Divenire Joker. Disagio dell’in-civiltà, apocalissi dello spettacolo e rivolta pulsionale – di Alessandro Simoncini

Divenire Joker. Disagio dell’in-civiltà, apocalissi dello spettacolo e rivolta pulsionale – di Alessandro Simoncini

22 Novembre 2021 Off di Francesco Biagi

Premessa

Qualche mese prima dell’esplosione della pandemia da Covid-19 uscirono nei cinematografi tre film importanti. Con notevole capacità sintetica, Franco Berardi segnalò che quei film erano stati capaci di radiografare la situazione di collasso psichico in cui – ben prima della pandemia – la crisi ambientale, economica e antropologica aveva gettato il nostro ordine delle cose. Con la potenza delle immagini in movimento Sorry we missed you di Ken Loach, Parasite di Bong Joon-ho e Joker di Todd Phillips erano cioè  riusciti a restituire quella “sorta di vibrazione patologica” che pervade da cima a fondo la “società planetaria” messa in forma dal governo neoliberale[1]. Sorry we missed you riusciva a cartografare con maestria “le condizioni lavorative entro cui il collasso psichico diviene inevitabile”; Parasite lavorava brillantemente sulla “frenetica ricerca di sopravvivenza in un mondo in cui ogni strato superiore schiaccia e seppellisce gli strati inferiori”; Joker – a cui è dedicato il testo che segue – raccontava “l’enorme diffusione della sofferenza psichica estrema in una società al limite dell’esplosione di rivolte psicotiche”[2].

 

1. Sineddoche, Gotham City: la metamorfosi di Arthur Fleck (I)

Le prime sequenze di Joker ci catapultano agli inizi dell’età neoliberale[3]. Come in una genealogia un po’ distopica ci ritroviamo nella Gotham City dei primi anni ’80, di fatto una New York decadente, sozza, assediata dai ratti e maleodorante: città sineddoche di un’America neoliberale in cui la forbice della diseguaglianza, la precarizzazione e il neo-servaggio sono spinti al diapason e in cui le classi medie sono definitivamente declassate, destinate a ingrossare le fila della protesta populista. Come ha scritto Michael Moore, quella di Joker non è “l’America di Trump, ma l’America che ci ha donato Trump [e] che non sente il bisogno di aiutare gli emarginati, i bisognosi”[4]. La Gotham City del film di Todd Phillips è insomma una città piramidale che condensa in sé tutte le contraddizioni esplosive del capitalismo globalizzato di ieri e di oggi: città sineddoche di un sistema economico che produce mostruosità grottesche e laide oscenità destinate a rovesciarglisi contro[5]. La spazzatura onnipresente nelle strade, ad esempio, è l’evidente rappresentazione del degrado ambientale e della povertà materiale che questo sistema produce. Ma è anche la metafora di una società che – come ha osservato Federico Chicchi – devasta i legami affettivi mercificandoli fino a renderli “ignobili e deliranti”; e che produce una “spazzatura dell’anima” in grado di penetrare a fondo i corpi e deformarli[6].

È insomma un nuovo “disagio dell’in-civiltà” quello che Todd Phillips mette in scena filmando la squallida Gotham City[7]. Sullo sfondo di questa città malata si svolge la campagna elettorale che vede candidarsi a sindaco, con l’arroganza tipica di chi abita saldamente le vette dell’oligarchia, il magnate neoliberista Thomas Wayne: padre del futuro Batman che nel film compare una sola volta, bambino. A Gotham City vive Arthur Fleck, un uomo quasi-psicotico seguito da servizi psichiatrici disastrati nello sfacelo del Welfare. Arthur è afflitto da un sintomo che lo domina nelle situazioni di maggiore tensione: una risata compulsiva che rappresenta “il cuore stesso della sua soggettività”[8]; un ridere “estimo” (intimo ed esterno) che, per tutto il film, “ride di Arthur”[9]. Arthur lavora mal pagato nella precarietà come clown di strada e vive prendendosi cura come può della madre malata, senza avere mai conosciuto il padre. Ignorato da tutti, questo “clown senza padre” sbarca a malapena il lunario[10]. Sognando però, da improbabilissimo imprenditore di se stesso, di diventare un comico noto, capace di calcare le scene dorate della società dello spettacolo. Quest’ultima è incarnata nel film da un personaggio squallido come Murray Franklin (Robert De Niro): la star del talk-show televisivo più seguito del momento che Arthur idolatra.

