Il duplice chiarore. La “Montagna magica” di Thomas Mann – di Mario Pezzella

Il duplice chiarore. La “Montagna magica” di Thomas Mann – di Mario Pezzella

21 Dicembre 2021 Off di Francesco Biagi

Nel capitolo Neve della Montagna magica, Thomas Mann cristallizza l’immagine di un tempo sospeso, in cui forze equipotenti sembrano arrestare in una cesura la storia, in una dialettica in stato di sospensione (Stillstand, come diceva Benjamin): è la visione di un duplice chiarore (Zwielicht), che proviene da opposte regioni del cielo, i cui poli sono legati insieme da una irriducibile contesa e da una segreta affinità. Per quanto ancora le due luci resteranno parallele ed immobili?

 

A Ovest era giorno chiaro, una luce diurna decisa, sobria e vitrea; volgendo la testa, però, egli vedeva una notte di luna piena altrettanto nitida, incantata (zauberhafte) oltre ogni dire e ammantata di umide nebbie. Questo singolare contrasto durò poco meno di un quarto d’ora, prima di risolversi a favore della notte e della luna, ma gli occhi abbacinati e incantati (vexierte) di Hans Castorp avevano vagato con serena meraviglia da una luce, da un paesaggio all’altro, dal giorno alla notte e dalla notte di nuovo al giorno (226)[1].

 

Zwielicht si può tradurre semplicemente con “crepuscolo”, ma duplice chiarore rende più esattamente il significato che qui sembra possedere quel termine. Immediatamente esso si riferisce a due antenati, a due nonni, quello di Hans Castorp e quello di Settembrini, entrambi per fedeltà al proprio principio vestiti ostinatamente di nero: per fedeltà al passato morente il primo, per fedeltà a un futuro migliore che tarda il secondo, e accomunati da un unico profondissimo stato d’animo, il rifiuto del tempo presente. Ma al di là di ciò, il duplice chiarore è il vero correlativo oggettivo della situazione emotiva che si diffonde lentamente in tutto il romanzo, con i suoi dualismi irriducibili tra eros e thanatos, fra illuminismo e nichilismo, tra l’Oriente delle pulsioni primordiali e l’Occidente occluso da una forma, da un ordine simbolico in declino. Hans Castorp è il soggetto “diviso” da questa lunga serie di scissioni, e la loro irrisolvibilità sospende il suo tempo. Del resto, si sa fin dall’inizio: abbiamo lasciato la zona degli uccelli canori (8), siamo entrati in una regione in cui si perde «la nozione dei punti cardinali», nel venir meno e nella rarefazione, nella vertigine e nella crisi della presenza, sospesi tra il consueto abbandonato ordine simbolico in decomposizione e l’ignoto: tra le terre basse e il gelo bianco delle montagne.

 

Pare certo[2] che tutto il racconto sia un sogno o un allucinato trascorrere di sogni, originati dal trauma storico della guerra, un delirio ripercorso a ritroso per ritrovare e comprendere l’urto potente che lo ha generato. Forse lo scoppio di una granata che ha immobilizzato il corpo e la mente e li ha retroflessi in una fiaba meravigliosa e funerea, come quelle di Andersen o come le incantate nature di Stifter?

 

Nel dualismo fra Naphta e Settembrini il duplice chiarore sembra divenire piuttosto una doppia oscurazione. Nella decomposizione di un ordine simbolico avvengono strani connubi e ibridazioni che si credevano impossibili. Fa parte dello stato d’animo iniziale del fascismo una venatura anarchica contro l’autorità in disfacimento e i “padri” simbolici in dissoluzione. Hans deve constatare a un certo punto che le tesi dei suoi due mentori si capovolgono e si contraddicono, fino a generare nel suo animo una confusione che intensifica la sospensione della storia e del tempo. Naphta difende il comunismo, ma con argomenti degni di De Maistre e che sembrano piuttosto preludere alla prossima rivoluzione conservatrice tedesca o addirittura al nazismo, oltre che alle purghe staliniane; Settembrini l’illuminista umanista è anche un guerrafondaio e membro di una società segreta a vago sfondo esoterico. Le due bandiere, las dos banderas, come le chiama Naphta in gesuitico linguaggio, sembrano più i due momenti di uno stesso processo di dissoluzione che alternative effettive:

 

Non c’era né ordine né chiarezza, neppure una chiarezza dualistica e militante; tutto si scontrava e si confondeva, e non solo i due litiganti si contraddicevano l’un l’altro, ma cadevano pure in contraddizione con se stessi…Ah, i diversi principi e aspetti si rompevano costantemente le uova nel paniere…grande era la tentazione di gettarsi a capofitto nel caos dell’universo…era tutto un intrecciarsi e sovrapporsi (686-689).

 

Comunque si avrebbe torto a pensare che le due bandiere siano la ragione da una parte e il caos irrazionale dall’altra. Naphta è un casuistico, gesuitico e quasi giuridico difensore del nulla e dell’Ordine Nuovo totalitario fondato sul terrore che dovrebbe scaturirne. Il teologo nichilista non è lontano da una mistica della terra e del sangue, dotata d’altro canto però di una ferrea logica concatenata – Ordo totale purificante coi campi e le purghe.

Quanto a Settembrini il suo sguardo ne rivela l’ossessione interiore e la volontà di potenza. Fragile velo è il suo democratico umanesimo! «Di nuovo i suoi occhi si erano fatti “fissi” avevano assunto una cieca immobilità»; e ancora: «I suoi occhi neri erano rivolti al viso del giovane con un’espressione fissa e ciecamente assorta» (124, 357). Non si apre qui una verità più profonda, una pulsione infrenabile, il fondo indicibile e oscuro del buon retore carducciano? Un’inconfessabile volontà di dominio lo anima, un filo nero ed osceno lo lega al suo complice antagonista. Alla fine, quando le assi del palcoscenico sono proprio corrose, l’umanista, il difensore degli umani e universali diritti esalta la guerra e lascia volentieri il posto all’urlo delle folle rauche. «Guerra, guerra! Lui era d’accordo, e il fatto che il mondo intero la invocasse e la bramasse gli sembrava in qualche modo rispettabile» (1030).

