallo strumento che ne ha fatto la storia: il sintetizzatore Moog. Concepito dall’ingegnere statunitense Robert Moog (1934-2005) si tratta indubbiamente del sintetizzatore più influente dell’intera storia dell’elettronica. La caratteristica più innovativa era rappresentata dal fatto che, per la prima volta, era possibile fissare in uno standard il processo di sintesi sonora, e renderlo “relativamente” accessibile[27]. Questo processo di sintesi funzionava in maniera sensibilmente diversa dalla già citata sintesi additiva: invece di sommare tra di loro diverse forme d’onda semplici, adesso era possibile partire da forme d’onda complesse (quindi più ricche di armonici) e “filtrarle” progressivamente, attraverso il passaggio del segnale in una serie di circuiti, fino a ottenere il suono desiderato: da qui il nome di sintesi sottrattiva[28]. Rispetto alla sintesi additiva si trattava, indubbiamente, di un metodo più semplice, più economico dal punto di vista costruttivo (non servivano decine di oscillatori, come nel caso della sintesi additiva, ma molti meno), più immediato e che apriva alla possibilità, per nulla scontata, di poter intervenire sul suono dal vivo, facendo uscire l’elettronica dalla dimensione di musica da studio. Ciò ha però rappresentato, parimenti, una progressiva standardizzazione del materiale sonoro. Le forme d’onda utilizzate erano  (e sono tutt’ora) grossomodo quattro: sinusoide, triangolare, quadra e a dente di sega (così chiamate in virtù della forma che assumono se osservate all’oscilloscopio), enumerate in ragione del numero crescente di armonici. Da questo momento in poi, e per molti anni, il suono elettronico sarebbe stato ricondotto a queste forme d’onda fondamentali (e poche altre). Persino il processo di filtraggio assumeva estrema importanza per la definizione della pasta sonora: era impossibile non riconoscere un filtro passa-basso Moog. Il processo di reificazione del materiale, in questo modo, andava a interessare non solo il suono di per sé, ma anche lo sviluppo degli strumenti musicali, i quali iniziavano ad assumere caratteristiche standard e ad entrare prepotentemente in competizione sul mercato: la musica elettronica faceva così il suo ingresso nell’industria di consumo. Un caso discografico emblematico di questo processo è, senza ombra di dubbio, Switched-On Bach di Wendy Carlos. Pubblicato nel 1968 esso rappresenta forse l’esempio più eclatante di crossover tra musica classica tradizionale e musica elettronica: si tratta dell’esecuzione di noti brani di J.S. Bach interpretati, però, al sintetizzatore Moog. Il risultato sonoro è spiazzante: sebbene risulti ovvio che non si è in presenza di strumenti acustici, è tuttavia impossibile negare il sound  decisamente “barocco” del disco. Anche la copertina contribuisce ad alimentare quest’ambiguità: un personaggio in costume d’epoca (presumibilmente Bach stesso) sta seduto di fronte ad un sintetizzatore. Anche l’artwork dunque, pone in maniera evidente l’assoluta predominanza del mezzo tecnico: il disco è interessante e degno d’ascolto non tanto perché riproduce l’opera musicale di Bach, ma perché viene suonato su un sintetizzatore Moog. Il successo fu tale che Wendy Carlos ci riprovò l’anno successivo con The Well-Tempered Synthesizer. Nel frattempo, nello stesso anno, iniziarono a essere pubblicati moltissimi dischi la cui cifra stilistica principale era proprio quella di presentare esecuzioni sul Moog, e alcuni erano espliciti fin dal titolo: Moog: The electric eclectics of Dick Hyman dell’omonimo compositore,  The Moog Strikes Bach di Hans Wurman, Music to Moog By di Gershon Kinglsey, Moog Power di Hugh Montenegro, e molti altri[29]. Era palese che il sintetizzatore aveva oramai assunto un ruolo centrale nella produzione di musica elettronica la quale aveva così abbandonato la musica colta d’avanguardia ed era definitivamente entrata nel mondo mainstream. Il Minimoog Model D fu uno strumento onnipresente nelle produzioni rock degli anni ‘70, riconoscibile al pari di un Hammond e di un Fender Rhodes. Lo strumento elettronico era diventato a tutti gli effetti uno strumento tradizionale, con una timbrica estremamente riconoscibile: al Moog (e in generale al sintetizzatore) era toccato lo stesso destino che fu del Theremin. La riconoscibilità del Moog portò, con gli anni, alla nascita di brand concorrenti, i quali cominciavano a ritagliarsi una quota di mercato. Sembra quasi ozioso ricordare storici sintetizzatori come l’ARP Odissey o l’EMS VCS3, quest’ultimo utilizzatissimo in ambito anglosassone. Nel frattempo Wendy Carlos lavorava alla colonna sonora di A Clockwork Orange (1972)[30] di Stanley Kubrick, consolidando quel legame tra musica elettronica e mondo dell’arte visiva già inaugurato con The Forbidden Planet (1956)[31] di Frank M. Wilcox e, ancora prima, con Spellbound (1945)[32] di A. Hitchcock. Persino un autore pop come George Harrison si cimentò nell’elettronica con il singolare album Electronic Sound del 1969 la cui copertina, in bella vista, mostrava un sintetizzatore modulare, riproducendo formalmente quanto già osservato in Switched-On Bach. La musica elettronica, grazie al sintetizzatore (che pure continuava a godere di un impiego “serio”; Stockhausen, ad esempio, utilizzava nello studio di Colonia il sistema modulare EMS Synth 100) era definitivamente uscita dalle sale da concerto e saliva sui palchi dei concerti dal vivo. All’alba degli anni ‘80 la musica elettronica era dunque pienamente inserita nel mercato di consumo dell’intrattenimento, sebbene non mancarono i tentativi di lanciare sul mercato discografico lavori di natura decisamente più avanguardistica. Val la pena ricordare la scuola di Berlino, con Klaus Schultze (1947-) e i Tangerine Dream, o la scena krautrock che annovera i Popol Vuh tra i suoi massimi esponenti (i quali collaborarono con il regista Werner Herzog per la realizzazione della colonna sonora di Aguirre, der Zorn Gottes del 1972).