Contro le immagini di sogno diffuse dalla società spettacolare, la vita agra di Arthur si snoda però tra miserie ordinarie – un lavoro avvilente, una vita affettiva frustrante, un quadro famigliare patologico, l’abitazione in un “palazzo orrendo” (come lui stesso dirà all’empatica vicina di casa) – e traversie meno ordinarie: il licenziamento in tronco, una prima aggressione subita da un gruppo di ragazzini che lo malmenano in strada, una seconda da parte di tre broker di Wall Street che dopo avere molestato una ragazza lo aggrediscono in metropolitana. È qui che, compiendo un triplice omicidio con la pistola regalatagli da un collega di lavoro – la stessa pistola che gli era costata il licenziamento per essergli caduta di tasca mentre lavorava in un ospedale per bambini -, Arthur inizia a divenire Joker. Il rito di passaggio – di un passaggio all’atto psicotico che appare ad Arthur come l’unica strada per il riscatto – è segnato da una prima danza folle che avvia la metamorfosi con cui Fleck rifiuta il ruolo di “macchietta” che gli viene continuamente attribuito. Da questo momento non si ride più: sul cartello di lavoro in cui campeggiava la scritta “Don’t forget to smile” rimane soltanto “Don’t smile”.

Arthur prende così congedo dall’imperativo al felicismo idiota con cui la società neoliberale dello spettacolo soffoca l’espressione del disagio sociale favorendo il montare della psicosi collettiva[11]. E, proprio nel momento in cui gli viene tagliata l’assistenza psicologica – unica sponda sia pure malferma contro la sofferenza quotidiana -, inizia a realizzare le condizioni drammatiche in cui lo ha ricacciato l’austerità neoliberale. “I just hope my death makes more cents than my life”, scrive sul suo diario, evocando così – attraverso il lapsus della parola cents al posto di sense – la perdita di senso della vita in una società nella quale il capitalismo si fa religione e il denaro acquista valore teologico[12]. Intanto il suo gesto omicida fa breccia nelle masse e avvia una rivolta scomposta che prende a bersaglio Thomas Wayne. Anche dopo questa prima svolta, Arthur continua a prendersi costantemente cura della madre, convinta di essere stata in passato l’amante proprio del ricchissimo Wayne. A cui per questo scrive decine di lettere implorando un aiuto economico. È Leggendo una di queste lettere che Arthur scopre di poter essere figlio del magnate e decide di spingersi edipicamente verso una sofferta ricerca della verità.

 

2. Da vittima sacrificale ad angelo sterminatore: la metamorfosi di Arthur Fleck (II)

La metamorfosi giunge così ad una nuova  stazione. Arthur comincia a smettere di obbedire alla madre come un bimbo. Più che di avergli taciuto di Wayne, sembra imputarle di averlo spinto per tutta la vita ad essere felice senza averne il motivo: di averlo forzato, cioè, a soffocare l’espressione del proprio disagio con l’ingiunzione a riderci sopra; di averlo spinto a ridere su ciò di cui avrebbe dovuto piangere, dandogli a intendere di “essere al mondo per portare gioia e risate”, come lui stesso – quando ancora nulla lascia prevedere che diventerà Joker – racconta a Murray. Lo fa durante una puntata dello show nella quale il cinico conduttore lo circuisce facendo leva sul suo vuoto di paternità, sussurrandogli all’orecchio che rinuncerebbe a tutto pur di avere un figlio come lui. La reale intenzione di Murray però è tutt’altra: è quella di alzare lo share televisivo facendo di Arthur un fenomeno da baraccone su cui investire per le future puntate. Arthur lo capirà in ospedale, dove si reca per assistere la madre improvvisamente colpita da ictus. Nella tv della sala d’aspetto vede infatti Murray mandare di nuovo in scena la performance precedente, facendosi beffe di lui e ribattezzandolo “Joker”.

Uscito dall’ospedale, Arthur cerca il potente Wayne per comunicargli di esserne il figlio. Lo trova in un teatro e ci si scontra. Il magnate lo picchia dopo avergli rivelato cinicamente che la madre lo ha adottato mentre prestava servizio come domestica. Dopo avere ricevuto un invito da Murray per la prossima puntata dello show, Arthur-Edipo scopre in un archivio della città che Wayne ha detto il vero e che, per di più, da piccolo ha subito ripetute violenze dai fidanzati della madre. Il sintomo torna allora a dominare spavaldo e la metamorfosi procede spedita. Intanto Arthur ha reciso anche l’ultimo tenue filo di empatia che lo legava alla vicina di casa e, per suo tramite, al mondo esterno. Scivola così al termine dell’abisso. Il Super-io materno è definitivamente smascherato, insieme all’imperativo alla felicità che ne discendeva incastrando Arthur nel gorgo della malattia. L’unica possibilità per uscire dal gorgo – sembra pensare Arthur ormai completamente allucinato – è tornare in ospedale e uccidere la madre. Se la sua vita è sempre stata una tragedia ora può finalmente diventare “una cazzo di commedia”, come lui stesso dirà. Compiuto il matricidio, Arthur si ritrova solo, vuoto, privo di legami istituzionali e affettivi. Scopre così dentro di sé una terrificante “linea di forza” che alimenta la sua metamorfosi e produce nuovi “sogni di libertà”: una libertà che, dietro l’illusione della rinascita, si rivelerà innanzitutto “ombra e morte”[13].