 

In margine. Le tre forme di società dello spettacolo, di cui diceva Debord – concentrata, diffusa o integrata – non si seguono come epoche successive, ma si scambiano ciclicamente il proscenio, secondo i bisogni anali dell’accumulazione di capitale. Il capitale finanziario più impersonale con la sua astratta desolazione richiama il gelido ardore del fascismo quando la fantasmagoria delle merci e l’incantamento del desiderio si decompongono nella crisi, e l’individuo resta solo, umiliato nella sua angoscia e nel suo risentimento: c’è un passaggio continuo dall’illusione parlamentare al fascismo o almeno al bonapartismo, e le due cose non sono due opposti o due momenti successivi ma l’alternanza ciclica e necessaria, l’eterno ritorno delle forme del capitale.

 

Un soggetto così ben disposto alla distruzione di sé è pronto per la macchina totalitaria.

 

Talvolta è necessario allontanarsi dal giorno

ispirarsi a una luce resistente alle tenebre.

E cos’è infatti una tenebra bianca?

 

…Non era più una nevicata, era un caos di tenebra bianca, una mostruosità, la colossale oltranza di una regione che aveva travalicato ogni misura e in cui solo il fringuello delle nevi, che improvvisamente aveva cominciato a mostrarsi a stormi, poteva sentirsi a casa propria (696).

 

Tempesta di neve in cui il tempo e lo spazio sono sospesi, correlativo oggettivo dello sperdimento individuale di Hans e di quello storico (intendo la guerra, l’epidemia, l’essere per la morte nella generazione del primo dopoguerra, e lo sperdimento che avviene quando si presente il declino di un mondo).

«Ciò che scorgeva era il nulla, il bianco e turbinoso nulla» (712) e «una trascendenza biancastra» (706).

In questa sospensione, nel «muto gioco spettrale» (695), si vede con chiarezza accecante il mondo noto divenire nulla, un mostruoso non essere, un Unwesen, un inconscio del collettivo invaso dalla dismisura, über das Gemässigte, aorgico, perso ogni senso della misura e del limite.

 

Questa tenebra abbagliante di luce negli occhi è

angoscia di ritornare all’antico caos primordiale

in ascolto

dell’unico uccello (der Schneefink) che canta ancora nella velatura del mondo,

dello stesso silenzio primordiale,

del mondo elementare

quietamente minaccioso, non propriamente ostile

(come credeva Leopardi),

ma piuttosto indifferente e micidiale (702),

una minacciosa indifferenza (714).

 

Il sogno di Hans, nel capitolo Neve, si conclude con le sole parole di speranza in tutto il romanzo?

Alla base di questo episodio c’è Al di là del principio del piacere di Freud, dove Eros è distinto dal piacere, che è legato al desiderio di dissoluzione, di rientro nella natura madre, e dunque alla pulsione di morte. Eros è invece il principio che crea legame e forme tra gli uomini, sia estetiche che comunitarie e politiche[3]. È, leopardianamente, un principio di solidarietà e fraternità che dovrebbe unirli, contro il principio divorante: un pensiero ben diverso dall’illuminismo carducciano di Settembrini e dalla sua ingenua fiducia nel progresso, una fraternità che si basa sul riconoscimento e non sulla rimozione del dualismo tragico della vita e del soggetto.

Paci (nel suo Kierkegaard e Thomas Mann, Milano 1991, p. 239) definisce il sogno di armonia di Hans (ma si tratta poi di armonia, o non piuttosto di tensione tragica tra gli estremi?) come una «rivelazione subito perduta» e per la sua realizzazione almeno romanzesca deve rimandare al di là della Montagna magica, alla figura di Giuseppe il nutritore. Così però si esce dal contenuto di verità specifico del romanzo.

Il seguito della narrazione descrive il fallimento della breccia utopica che si era aperta alla fine del sogno («l’amore si oppone alla morte»). Hans tenta di realizzarla, non si è distratto, non ha dimenticato, almeno il suo inconscio non ha dimenticato, tenta nel rapporto filiale con Peeperkorn, nel triangolo con Claudia, nella musica, ma è una lenta degradazione, fino a cadere nello spiritismo e poi in quel suicidio più o meno mascherato che è l’essere-gettato nella guerra, nell’ebbrezza iniziale e nel trauma annichilente di tutta la sua generazione.

 

La speranza è la sorella illegittima di una verità inaccessibile.

 

Il capitolo Neve (690-736) comincia con uno scherzo, con i rimbrotti dei pazienti (o clienti o morenti) per il cattivo clima di quell’inverno. Poi in un adagio di intensità crescente il tema della irrealizzazione e della perdita di presenza del mondo è ripetutto più volte, da più punti di vista: «fuori regnava un cupo nulla; il sole sorge come fumo debolmente illuminato; l’immagine del mondo era fiabesca, infantile, strana»;

 

il tema, quasi un leitmotiv, si ripete e si intensifica:

 

«ogni cosa andava man mano dileguando», lo sguardo «si perdeva in un nulla ovattato», la montagna appare e scompare in un «muto gioco spettrale» (per altro divertente!) unterhaltend,

un mondo di gnomi, da libro di favole, divertente da vedere, lächerlich zu sehen.

E poi in un vortice di sparizione sempre più intenso si giunge all’immenso trasgressivo tumulto, die phänomenale Ausschreitung, l’Unwesen, l’eccesso e il disordine, e al culmine l’accordo di dominante, la tenebra bianca…Hans procede verso l’alto in un nebbioso nulla (ancora la nota della nebbia!), nel bianco e turbinoso nulla, nello sperdimento (Verlorenheit)…Qui si incontra una potenza immane e senza parole. La caratteristica della situazione è la ripetizione del medesimo, o almeno di ciò che appare come tale, perché poi forse non è proprio così: il perdersi (umkommen che è anche un morire), lo herumkommen, il girare sempre indefinitamente in tondo, il ritorno incessante del trauma già stato, della scena primaria già vissuta. La ripetizione si associa alla sensazione del nulla, del tempo sospeso. Eppure in questa notte bianca si produce pure qualcosa che prima non era, un esserci che prima non esisteva.

 

È la scoperta di un nucleo

o di una sostanza

o di un tratto invisibile all’interno di sé,

nella notte bianca

un lume notturno

nel cadere impotente e raggelato dei sensi,

la ripetizione produce un ritorno

un resto un differente.

A cosa ritorna, a cosa lo fa ritornare, il girare in tondo,

lo herumkommen e l’unkommen di Hans,

la sua seconda morte o morte simbolica?

 

Scorge un’immagine che di colpo presentifica gli estremi della sua vita.