Sarebbe complesso continuare a seguire la storia dell’elettronica dagli anni ‘80 in poi; i suoi diversi e multiformi sviluppi non ci permettono, in questa sede, di ripercorrerne la storia nemmeno per sommi capi. Credo, tuttavia, che la traccia qui abbozzata possa costituire prospettive di ricerca interessanti. Abbiamo visto che nella musica elettronica, la quale prometteva la completa liberazione del materiale musicale (quel materiale musicale così importante sia per la riflessione di Adorno che per le teorizzazioni dei compositori novecenteschi[33]), si assiste allo stesso processo di standardizzazione e reificazione che il pensatore francofortese ravvisava già negli esperimenti atonali e dodecafonici della musica radicale della Scuola di Vienna. Nel noto saggio Il carattere di feticcio della musica e il regresso nell’ascolto del 1938, poi raccolto in Dissonanze, il filosofo aveva affermato che «il nuovo feticcio è l’apparato in sé, che funziona con perfezione e risplende come metallo, nel quale tutte le rotelline combaciano con tale regolarità che non resta più nemmeno uno spiraglio per il vero senso dell’insieme»[34] e qualche pagina dopo, riferendosi al timbro: «nella predilezione per il timbro in quanto tale è ovviamente in giuoco la venerazione manuale per lo strumento e lo stimolo di partecipazione ed imitazione, ma forse anche qualcosa del profondo rapimento che i bambini provano per gli oggetti colorati: e questo fenomeno si ripresenta sotto la pressione dell’attuale esperienza musicale»[35]. In questi passaggi Adorno si sta riferendo, in particolar modo, alla prassi musicale jazzistica, per la quale ebbe sempre una forte idiosincrasia. Tuttavia, senza voler forzare le parole del filosofo ma rintracciandone un’unica matrice concettuale, un unico impianto sistemico, si può vedere come sia possibile applicare questo schema interpretativo anche agli sviluppi della musica elettronica: il feticismo per l’apparato e per la tecnica (nella sua doppia declinazione, sia in relazione alla reificazione di una prassi compositiva astratta e cervellotica nel caso della musica colta, sia rispetto alla feticizzazione dello strumento tecnico, come nel caso del Theremin e del sintetizzatore) si sostituiscono pian piano a quelle istanze emancipatorie che erano rappresentate dalla possibilità di liberare il timbro non solo dalle limitazioni dell’armonia e della tonalità, ma finanche delle possibilità armoniche degli strumenti musicali. Le promesse di liberazione rappresentate dalla musica elettronica e, in generale, dai tentativi più radicali della musica d’avanguardia avrebbero dunque fallito nel loro intento. A parere di chi scrive, tuttavia, l’applicazione di questo paradigma non corrisponde necessariamente a giudizi estetici di condanna o assoluzione. Ciò che credo sia invece interessante è la possibilità di lettura di un fenomeno complesso, come è la nascita e lo sviluppo dell’elettronica, alla luce di una teoria sistemica che ci permette di inquadrarlo all’interno del rapporto – non certamente trascurabile – tra materiale musicale ed esigenze di mercato. Sembrerebbe che, seguendo Adorno, non sia possibile trovare alcuna via d’uscita dal carattere totalitario della società contemporanea che, conseguentemente, coinvolge anche lo sviluppo delle arti in generale e della musica in particolare. Riconoscere i fenomeni di reificazione all’interno dello sviluppo musicale, tuttavia, ci può consentire di immaginare forme musicali auto-critiche, capaci di farsi carico di queste lacerazioni dialettiche, anche all’interno della popular music (e la storia non è priva di prodotti musicali i quali, sebbene concepiti espressamente per il mercato discografico, hanno tuttavia rivendicato la natura autonoma e critica del prodotto artistico, come la già ricordata Scuola di Berlino o alcune esperienze decisamente recenti, come alcuni sviluppi dell’ambient e dell’IDM). Se si volesse proseguire la presente ricerca, continuare questo tentativo interpretativo e critico, si potrebbero prendere in considerazione le parole dello studioso Max Paddison il quale afferma: «sebbene la teoria di Adorno possa contenere un “potenziale nascosto” che permette di pensare una popular music critica e auto-riflessiva, una tale musica si scontrerebbe inevitabilmente con la contraddizione più importante della sua teoria: l’alienazione che caratterizza tutta la musica d’avanguardia, indipendentemente dall’origine del suo materiale musicale, nella frattura crescente tra le due categorie […] che sono da una parte la musica che accetta il suo destino di essere merce e, dall’altra, la musica che a ciò si oppone. Se la diagnosi di Adorno relativa alla situazione della musica nel ventesimo secolo è corretta […] allora una musica critica, auto-riflessiva, che utilizza il materiale della popular music, non può più fuggire dalla contraddizione formulata da Adorno, non più della più seria musica d’avanguardia»[36].  Se queste parole corrispondono a verità, dunque, a maggior ragione può essere utile il tentativo, che certamente non può dirsi esaurito in questa sede, di ricercare questo potenziale nascosto proprio in quel genere musicale – la musica elettronica – il quale, forse più di tutti, incarna le istanze liberatorie del materiale musicale, lo decostruisce, lo ricompone, pur coscienti della possibilità del fallimento e del rivolgimento totalitario e reificato: possibilità che è, tuttavia, la vera sfida della riflessione di Adorno sulla musica.