D’un sol colpo allora salta anche l’imperativo al godimento indotto dal Super-io sociale che, innestandosi su quello materno, aveva portato Arthur a interiorizzare luttuosamente gli assiomi felicisti e idioti della società neoliberale. Il trauma della rottura con il Super-io materno e con quello sociale permette a Joker di nascere sopprimendo Arthur, e chiudendo i conti con il suo sogno di calcare le scene della società dello spettacolo. Ed è proprio un luogo dello spettacolo – lo show di Murray – quello prescelto dal neonato “super(anti)eroe cinico e spavaldo” per completare il proprio battesimo di fuoco[14]. Prima di recarsi allo show Arthur si allena allo scopo. Mentre danza per festeggiare la morte della madre, riceve la visita di un collega ipocrita che finge di volerlo confortare. In realtà vuole soltanto evitare di finire nei guai. Vuole sapere, cioè, se Arthur ha raccontato alla polizia di avere ricevuto in dono da lui la pistola con cui ha ucciso i tre broker. Nel suo divenire Joker, Arthur ha così un facile pretesto per farlo fuori con franca efferatezza e proseguire la metamorfosi. Scende la scala sudicia del Bronx – dove sembra perdere la sua goffaggine danzando finalmente lieve, gaudente, dionisiaco – e attraversa la città messa a soqquadro dalla rivolta. Raggiunge gli studi televisivi e si fa annunciare come Joker. La metamorfosi sta per terminare.

Dopo l’ingresso sulla scena dello show, Joker danza ancora con eleganza e bacia teatralmente un’ospite sulla bocca. Poi, dopo avere rivelato di essere l’assassino della metropolitana, chiede a Murray: “cosa ottieni se metti insieme un malato di mente solitario con una società che lo abbandona e poi lo tratta come immondizia? Te lo dico io che cosa ottieni: ottieni quel cazzo che ti meriti”. E lo uccide. La violenza mortifera del sistema si ritorce contro il sistema stesso. La civiltà individualista dello spettacolo, che promette bagliori a tutti, ha mortificato ogni residua aspirazione di Arthur al riconoscimento individuale e ora si mostra apocalitticamente per quello che è: “il cattivo sogno della moderna società incatenata”[15]. Recise le catene, il sogno di Arthur si rovescia nell’incubo di Murray. D’altro canto – si sa – lo spettacolo non è che “il capitale a un tal grado di accumulazione da divenire immagine”[16]. La società dello spettacolo non è che la società del capitale a uno stadio tecnologicamente avanzato. Ed è questa stessa società – sostiene Phillips – ad avere trasformato Arthur da “vittima sacrificale” in “angelo sterminatore”[17]. È in questa veste che, dopo l’attacco al sistema spettacolare, lo vediamo attraversare di nuovo la città[18]. Questa volta però lo fa da Joker, per godersi la rivolta dei perdenti come lui che agiscono per imitazione e lo innalzano a simbolo-eroe. Così, si ritrova involontariamente a capo di una moltitudine (s)composta da tanti individui atomizzati: un “popolo” tenuto insieme soltanto dal significante vuoto Kill the rich! esibito sui cartelloni. È questo lo slogan a cui Arthur ha fornito concretezza con il suo passaggio all’atto omicida.