Può emergere qualcosa da questa riduzione, contrazione, regressione, che travalica indefinitamente l’Io? Nello sperdimento, nella sperdutezza (Verlorenheit), nasce in Hans una sorta di coraggio fraterno al terrore. Nella monotonia primordiale della neve e del mare è costretto a tornare, per sopravvivere al trauma della guerra, della malattia, dello smisurato Unwesen. Ad Hans torna in mente la frase apocalittica e messianica di San Paolo, benché citata dal poco raccomandabile Naphta: Praeterit figura huius mundi. È una condizione in cui coesistono (in duplice chiarore) la dissoluzione del mondo esistente e l’emergere di possibili ancora indeterminati, il divenire col trapassare.

 

Il saggio nazista che tanto amava la Foresta Nera ha coniato il termine che ha espresso lo stato d’animo di una generazione decimata e umiliata: essere per la morte; nel suo torto linguaggio si è affannato a dire che si trattava di un che di ontologico che poco aveva a che fare con l’ontico, di una suprema verità trascendentale che non si doveva ridurre alla banalità dell’empirico, ma in realtà:

come negare che una generazione si riconobbe in essa come nella propria più intima tonalità affettiva perché aveva sentito l’urlo delle granate, visto l’incendio dei campi e delle chiese, il dilagare del contagio velenoso dell’epidemia di Spagnola, l’imminenza continua della morte più empirica? Il magico monte e l’esperienza di Hans comprendono l’essere per la morte nella sua vergognosa e suprema banalità fisica e corporale, ed è consigliabile leggere contemporaneamente Essere e tempo e la Montagna magica. «Solo nel tempo si comprende ciò che travalica il tempo» (Eliot).

 

Il viaggio di Hans nella “tenebra bianca” culmina nella scoperta di quanto siano vicine e complementari la nascita e la morte delle forme, compresa quella del nostro corpo, e quanto provvisoria la figura della vita. Il fragile ricamo del simbolico è lacerato dalla Cosa Reale, dall’Unwesen, e anche la bellezza, come ha detto Lacan di quella di Antigone, non è che un velo necessario che ci separa e frena nel nostro procedere verso un mortale altare di pietra (ma lei non bastò a trattenerla). Come non basta la bellezza del duetto d’amore di Aida su cui fantastica Hans, «l’alto e irrefutabile abbellimento» che l’arte concede «all’orribile volgarità delle cose reali» (962). Perché nel Reale cosa accadrà ad Aida se non crampi di fame, polmoni devastati dal gas e infine «l’impronunciabile opera» della putrefazione? Tuttavia, per vivere abbiamo bisogno dell’illusione e però anche a un certo punto di sapere, di renderci ben conto che è un’illusione, quando lo stadio estetico deve lasciare il posto a quello etico e a quello spirituale. Quando dobbiamo passare dall’immaginario al simbolico. Per un poco la bella apparenza sospende il punto d’angoscia, il desiderio coincide provvisoriamente con se stesso e una luce fioca come quella delle Maddalene di Georges de La Tour oscilla nella grotta oscura, insistendo ad essere.

 

Una fioca luce resiste nell’annullarsi del nostro ordine simbolico, nel dominio dei suoi muri già profondamente incrinati, è prima di tutto sapienza e conoscenza del vuoto – alchimia al nero – e in questo dopo il Novecento consiste il passo indispensabile di ogni arte, una «transustanziazione verso l’alto» (887), una «magia ermetica», in cui si svolgono «tutte le alchemiche avventure di quella così semplice sostanza» (1058), che è l’anima di Hans:  non lo sviluppo di una formazione lineare, di un soggetto che diviene eroe, ma transizioni tra la forma e il non essere, tra il non essere e la forma.

 

Nel pieno della tempesta di neve Hans si addormenta e sogna un paese meraviglioso e incantato, dove i corpi sembrano mossi dalla grazia suprema della danza, nel procedere di una giovinezza perfetta: «devozione formale, lieta amicizia, lenta soavità, lieve deferenza, ineffabile influsso spirituale, serietà aliena da qualsiasi cupezza» (727-728) sono i caratteri di questo mondo. Eppure, – come negarlo? –  nella descrizione si insinua qualcosa di troppo squisito, di estenuato, come un manierismo che deborda oltre se stesso, si sente che si tratta di un velo, oltre il quale c’è altro, un fondo su cui quei gesti si delineano come a schermarlo e che pure determina una indelebile incrinatura. Un fanciullo svolge per Hans il ruolo di messaggero ermetico: «A un tratto, però, guardò al di là di lui, lontano, oltre le sue spalle…Il fanciullo assunse un’espressione grave, impietrita, inespressiva e insondabile, una mortale impenetrabilità» (728-9).

 

Nel fantastico tragico mondo sognato da Hans

l’arte della danza,

il raffinato ritmo di giovinezze perfette

sono contigui al tempio dell’orribile,

in cui nere madri divorano i figli dell’essere

e ritorna l’antico caos.

 

«Dilaniavano un bimbo piccolo sopra un bacile, lo dilaniavano con le mani in un silenzio selvaggio…ne divoravano i pezzi, e i fragili ossicini scricchiolavano sotto i loro denti, mentre il sangue gocciolava dalle loro labbra oscene» (730). Hans sembra comprendere che i due aspetti del sogno sono inscindibili, che ogni ordine simbolico nasce da un desiderio di vita minacciato dal caos e dall’informe, e d’altra parte li contiene in sé come suo centro oscuro. «Quanto sangue ed orrore è nel fondo di tutte le ‘buone cose’!»[4]. Gli uomini che vivono nella trama del simbolico dovrebbero essere coscienti della minaccia che sovrasta ogni suo attimo ed esserne spinti a una consapevole solidarietà e amicizia. Ma invece l’ordine in cui vive Hans (e anche Settembrini, e anche Naphta) sta per essere sgretolato da una volontà di potenza e di godimento nella distruzione, illimitata, ed anzi sta per divenire l’artefice stesso di quel caos, che avrebbe dovuto evitare. Se una premessa è assurda, tutti i sillogismi perfetti che possano derivarne saranno nondimeno falsi e sempre più perversi, pur possedendo la forma della verità. Così avviene nell’ideologia totalitaria che emerge dai discorsi di Naphta. Ma in modo più sottile non accade la stessa cosa nella “democratura” sostenuta da Settembrini? Il sogno di Hans non è anche un’allegoria dell’ordine simbolico del capitale? Da un lato il sogno utopico di una età dell’oro, dall’altro il fondo di violenza divoratrice dei corpi su cui questo sogno si edifica.