 

[Si ringrazia il mo. Enrico Cosimi per la sua preziosa consulenza tecnica e musicale.]

 

Note:

[1] T.W. Adorno, Filosofia della musica moderna, a cura di G. Manzoni, Einaudi, Torino 2002.

[2] Ibid., p. 16.

[3] G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio: Filosofia della natura, a cura di V. Verra, UTET, Torino 2002, p. 79.

[4] T. W. Adorno, Teoria estetica, a cura di F. Desideri e G. Matteucci, Einaudi, Torino 2009, p. 9.

[5] T.W. Adorno, Filosofia della musica moderna, ed. cit., p. 39.

[6] Ivi.

[7] A. Schönberg, Problemi di armonia, conferenza tenuta alla Berliner Akademie nel 1927, poi riveduta a New York nel 1934, riportata in traduzione italiana in L. Rognoni, La scuola musicale di Vienna. Espressionismo e dodecafonia, Einaudi, Torino 1966, p. 404.

[8] «le espressioni “consonanza” e “dissonanza”, che indicano un’antitesi, sono errate: dipende solo dalla crescente capacità dell’orecchio di familiarizzarsi anche con gli armonici più lontani, allargando in tal modo il concetto di “suono atto a produrre un effetto d’arte” in modo che vi trovi posto tutto il fenomeno naturale nel suo complesso». Cfr. A. Schönberg, Manuale di armonia, a cura di L. Rognoni, il Saggiatore, Milano 2008, p. 24.

