Poesie di Francesco Nappo

Poesie di Francesco Nappo

8 Dicembre 2021 Off di Francesco Biagi

SULLA CORALLINA TORRESE*

A Francesco Porzio

 

La dolorante vela per i flutti

del viver nostro straniato e medesimo

sperde schiocchi di frusta nel maestrale

che delebili orme di eterno

imprime e disfa d’impeto incostante

per la caduca sua stesura bianca,

tra remiganti in ciel stormi di passo.

Grecale avverso a noi puteolano,

divino vento del parvente Altrui,

grido di terra lanciato al mare!

Incarnato del tempo diveniente

fu la bolina prospera, sovrana

ai venti ostili dei due golfi,

fu il giusto fervore di Francesco

che a favor della prua tesava il cavo

a scemar la flaccidie della tela.

Perduto provenir, dir verecondo,

dell’infanzia salute memoranda

pei litorali dell’imminenza

fermi negli occhi dei naviganti.

Le paroli più giovani destava

il sonno delle labbra, se fiammavano

damaschi vesperali a fior dell’onde

lungo la baia solcata in musiche d’aurora.

Vestizione ventura del passato,

privilegio d’esistere patendo

ombra di morte stupita e risorta!

Rivesti dei suoi giorni il pescatore

dai gesti assorti di pietà sagace

e pace dona a me romito orante

dentro furiosi sdegni di milizia.

 

*Antica barca dei pescatori di corallo di Torre del Greco

 

 

PENSIERI NEOCATECUMENALI

A Chiara Cardella bambina

 

Lungo il viale d’Augusto andavamo,

per l’ombra eritrea della mia

infanzia che scendeva dalle palme

d’Oltremare passeggiavo insieme al

segretario della nostra sezione di

Partito e la sua figlioletta.

La bimba interruppe il nostro colloquio

chiedendo: “Papà, perché cammini?”.

Era il tempo che i bambini pare cerchino

il principio di ragion sufficiente

d’ogni cosa, fatto ed evento.

Agli adulti sembra che vogliano

sapere la causa d’ogni possibile.

Ma, forse, quegli inutili quesiti

son la prima lezione di catechismo

agli adulti smarriti nel mondo:

“Il mondo somiglia al mio amore per te”

– dicon così i piccoli ai loro cari –

“È il puro possibile che tu sei per me”.

Di quel ben sono ignari i dolci inquirenti.

Lo dicono senza saperlo come quando

ignari del male pecchiamo e questa è

la misura di ogni Remissione.

Non altro modo ha l’Amor creatore

che perdonando noi perdona sé

e lode oscura accoglie più di culto

nel deporci interiore ai piedi nostri.

 

 

D’UN VEGGENTE PLEBEO

 

Quasi correndo, a voce ferma e

alta, un passante fendeva la folla

come un araldo di stremato vero.

Bandendo andava messianico editto

non più a se stesso ma non a tutti,

l’onor dei molti convocando al campo

della più santa e disperata lotta:

“Nun ce vo’ niente, no! Pe’addivinta’ ommo,

niente nce vo’! Nce vonno sulo ‘e muorte!”.

Era venuto dalla sua infanzia

l’angelo folle, aveva vinto Jacob.

Era settembre, quando l’estate

finisce e non trapassa e l’aria

del mattino giace in puro splendore

di dormizione assunta nel suo oro.

 

 

(senza titolo)

D’altrove non può esserci memoria,

ma sol nella memoria altrove regna e

l’anima è il paese che sognammo

mai così desti, andando insieme

cari e distolti a noi, dicendo

difettiva giustizia e provvidente

per dimorante via: respiro e passi.

 

 

VIVENZA*

 

Così agugliavan cieche merlettaie

per tele d’Olanda delizie tattili,

supreme perle d’incognito lucore.

E trafitture minime e cruente

succhiavano ai veggenti polpastrelli

ad ogni tanto, ridendo del male.

Ora che mi sovviene la tua pietà

Gioacchino, la lectio magistralis

di quelle brune vergini scolare:

il vero nel dolor, somma ventura.

Ora che credo che sì materne labbra

abbiano deglutito il dolor nostro

a morsi e sorsi di coraggio gaio.

 

*In questi versi è viva la memoria

di un quadro di Gioacchino Toma:

«La scuola delle merlettaie cieche».

 

 

(senza titolo)

Quel che non sarà stato non sarà nulla.

Codesta è l’allegria del dire

povero, la nostra fame d’essere

che ciberà il pane d’altri giorni,

intraviste dimore nel pensiero

che pensiero non son ma tempo ancora,

illesa voce d’essere e dispendio.

 

 

(senza titolo)

L’autunno confessa agli albereti che

al sole si denudano in incanti

matutini di solstizio secondo.

Quando gli ultimi frutti rilucono

simili ai primi fiori e nel pallido

carminio dei riverberi pei tronchi

la più dicibile ora del patire

risuona come un silenzio d’alba

in canti avili di perpetua audienza.

L’aorta della terra freme d’amore

attendendo la gioia che non gli manca.

Ascolta, Musa, il cuore dell’ottobre,

fammene dono, figlia e madre del tempo,

di nulla gravida generatrice.

Giunge un viandante per traccia incognita.

Tutto ha perduto tranne il perduto

che nei suoi occhi resta balenando.

S’odono solo i suoi passi pazienti.