 

Glossa. Il dualismo del sogno è una sintesi di quello che insiste in tutto il romanzo. La sovrapposizione tra la civiltà apollinea e il sottofondo osceno e distruttivo non è ripreso solo da Al di là del principio del piacere di Freud: è un tema ben presente alla cultura del primo dopoguerra, e non è senza far pensare all’utopia del capitale che poi si smaschera nel suo volto disgregante. L. Crescenzi cita un passo di Freud in cui lo stato d’animo seguito alla guerra è posto a confronto col “felice” cosmopolitismo della Belle époque. Ma è appunto un’immagine di sogno.

Il quadro idilliaco della civiltà europea è inscindibile dall’orrore che lo sottende, è allo stesso tempo la civiltà del massacro coloniale e imperiale. Una poesia di Hoffmanstahl descrive i gaudenti sul ponte e gli schiavi nel sottoponte: Taluni certamente debbono morire là sotto/Dove strisciano i pesanti remi delle navi,/Altri hanno il loro posto presso il timone, là in alto,/Conoscono il volo degli uccelli e i paesi delle stelle…/Pure un’ombra cade da quelle vite/Giù nelle altre vite,/E le leggere alle pesanti/Sono legate come l’aria alla terra./Dalle stanchezze di popoli interamente dimenticati/Io non posso liberare le mie palpebre…

In Metropolis di F. Lang i ricchi felici conducono la loro vita oziosa e apollinea nei giardini edenici della città superiore, mentre in basso gli operai sono divorati dal Moloch macchina e dalla strega meccanica che li seduce. Metropolis una conciliazione la tenta davvero con la stretta di mano finale tra l’imprenditore ravveduto e l’operaio rabbonito (e questo è un preludio al corporativismo nazista).

Mann tiene troppo al suo contenuto di verità, alla sua mimesi oggettiva, per abbassarsi a una simile scena di consolazione patetica. Mann è un sismografo della tonalità affettiva del suo tempo. Il sogno di Hans può sì presentare una possibilità utopica, ma allo stesso tempo la verità romanzesca contro la menzogna romantica è che questa possibilità nella situazione data non può realizzarsi. Solo nel tenere fermo a entrambe le cose – la possibilità dell’utopia – e la sua negazione presente, l’opera di Mann realizza il suo contenuto di verità.

L’epoca della narrazione è quella che si conclude con la prima guerra mondiale, il trauma che distrugge un mondo, un intero ordine simbolico: quale mai conciliazione, quale mai imprevedibile salvezza Mann potrebbe offrire al suo eroe e alla sua generazione? Ma anche: termina di scrivere il romanzo nel 1924: e cosa si prepara nell’inconscio del collettivo, se non una fascinazione ancor più sinistra e distruttiva? Di cui Mann certo non profetizza i particolari, ma antivede i contorni, come dimostra la novella Mario e il mago. L’etica del romanzo non sta in precetti morali o moralistici o in soluzioni romantiche e posticce, ma nel suo mostrare mimeticamente la tonalità affettiva dominante, senza compromessi e senza falsificazioni ideologiche. La verità più profonda è nel descrivere fino in fondo questo stato di sospensione.

 

Di Eros e pulsione di morte Freud scriveva negli stessi anni in cui Mann portava a termine la Montagna magica. Al di là del principio del piacere è un testo fondamentale per comprendere il romanzo. Ma la consapevolezza di Hans è imperfetta, perché non intuisce e non sa che il banchetto di sangue sta per prendere un deciso sopravvento negli anni a venire e nel suo stesso destino, che giovinezza e speranza stanno per morire in un mostruoso sacrificio nelle trincee della prima guerra mondiale. Anche Mann però non comprende e non sa o non sa pienamente, quando termina di scrivere il romanzo, che, di nuovo, Thanatos sta per prendere il dominio esclusivo del mondo. Così il sogno di Hans è profetico in duplice senso, per il personaggio e per l’autore ed entrambi credono di aver capito cose che invece possono solo intuire: il pensiero esita di fronte all’indice storico per cui l’ordine simbolico sta per rovesciarsi in orrore. Diciamo che nel sogno di Neve vedono questo rovesciamento, ma della sua intera portata non possono dire. Probabilmente, scrivendo il sogno di Hans, Mann credeva di interpretare un passato, non di antivedere un futuro: poteva pensare di immaginarlo così esattamente?

 

Nella Montagna magica viene meno l’ordine simbolico patriarcale. Hans cerca un padre ideale, un Io ideale con cui identificarsi per tutta la durata del romanzo, nella debolezza e nella assenza del padre reale. La sua metafora ossessiva è l’essere orfano. Il nonno, Settembrini, Naphta: ognuna di queste identificazioni speculari si rivela deludente, lo “spagnolo” e l’asiatico, il democratico e il nichilista rivoluzionario si ingorgano in una unilateralità che li condanna all’eccesso e alla disgregazione, di cui la guerra è l’atto finale. La seduzione più forte di tutte è quella di Peeperkorn, che sembra il vero homo dei, il vero “Signore delle antitesi”, il più vicino alla realizzazione dell’utopia del sogno della neve. In lui sembrano poter coesistere Oriente e Occidente, la sapienza (più vasta di quella illuminista di Settembrini) e il sentimento sensuale e dionisiaco, la religione dell’anima (oltre i confini del cristianesimo) e la pienezza della vita corporea. Ma fallisce, non possiede linguaggio, se non gesti disarticolati e alludenti, non accede al simbolico, resta in una rete narcisista e immaginaria, cede a un’inflazione dell’Io, si identifica con Dioniso fino al suicidio. Fallisce il suo tentativo di unire il femminile e il maschile, oltre l’antitesi della madre divorante e del padre castrante. Dopo il suicidio di Peeperkorn, il sogno di Neve si dissolve in fumisterie. Nella «grande ebetudine», der grosse Stumpfsinn, tedio inettitudine torpore stordimento, Hans inizia la parabola discendente, che lo porterà a rinunciare al percorso di individuazione e formazione che pure aveva iniziato, le stazioni della regressione sono il nervosismo isterico, Die große Gereiztheit, lo spiritismo, il prevalere sempre crescente della pulsione distruttiva.