[9] «le espressioni “consonanza” e “dissonanza”, che indicano un’antitesi, sono errate: dipende solo dalla crescente capacità dell’orecchio di familiarizzarsi anche con gli armonici più lontani, allargando in tal modo il concetto di “suono atto a produrre un effetto d’arte” in modo che vi trovi posto tutto il fenomeno naturale nel suo complesso». Cfr. A. Schönberg, Manuale di armonia, cit., p. 24.

[10] Ibid., p. 47.

[11] F. Busoni, Entwurtf einer neuen Ästhetik der Tonkunst, I edizione presso Carlo Schmidl, Trieste, 1907; II edizione ampliata Insel-Verlag, Lipsia, 1910 (in realtà 1916). Il testo, la cui traduzione è basata sulla seconda edizione, è consultabile all’indirizzo: https://www.rodoni.ch/busoni/estetica/estetica.html.

[12] Ivi.

[13] «Un caleidoscopio, dove nella camera a tre specchi del gusto, della sensibilità e dell’intenzione, vengono agitati alla rinfusa dodici semitoni: ecco l’essenza dell’odierna armonia. Dell’armonia odierna, e non per molto tempo ancora: perché tutto annunzia una rivoluzione e un prossimo passo verso quella “eterna”. Rendiamoci conto ancora una volta che in questa la graduazione dell’ottava è infinita e sforziamoci di avvicinarci all’infinito almeno di un poco». (Ivi)

[14] «Ritengo il problema della notazione secondario. Importante invece, e impellente, è la domanda come e donde queste note si possano produrre. Fortunatamente mentre mi sto occupando di questa questione ricevo direttamente dall’America una notizia autentica, che risolve il problema nel modo più semplice. È la notizia dell’invenzione del dott. Thaddeus Cahill. Quest’uomo ha costruito un grande apparecchio che permette di trasformare una corrente elettrica in un numero di vibrazioni esattamente calcolato, inalterabile. Poiché l’altezza del suono dipende dal numero delle vibrazioni e l’apparecchio si può regolare in modo da ottenere qualsiasi numero di vibrazioni si voglia, ne risulta che l’infinita graduazione dell’ottava è semplicemente l’opera di una leva che corrisponde all’indice di un quadrante. Soltanto esperimenti coscienziosi e lunghi e una continua educazione dell’orecchio renderanno questo straordinario materiale maneggevole ai fini dell’arte e lo metteranno a disposizione della generazione a venire». (Ivi)

[15] L. Russolo, L’arte dei rumori, 1913, p. 16; edizione digitale liberamente accessibile all’indirizzo: https://www.liberliber.it/mediateca/libri/r/russolo/l_arte_dei_rumori/pdf/russolo_l_arte_dei_rumori.pdf

[16] Ibid., p. 21.

[17] «In electronic music, sound itself becomes the material of composition. The ability to get inside the physics of a sound and directly manipulate its characteristics provides an entirely new resource for composing music. The unifying physics behind all sounds – pitched and unpitched alike – allow a composer to reat all sounds as being materially equal». (Cfr. T. Holmes, Electronic and Expermental music, third edition, Routledge, New York and London 2008, p. 123).

[18] Cfr. M. Brend, The sound of tomorrow, Bloomsbury, New York-London 2012, p. 4.

[19] Cfr. T. Holmes, cit., p. 19.

[20] Le incisioni della Rockmore si possono trovare in Theremin, pubblicato in formato LP nel 1977 dalla Delos Productions e più volte ristampato in formato CD con il titolo The art of the Theremin e in Clara Rockmore’s Lost Theremin Album, una raccolta di inediti d’archivio pubblicata dalla Bridge Records in formato CD nel 2006.

