Poesie di Silvia Bre tratte dal volume “Le campane” (Einaudi)

Poesie di Silvia Bre tratte dal volume “Le campane” (Einaudi)

28 Novembre 2021 Off di Francesco Biagi

Pubblichiamo alcune poesie di Silvia Bre, tratte dal volume Le campane, di prossima pubblicazione presso Einaudi.

 

*

 

Quei numeri tatuati sul pianeta

aspri musi da faina dove l’iride turbina

e si schianta involontaria smarrita

la selvaggina umana: per la scala minore

su sfondo oro sbanda un meridiano

di rintronati dalla fragranza di un suono

la loro eleganza disadorna.

Non sono mai nessuno i poeti –

nel vuoto dell’amore, dai vuoti di memoria

pugnalano in lingue il lontano.

Poi l’aurora.

 

 

*

 

È un temerario dio a respirare oltre,

un alito che spalanca l’impalcatura

per averci come siamo? Un segno disumano lo canta

non oltre le cose ma in loro: identica indistinta

nel fosco vapore del suolo tu, meraviglia,

perché ti riconosco, sbandieri

che divampa su tutto, il ritmo antico del nulla.

 

 

*

 

E a chi ti dice nomina il tuo centro

la sorda dominante che ti agita, tu che non basti

a incoronare il pentirsi zoppicante delle sere

quando la compresenza silenziosa strazia

e non arrivi a tenere tra le braccia tanta cenere

scalza nell’oltre delle tombe, nelle facce deturpate dalla grandine,

dichiara il centro, accusano, quale fuoco avvolge una che piange,

entra nella tua specie come bestiame d’alberi

tra gli interstizi del come, il bosco della bocca

quando dormi, la tensione straniera che ti aggancia

nella dimostrazione, lo sconosciuto che ti conosce e ti dilapida,

dillo trionfando che non ci sei, non hai cuore,

è un’altra l’unità da pronunciare, ebete,

e non sai quale, non sai farlo.

 

 

*

 

La piega di un collo mozzato dalla figura

è una bufera. Ma vieni, salma di fango, ti raduno

e parli senza me, l’aria degli alfabeti sguinzaglia

un gigante a ridire che non c’è

poi quello che manca infuria.

 

È il male, la curva

smette crudele di navigare

s’inabissa una barca e la vertigine

è un’arca, depone l’offesa incerta nella palude,

sparge tutta questa distanza.

 

 

*

 

Se un mosaico di dolore assume il canto

immenso della vita così sola

a contemplare l’anima, il bianco un lampo interno

la stringe nelle vene leggerissime

e questa lava onde io le fo intendere

come lo sguardo svetta ammutinato

davanti a Sua Povertà, io slegata

nella pace dei significati, l’imparziale

mi fa questo silenzio.

 

*

 

Bergamo

 

Pensala, inclusa nel corpo penitente

girato sotto per coprirsi con la schiena, in fuga

e tra le labbra la luce fragorosa che s’impenna

la parola eretica. Poi la segui, è un fiato.

Vuole che i suoi raggi s’impalino

e con il corpo fuso al mondo nascere domani

o non morire mai, così come beatitudine vorrebbe.

La musa del presente viene meno.

 

 

Ora monta la scia dei veggenti, hanno portato

la vampa stregata nelle ciglia l’attimo prima,

hanno saputo, e vanno, geni dell’aria estesa

alla primavera ossidrica, ai campi bestemmiati

che sbranano l’ombra, un colosso glaciale li guida

nel beta, nell’alpha, e poi l’occhio eterno.

 

 

E tu mantieni l’attimo soltanto, la gabbia chiusa, l’angelo

col fiato rotto in ogni gola, pensa nuovamente

questo guarire in trasparenza dove il cielo

sa il credo del tuo dolore e cedi alla miseria alata,

già ti devasti.

 

 

*

 

Restami in piedi figura, anche muta,

che io ti senta nel nome qualunque

di schiere infinite, parvenza più uguale tra perle

e musica di cose che il magnete fiammante illumina.

Il tuo patire allaga senza sapere nulla

mi sdraia nell’asilo incomprensibile,

amato, di questa preghiera.

 

 

*

 

Conoscerti, come nel sonno la statura celeste

dove giri, profeta dell’inaccessibile con la voce di cera.

Penultima prima di finire, sulla sponda di un’orazione umana

l’anima scura sfregia la lingua e sventola.

Nessun altare, solo un alto tifone benedice la mente

scossa da cori di spighe, fende l’impossibile.

 

 

*

 

Questo diventi, mia acuta differenza

spartita dalle correnti d’aria, squilibrio

rincorsa, tuoni di nostalgia in un suono perso

che si fa dilaniare a ogni rimbombo.

Ma io resisto, ti sto murando col gesto del vento

ti tengo ferma via da me

ti impongo all’universo.

 

 

*

 

Tra gli eletti dal male a guarirlo

nella lingua che lo dice, la cura

del ramo spinato che urtato da un fiato

sibila e ti tiene sveglio e ti addormenta,

non sai quale madre detta la misura

nell’azzurra lacuna da vedere

se contro la luce della morte

una navata canta la sua carità per questa gleba.

Suonata a senso dalle campane

per timone le tenebre

mi ruota nello scheletro la nube di una luna,

questa infamia fedele di beata.