Hans si era illuso che Peeperkorn, come un maestro orientale buddista, potesse condurlo fuori dalle secche magico arcaiche dell’Occidente, dal suo dio monotematico, dalla sua croce insanguinata, e anche più personalmente portarlo lontano dal nichilista superuomo Naphta e dal buon democratico ipocrita e obsoleto Settembrini. In effetti il Maestro ha un grande carisma e – se gli si crede – un suo cenno placa le fitte dell’angoscia, mentre le sue sopracciglia si inarcano verso velate profondità. Ma è un’illusione. Alla fine, si lascia puerilmente morire, non regge alla scissione occidentale e all’insostenibilità dell’amore, ben inscritta nel profondo del suo corpo, anche lui vittima di un duplice inesplicabile chiarore.

 

 

Hans infine si abbandona

atomo di un collettivo tecnicizzato

all’estraneo tuono della guerra

al trauma da cui proviene a ritroso il racconto,

forse nell’attimo che precede la morte.

 

Peeperkorn non può opporre alla crisi dell’ordine simbolico un’alternativa convincente, e il suo fallimento è il più grave, perché da lui Hans sperava il superamento dell’antitesi che percorre tutto il romanzo.

 

Secondo Lacan, l’angoscia non sorge dinanzi all’indeterminatezza dei possibili e neanche di fronte alla possibilità trascendentale dell’essere per la morte, ma nell’eccesso di vicinanza di un godimento impossibile: nel gioco del fort-da, nell’alternanza di presenza ed assenza, c’è «un certo vuoto da preservare…è dal suo riempimento totale che sorge il turbamento, da cui scaturisce l’angoscia»[5], riempimento che trascina il desiderio insieme verso il godimento e la dissoluzione, il godimento nella dissoluzione. Nel suo desiderio verso il corpo orientale di Claudia Chauchat, Hans è trascinato oltre ogni distanza in un vortice di fusione indistinta. «Non solo l’angoscia non è senza oggetto [come riteneva Heidegger], ma essa designa molto probabilmente l’oggetto più profondo, l’oggetto ultimo, la Cosa»[6], il dissolversi nel fondo originario dell’essere, in quelle stesse Madri che Hans ha visto nella condensazione del sogno.

Anche Pepeerkorn, l’ultimo e nuovo mentore di Hans, prova un’inquietudine angosciata, una intricatissima «angoscia per il sentimento» (899) che lo attrae verso Claudia, e quando cede ogni argine si abbandona al suicidio: «nei suoi occhi lampeggiava l’angoscia, ma non un’angoscia modesta e limitata, bensì qualcosa di simile a un terrore panico» (838).

 

Perché l’apparenza ci preserva sì

dalla discesa nell’indifferenziata

metamorfosi incessante

della natura, ci dona la distanza di un fantasma,

la mancanza che aiuta,

eppure per sciogliere le forme irrigidite

dobbiamo pure farci vicino

allo scroscio del caos, all’aorgico della natura e dello spirito,

perché la nostra ragione nella sua chiusa unilateralità

non diventi a sua volta follia.

 

Nella vicinanza di questo Fondo dell’essere, c’è il pericolo più estremo ed anche un estremo movimento di possibili che accennano dal nulla alla forma, la mistica confina in modo inquietante con la religione della morte, perciò occorre tessere una trama di immagini, che ci salvi da entrambi, dal cielo e dalla dannazione, perciò Hölderlin diceva che la mancanza di Dio aiuta, e i mistici autentici, che non siano dei folli, sono spinti a costruire una fittissima trama di immagini, per avvicinare e contenere la loro esperienza.

 

In margine. Occorre notare (è l’opinione di Ernst Nolte) che la tonalità affettiva dominante di Maurras, di Mussolini e di Hitler è l’angoscia, l’intollerabile previsione della dissoluzione, che si può compensare e arrestare costruendo una ebbra comunità di sangue e di suolo, e poi imbalsamandone il pathos nella gabbia d’acciaio dell’ordine totalitario, un ordine nuovo, in questo senso, perché ben diverso da quello progressista e borghese incarnato da Settembrini.

«Scegliamo di prendere come filo conduttore della nostra ricerca il “sentimento fondamentale” di Maurras. Basta scorrere i suoi scritti per rendersi conto che tale sentimento fondamentale è un’angoscia (Angst), che si manifesta anche nelle sue operazioni intellettuali più sottili…». «Appare sorprendente l’affermazione fatta in precedenza per cui anche in Hitler la sensazione di fondo è costituita dall’angoscia…Queste idee sono sempre accompagnate da vicino dalla visione della decadenza fisica: se vince l’ebreo, il pianeta continuerà a percorrere le vie celesti privo di vita umana, come milioni d’anni prima»[7].

È bene aggiungere che questa angoscia è però un sentimento ambivalente; il fascismo è attratto dall’ebbrezza e dalla dissoluzione, non meno di quanto ne sia terrorizzato. L’aspetto terrifico-dissolutivo viene distolto e proiettato sul “nemico” ebreo, mentre quello estatico viene celebrato in tutti i riti di una religione demoniaca e invertita. Ma in effetti i due aspetti sono complementari e procedono appaiati, finché da ultimo sarà proprio l’esaltazione distruttiva a prevalere, in una estrema fascinazione verso un “pianeta deserto”. Se non può essere “puro”, che allora sia “deserto”.

 

Se i padri deludono, il femminile appare come una madre spettrale: «La madre preedipica…emerge come figura di sovversione, una minaccia per l’identità maschile e la cultura patriarcale. Non è una figura centrale nella teoria di Freud, che si accentra sul dramma della relazione padre-figlio, essa ha una funzione spettrale, che crea presenza dall’assenza»[8].

Alla ricerca fallita di un Io ideale maschile, si associa la regressione a una madre fusionale e primordiale: e infine la pulsione a inserirsi passivamente in un rigido, militare ordine collettivo. L’Eros androgino di Hans (attratto allo stesso tempo da Claudia e dal suo antico compagno di classe Hippe) non trova una forma in cui articolarsi, che non sia quella dell’abbandono dissolvente.