[21] J. Cage, Silence, Wesleyan University Press, Middletown, CT 1961, p. 4. Traduzione mia

[22] «Just like Schönberg unchained a revolution in musical technique by abandoning the traditional tonal system, the composers of the early studios of Paris and Cologne unchained a revolution in musical technology. Through the use of electronics, composers were no longer limited to the traditional timbres of the orchestra». (F. Velema, From technique to technology. A reinterpretation of Adorno’s concept of musical material, https://www.icce.rug.nl/~soundscapes/VOLUME10/From_technique_to_technology.shtml). Non si dimentichi, tuttavia, l’esistenza di un terzo polo di ricerca estremamente importante che aveva sede in Italia: lo Studio di Fonologia RAI presso cui lavorarono, tra gli altri, Luciano Berio, Bruno Maderna e Luigi Nono.

[23] T.W. Adorno, Invecchiamento della musica moderna, in Id., Dissonanze, a cura di G. Manzoni, Feltrinelli, Milano 1990, pp. 158-9.

[24] Ibid., p. 170.

[25] Ibid., p. 175.

[26] Si suppone, ad esempio, che la sintesi additiva fosse alla base del funzionamento del Telharmonium. Cfr. B.K. Shepard, Refining Sound. A practical guide to synthesis and synthesizers, Oxford University Press, New York 2013, p. 65 sgg.

[27] «Moog […] recognized that the synthesis process itself worked through a number of steps or stages, and he began to design instruments with separate sections, or modules, for these various stages. In the early versions of his modular synthesizers, the modules were connected with the same type of cables that telephone and radion engineers used to make temporary connections, or “patches”, in their equipment, The connections and configurations of these “patch cords” created the various sounds of the synthesizer, and so the sound itself began to be knows as a “patch”. And even though synthesizers no longer use these cables, the term is still commonly used to describe an individual sound or preset on a synthesizer» (Ibid., p. 16). In questa sede è doveroso ricordare l’invenzione di Robert Moog che più di ogni altra rivoluzionò completamente il mondo della sintesi sonora e rese nei fatti possibile la sintesi sottrattiva analogica, ovvero l’introduzione del Control Voltage. Esso è un sistema di controllo dei vari componenti del sintetizzatore – i moduli, da cui la denominazione di sintetizzatore modulare – i quali ricevono una tensione elettrica, espressa in Volt, in grado di modificare i loro parametri. Uno dei più importanti impieghi del Control Voltage è rappresentato dalla possibilità di controllare l’intonazione dell’oscillatore (detto appunto VCO, cioè voltage controlled oscillator) attraverso una tastiera. Il sistema di controllo più diffuso è “1 Volt per ottava”, che corrisponde a un aumento o diminuzione della tensione pari ad 1 Volt per ogni ottava coperta. Cfr. R. Moog Voltage-controlled electronic music modules, in “Journal of Advances in Engineering and Science”, vol. 13, n. 3, Luglio 1965, pp. 200-206. L’articolo è consultabile al seguente link: http://www.moogarchives.com/aes01.htm

[28] «Because of the computational efficiency – and much lower cost – of using audio filters rather than multiple oscillators, subtractive synthesizers have become quite popular and were the first instruments to produce the classic synth sounds for which these instruments are now famous. The original Moog synthesizers were subtractive, as were many of their competitors» (Ibid., p. 114).

[29] Cfr. M. Brend, cit., p. 199.

[30] La versione in LP fu pubblicata dalla Columbia Records nello stesso anno.

[31] Colonna sonora di Bebe e Louis Barron, pubblicata in LP nel 1976 dalla Planet Records.

[32] Colonna sonora di Miklós Rózsa, pubblicata in LP nel 1945 dall’American Recording Artists.

[33] «Harmony and melody are no longer abstract systems to be filled with any given sounds we may choose as material. There is a very subtle relationship nowadays between form and material. I would even go so far as to say that form and material have to be considered as one and the same. […] The old dialectic based on the antinomy – or dichotomy – of form and matter has really vanished since we have begun to produce electronic music and have come to understand the nature and relativity of sound» (Cfr. K. Stockhausen, Four criteria of electronic music, in Id., Stockhausen on music. Lectures and interviews, complied by Robin Maconie, Marion Boyars Publishers, London 2000, p. 111).

[34] T.W. Adorno, Il carattere di feticcio della musica e il regresso nell’ascolto, in Id., Dissonanze, cit., p. 30.

[35] Ibid., p. 37.

[36] M. Paddison, The Critique Criticised: Adorno and Popular Music, in “Popular Music”, vol. 2, 1982, p. 218 (traduzione mia).