Un vero “romanzo” di formazione condurrebbe Hans, attraverso le successive identificazioni speculari con l’imago ideale del padre, oltre l’immaginario, cadute le identificazioni, al riconoscimento simbolico di se stesso; e oltre la fascinazione fusionale della Madre, l’incantamento immaginario di Claudia, verso un legame erotico che riconoscerebbe la donna, la sua differenza come altro; ma il romanzo di formazione non riesce. Allo stesso modo, rispetto all’apertura utopica del sogno della neve, la seduta spiritica in cui compare l’ectoplasma di Joachim è una perversione grottesca-demoniaca del mondo mitico, a conferma dell’allontanamento di Castorp dalla rivelazione del sogno. L’iniziazione scade dal misterico all’esoterico.

I padri ideali si sgretolano, senza che Hans interiorizzi alcun ideale dell’Io; Claudia sparisce, senza che lui sia andato di un millimetro oltre la fascinazione immaginaria. Non gli resta dunque che il nulla e l’immersione fusionale-masochista nella “ebetudine” storica, che verso il nulla va marciando. Ma in questa sua intenzione, Hans è appunto incarnazione della tonalità affettiva fondamentale dell’inconscio del collettivo. Questa è la grande mimesis di Mann, il suo contenuto di verità.

 

Glossa. Perciò «Wysling parla di ‘storia di depersonalizzazione’ e di ‘storia di una decadenza’… di un romanzo di ‘de-formazione’, e Borge Kristiansen di un ‘processo di de-formazione’»[9]. L’immagine di sogno di Schnee non si realizza come immagine dialettica, il risveglio non porta all’interpretazione del sogno. «La scissione preedipica del primordiale oggetto materno d’amore in ‘buono’ e ‘cattivo’ fonda la sua coerenza mitica nell’immagine primordiale della Grande Madre generativa-terribile (fruchtbar-furchtbar[10], nella polarità descritta da M. Klein, che qui però rimane inchiodata alla sua scissione.

Hans sembra essere molto simile all’eroe mitico che si distacca solo illusoriamente, solo nell’immaginario, dalla Grande Madre: «Al mattino della vita, il figlio si stacca a fatica dalla madre e dal focolare domestico, per elevarsi lottando sino all’altezza destinatagli, credendo spesso di avere dinanzi a sé il suo peggior nemico mentre lo alberga dentro di sé: l’anelito pericoloso di inabissarsi in se stesso, di annegare nella propria sorgente, d’essere tratto giù nel regno delle Madri. La sua vita è una continua lotta contro lo spettro dell’annientamento, una violenta eppur effimera liberazione dalle tenebre della notte perennemente in agguato»[11].

Anche Naphta è una figura emblematica di questa scissione, che egli estende a dimensioni storiche e cosmiche. In Naphta coesistono i due estremi non conciliati e unilaterali, dunque nella loro versione distruttiva: l’ebbra fusionalità verso l’indistinzione originaria e materna – e l’erezione (compensativa? complementare?) di un rigido ordo totalitario, ebbrezza e insieme ordine imperiale, surrogato osceno del patriarcato in disgregazione. In questo Naphta sembra davvero anticipare il totalitarismo.

Claudia non contiene solo il momento dissolutivo, ma anche potenzialmente il femminile generativo, solo che le si desse la possibilità di incontrare il maschile. Ma il maschile non esiste più, non ha figura, se non quella esitante di Castorp e dei suoi padri immaginari, o anche quella consegnata a un secolo finito di Joachim: «Castorp sviluppa una serie di identificazioni filiali con ‘autorità paterne’…e cerca progressivamente una identificazione con l’ordine simbolico del Padre, con la lacaniana ‘loi du père’…Peeperkorn si rivela sempre più…come un patetico e frantumato rappresentante della lacaniana legge del Padre…»[12].

Lubich cita Kristeva e ricorda «l’onnipotenza di una madre arcaica, piena, totale, assorbente, senza frustrazione, senza separazione, senza taglio che produca simbolismo, senza castrazione»[13]. Questo “abri primitif” è tuttavia per sempre perduto: «Quando Castorp va in guerra per la patria, si ricorda del perduto regno della Madre, in un’ultima onda di emozione: ‘un’indicibile nostalgia della Madre’»[14].

Tuttavia, non sembra che Mann condivida l’ottimismo di Hermann Hesse: «Questo tramonto [dell’Europa] è un ritorno alla Madre, un ritorno all’Asia, alle fonti, alle Madri faustiane e porterà certo, come ogni morte sulla terra, a una nuova nascita»[15]. Quale mai rinascita? L’idea che un grande sacrificio di sangue fosse necessario per rigenerare l’Europa era diffusa prima della guerra mondiale e in parte condivisa dallo stesso Mann. Ma la Montagna magica è tra l’altro la negazione più radicale di questo mito, il sacrificio di sangue non porta alcuna rigenerazione.

 

Nella disgregazione dell’ordine simbolico vigente ma morente, il fascismo sviluppa l’attrazione irresistibile verso un mistico godimento mortale di fusione nella dissoluzione, uno stato di ebbrezza comunitaria e indistinguente, che confluisce nell’erezione di un ordine ossessivo ed immobile, una oscillazione permanente e strutturale tra un movimento maniaco incessante e un catatonico rigore. Il fascismo è un’ebbrezza inerte.

La religione della morte è una grande seduzione dice Settembrini (peccato che in segreto vi ceda anche lui e la sua democrazia, questo il suo atteggiamento di fronte alle critiche radicali di Naphta: Distruttore! Cane arrabbiato! Bisogna ammazzarlo! (1041)).

«Per la ‘medietà’ umana sono un pericolo, secondo Castorp, sia il rigore spagnolo che l’asiatica mancanza di forma di Madame Chauchat. Dal confronto tra i due campi, ‘se l’Est si reca in Spagna può anche prendere forma qualcosa di veramente malvagio, di terroristico’»[16].

Come nella dialettica tra aorgico e organico in Hölderlin, non è solo l’asiatico informe che può essere legato a Thanatos, ma anche l’altro polo, la forma sterile e irrigidita; Thanatos scaturisce dall’eccesso unilaterale di uno dei due poli o dal loro presentarsi nella forma di una scissione dilacerante o in una complementarità, che invece di temperare gli estremi li sovrappone isolati in forma sussultoria e parimenti distruttiva. Per usare i termini di Hans, il nazismo sarà contemporaneamente cedimento alla fusionalità asiatica e creazione fanatica di un ordine “spagnolo”, mito regressivo e astrazione desolata.

 

Perfino un incantevole lied di Schubert

ha un lato profondo ed oscuro

un mondo d’amore proibito, frutti tenebrosi

un incantamento che usato male può portare a grandiosi e orribili

imperi terreni

come prevede Mann nel 1924

una mostruosa cattura, un sacrificio a dei oscuri a cui pochi potranno resistere (Lacan)            

 

Quel lied [Lindenbaum] intratteneva con la morte relazioni che si potevano anche amare, ma non senza mettere in conto, in modo presago…che quell’amore era in qualche modo illecito…I pensieri e i presaghi mezzi pensieri di Hans Castorp…erano pensieri alchemicamente potenziati. Oh, era immane quell’incantamento dell’anima! Noi tutti eravamo suoi figli e, ponendoci al suo servizio, potevamo realizzare sulla terra imprese immani… [poteva sorgere un talento superiore capace] di soggiogare il mondo come un magico incantatore d’anime. Magari su quel talento si sarebbero potuti edificare degli imperi, imperi terrestri, fin troppo terrestri, massicci e progressivi, e in verità niente affatto ammalati di nostalgia (972-3).

 

Però quello stesso lied contiene la possibilità opposta e per Mann la musica è insuperabile nel presentare la dialettica in stato di sospensione, il duplice chiarore diffuso da due possibilità antitetiche che coesistono nell’attimo di una breve cesura del tempo: oltre che l’ebbrezza della pulsione di morte, il lied dice anche un desiderio di amore, una parola che Hans non sapeva ancora pronunciare (974), in cui la consunzione di un mondo è anche il suono e la metamorfosi di un dio che viene.

 

O la nota

verso un’altra intensità (Eliot)

o la fraternità

o la barbarie.

 

Tempo in sospeso, tempo senza peso, quello del magico monte. Perché senza peso? Quando non c’è adesione a un ordine simbolico, né a quello dominante, che si disgrega, né a quello antagonista, di cui non si scorge la forma, quando si è nella duplice oscurazione e nel duplice chiarore di un mondo che tramonta e di un mondo che non sorge, allora ci si ritrae dalla storia estranea, ci si aspetta come un nevrotico ossessivo, passivamente, che il padrone muoia da sé, che dalla sua morte emerga spontaneamente il possibile. Il fatto è che quello muore assai lentamente, in un katechon indefinito, e intanto passa la nostra vita, passa e prima ci sembra che passi lentamente, e poi che sia passata troppo rapidamente, sogno senza peso, leggerezza mutante.

 

Inciso. Ho appartenuto a una generazione che ha vissuto un’immagine di sogno della rivoluzione, magari non molto consistente, incapace di tradursi in evento reale: solo che dopo non eravamo più di questo mondo, e quello nuovo non è sorto, è finito in un discreto orrore, in eroismo un po’ grottesco, in ritrazioni da droga, in protratta delusione entro un mondo disamato, di cui in fondo ci si augurava la fine, ma così anche di noi con esso. Oppure si tramutava il sogno in opportunismo e cinismo, che è poi a ben vedere la stessa cosa.

 

Nel sogno del capitolo Neve, Hans ha visto il duplice chiarore del tragico, del mondo che finisce e del mondo che non sorge, della forma simbolica e del caos: da un lato una civiltà raffinata quasi efebica e preraffaelita, delicato kindergarten apollineo – all’altro estremo il pasto sacrificale arcaico. Ha visto coesistere la madre che allatta e la madre che divora, la delicatezza e l’orrore, la religione della morte e l’amore.

La religione della morte non è semplice desiderio di annullamento nella quiete del Nirvana, Hans la sente come «libertà, diserzione, assenza di forma e piacere» (733), che però si perde nell’illimitato, nell’entusiasmo della guerra. È un sacrificio esaltato agli dei oscuri, il piacere di «emanciparsi definitivamente dal peso dell’onore, e godere in eterno degli inauditi vantaggi dell’onta» (117), una selvaggia dolcezza (wüster Süssigkeit), una desolata dolcezza (133).

 

Altra cosa dal godimento dell’onta

è l’amore, che accetta la dissoluzione

come un transito,

lo scioglimento dell’Io irrigidito,

misura fraterna di fronte alle tragiche irruzioni del Reale

legame dei corpi che non si fa trascinare

nello smisurato

nell’inespressivo insondabile e impenetrabile

che non si fa inflazionare dalla potenza che trae

verso l’inerte ebbrezza del fascismo

nel suo ordine di ghiaccio imprigionato dal caos,

che si illude di signoreggiare le antitesi

e soccombe ad esse.

 

Tutto questo Hans lo sente e lo dice coi suoi pensieri alchemicamente potenziati, ma è un pessimo maestro per se stesso, perché poi non sa fare altro che abbandonarsi al flusso dirompente del sacrificio collettivo, alla devastazione e all’inondazione che sommerge l’Europa, unico esito della grande ebetudine, della stupefatta stupidità che ha invaso l’inconscio del collettivo e l’ordine simbolico; tanto da rendere desiderabile «il turbine di vento che tutto avrebbe spazzato via interrompendo il corso del mondo» (945), «l’assordante detonazione di mille sciagure, ebetudini e suscettibilità da gran tempo accumulate» (1058), un sogno di apocalisse che non si realizzerà, che vivrà una replica atroce.

 

Il capitale continua a rinviare la sua fine distruggendo e innovando.

 

Hans lo aveva detto a un certo punto: un’anima collettiva sogna attraverso di noi, un’anima dionisiaca e materna, ma occorre fare attenzione, perché ha un duplice volto nelle cesure e nei momenti di indeterminazione della storia: per un lato può condurre alla concezione di una comune fraternità, ma per l’altro all’ebbrezza collettiva, a un incanto funesto. È un duplice chiarore il suo, e la ragione non è del tutto inutile di fronte alla potenza della religione, l’immagine di sogno deve divenire dialettica, la vera visione è risveglio e non sprofondamento in un sonno indistinto. «La diserzione della morte è nella vita, non ci sarebbe vita senza di essa, e in mezzo si pone la condizione dell’Homo Dei – nel mezzo fra diserzione e ragione – e pure il suo stato si trova tra la comunità mistica e la più futile individualità» (733). Peccato che Hans, non più di Naphta e Settembrini, non sappia tenersi in questa condizione di uomo nobile e tutti si lascino infine travolgere dalla diserzione trionfante della guerra, senza che nessuno neanche lontanamente sia in grado di farsi signore delle antitesi (733): «La comunità dei figli del sole non è affatto qualcosa di autonomo, ma è una difesa, un irrigidirsi di contro alle pulsioni umane»[17]. Qualcuno ha pure provato ad intendere la discesa agli inferi della guerra come il rientro dalla montagna magica in una comunità reale, vedendo in Castorp niente meno che l’uomo futuro della “democrazia” weimariana. Ma no: la comunità di guerra dei soldati è una deformazione grottesca, un dis-toglimento demonico dell’immagine di sogno che compare alla fine di Schnee.

 

Non c’è soluzione nel magico monte

che infine ci chiede di disincantarlo

e di abbandonare Hans al suo destino

al clamore di armature di un Fortebraccio qualsiasi

in una storta e stolta trincea;

costringe a volgersi ad Altro

se mai nasca ignoto

nella terra dove siamo nati e morremo

sotto le stelle della nostra nascita.

Gli dei sono diventati Oscuri

non voglio dire con questo che siano inesistenti

o che declinano o che muoiono                                                                                           

ma solo che con ciclico moto imperioso come l’oceano

si ritirano

e solo sepolti li avviciniamo

tra i buchi lasciati dall’acqua (Char).

 

Il romanzo si chiude su queste parole: «Forse che anche da questa sagra mondiale della morte, da questa voluttà smaniosa e maligna che incendia tutt’intorno il piovoso cielo della sera, potrà un giorno innalzarsi l’amore?». Eros (Liebe), che qui è nettamente contrapposto al godimento mortale della dissoluzione (schlimme Fieberbrunst): riconoscimento in comune e non rimozione del dualismo tragico che ci incide.

 

Richiudo il libro del Magico Monte che molto mi ha fatto soffrire leggendolo. Impropriamente e certo con poco senso critico ci ho visto una corrispondenza col nostro tempo. Non gran che come soluzione: se non la convinzione che non possiamo più formulare un’idea dell’uguaglianza e della libertà, che non possiamo più usare le parole che le definivano nel secolo passato, un secolo di Reale e di tenebra. Possiamo ancora pensare ciò che nel magico monte è in fondo interamente assente: la fraternità? ma cosa è mai oggi la fraternità? Forse scrutare la vulnerabilità del volto dell’Altro, e la memoria di ciò che in tutta la nostra triste storia e nelle sue catastrofi si è fatto in nome della vulnerabilità del volto dell’altro. Ben poco, si direbbe: ciò ha somiglianza, ma solo una vaga somiglianza, con l’amore. Noi, più che mai, dobbiamo lasciare interrogativa la frase di Mann.

 

Note: 

[1] T. Mann, La montagna magica, Meridiani Mondadori, a cura di L. Crescenzi, trad. di R. Colorni, Milano 2011, numero di pagina indicato fra parentesi in corpo testo. Il testo tedesco di riferimento è Der Zauberberg, Fischer Taschenbuch Verlag, Frankfurt am Main, 1967.

[2] Cfr. L. Crescenzi, “Introduzione” a La montagna magica, cit. pp. LXXXVII e sgg.

[3] «L’eros coincide infatti con l’impulso primordiale a continuare la vita attraverso l’unione di due individui: un impulso la cui origine, nella sua evidente contraddittorietà rispetto al principio del piacere, Freud non è in grado di spiegarsi, ma che palesemente si oppone all’istanza regressiva degli istinti dell’Io e alla tendenza verso l’inorganico…Solo nel sogno di Hans Castorp balugina quello che Mann chiama nei diari il ‘nuovo’…» (L. Crescenzi, Malinconia occidentale. La Montagna magica di Thomas Mann, Carocci, Roma, 2011, pp. 205 e 208).

[4] Il passo di Nietzsche dalla Genealogia della morale: «Quando l’uomo ritenne necessario formarsi una memoria, ciò non avvenne mai senza sangue, martiri, sacrifici; i sacrifici e i pegni più spaventosi (in cui si ricomprendono i sacrifici dei primogeniti), le più ripugnanti mutilazioni (per esempio le castrazioni, le più crudeli forme rituali di tutti i culti religiosi (e tutte le religioni sono, nel loro ultimo fondo, sistemi di crudeltà) tutto ciò ha origine in quell’istinto che colse nel dolore il coadiuvante più potente della mnemonica…quanto sangue e orrore è nel fondo di tutte le ‘buone cose’!». (Mondadori, Milano 1979, pp. 44-46).

[5] J. Lacan, Seminaire 10. L’angoisse, Seuil, Paris 2004, p. 80.

[6] Ivi, p. 360.

[7] E. Nolte, I tre volti del fascismo, Mondadori, Milano, 1974, pp. 158, 562, 563. Traduzione modificata.

[8] M. Sprengnether, The Spectral Mother, Freud, Feminism, and psychoanalysis, Ithaca, London 1990, p. 5.

[9] A. Jachimowicz, “Der Sieg der ‘Unform’. Das ‘Schnee’-Kapitel des Zauberbergs”, Convivium. Germanistisches Jahrbuch Polen, Lodz University Press, p. 240.

[10] F. Lubich, “Thomas Manns Der Zauberberg. Spukschloss der Grossen Mutter oder die Männerdämmerung des Abendlandes”, Deutsche Vierteljahrsschrift für Literaturwissenschaft und Geistesgeschichte, 1993-12, Vol.67 (4), p. 737.

[11] C. G. Jung, Simboli della trasformazione, Boringhieri, Torino 1970, p. 347.

[12] F. Lubich, “Thomas Manns Der Zauberberg…, cit. p. 736.

[13] J. Kristeva, “Stabat Mater” (1976), in: Julia Kristeva,  Histoires  d’amour, Paris 1983, p. 239.

[14] F. Lubich, “Thomas Mann’s Der Zauberberg…, cit. p. 755.

[15] Hermann Hesse, Blick  ins Chaos, Gesammelte Werke in zwolf Bänden, Frankfurt am

Main, 1970, XII, 313.

[16] A. Jachimowicz, Der Sieg der ‘Unform’, cit. p. 266. La citazione da Mann a p. 746 della Montagna magica, cit.

[17] A. Jachimowicz, Der Sieg der ‘Unform’…, cit. p. 249. Il più radicale, in questo senso, è B. Kristiansen: «Castorp alla fine ammette che la comunità umana dei figli del Sole non è la soluzione dei problemi della forma e dell’umanità, ma il rinvio alla tragica precarietà di ogni forma», Thomas Manns „Zauberberg“ und Schopenhauers Metaphysik, Bonn, 1986, p. 224.