Durante la rivolta, Wayne viene ucciso da un manifestante e il piccolo Bruce – futuro Batman – assiste. È un’altra sequenza  genealogica con cui Phillips ci mostra la nascita di Batman dallo spirito della vendetta. Che cosa farà infatti Batman se non passare la propria vita di super-eroe a vendicare la morte del padre, candidato a diventare il ricco despota della città? Ruzzola a terra ogni mitologia à la Cristopher Nolan. Batman non è affatto il paladino della giustizia tout court – sembra dirci Phillips. Non è il difensore degli oppressi, il servitore nobile della comunità che quest’ultima scambia a torto per il criminale Cavaliere oscuro. Se Batman combatterà l’oligarchia di Gotham City non sarà certo per instaurare il regno dell’uguaglianza sociale. Piuttosto sarà per “tornare a dar corpo al mito coltivato dal genitore, quello di un capitalismo letteralmente mascherato da autentico progresso sociale”: un capitalismo mai “disposto ad azzerare disparità di censo solo attutite da paternalistici progetti riformisti”[19]. Batman non è che l’“idealizzata controfigura del self-made man celebrato dalla democrazia liberale statunitense”: l’ alfiere di un neoliberalismo che si pretende illuminato[20]. Quello bambino che Phillips ci mostra en passant, è destinato a diventare il vendicativo difensore “della fittizia giustizia borghese”: ed è di quella giustizia che, con la sua azione, Joker mostra “la trama nascosta”[21].

 

3. Joker: tra crisi dell’ideologia americana e critica della rivolta pulsionale

Nella Gotham City rappresentata da Phillips non c’è più alcuna speranza di un’emancipazione collettiva che possa rinascere dalle ceneri del sogno americano. In Joker c’è piuttosto un corpo a corpo serrato con lo sguardo, in fin dei conti apologetico, su quel sogno che ancora prevaleva nella trilogia di Nolan. Subentra cioè la lucida consapevolezza che “non si dà un capitalismo dal volto umano”, né esistono “privilegiati rispettosi del bene pubblico”[22]. Phillips disvela così il lato osceno del super-eroe e di tutto l’immaginario DC comics e Marvel, alzando il velo sull’“inganno che ci ha portato da bambini a vedere Batman e lo stupido Robin come dei salvatori”[23]. Non per questo, però, il film ci rinchiude nell’identificazione con Joker. Al contrario, gran parte della sua potenza critico-espressiva – potenza che risiede sostanzialmente nella capacità di favorire la “metamorfosi della coscienza” dello spettatore, permettendole di “affinarsi in una forma più ricettiva” e di sottrarsi così alla malia fascinatoria delle immagini spettacolari[24] – consiste proprio nel permetterci di interrompere l’identificazione con il perdente: quell’identificazione che nella prima parte del film, la pars destruens, era culminata nell’inevitabile godimento dello spettatore di fronte allo spettacolare omicidio dei tre broker[25]. È quando il film ci mostra tutta la straniante violenza nichilista di Arthur abbattersi senza freni sui nemici, sui vecchi amici e perfino sulla madre malata, che l’identificazione cede il passo alla distanza.

Per questo, come ha sostenuto Slavoj Žižek contro molte letture correnti, Arthur-Joker non è presentato da Phillips “come una figura in cui identificarsi”[26]. O, per meglio dire, non è presentato soltanto come una figura in cui identificarsi. Come si è visto, infatti, nella prima parte del film Phillips utilizza gli stilemi del cinema spettacolare per spingere lo spettatore al falso movimento dell’identificazione con Arthur, ossia con il perdente che sfoga la sua giusta rabbia sui perfidi e ricchi broker. Lo fa però subordinando gli aspetti spettacolari del film e la cattura senso-motoria dello spettatore alla sua “emancipazione” finale: emancipazione le cui condizioni di possibilità maturano nella seconda parte del film, quando gli aspetti critico-espressivi prevalgono fino a diventare dominanti. Per questo Joker non può essere considerato un film populista. Nemmeno di un populismo buono, o di sinistra, che sarebbe capace di dare voce a una nuova politica di classe[27]. Per le stesse ragioni, contrariamente a quanto ha scritto Michael Moore, Joker non può essere visto di per sé come il film che ci connette a un “nuovo desiderio […] di alzarci e di lottare”[28]. Il personaggio di Joker, infatti, non riesce a dar forma ad alcun desiderio se non a quello della vendetta. Non c’è in lui nessuna possibilità di generare nuovo desiderio. Joker è animato, piuttosto, da una pulsione compulsiva che lo riconduce continuamente al punto di partenza, al sintomo che lo domina, alla risata che lo ride: è prigioniero di un loop ossessivo che lo rinchiude in un perverso circolo vizioso.

È un “essere pulsionale”, pieno di risentimento antipolitico e incapace di desiderio. Il desiderio infatti “implementa un’interruzione”, e lo fa “schiudendo una nuova dimensione” a cui Joker non arriva mai[29]. I suoi passaggi all’atto sono solo “impotenti esplosioni di rabbia” che si avvitano in una violenza priva di qualsiasi potenzialità comune. Conducono perciò  all’esplosione di una rivolta pulsionale e cieca con cui finiscono per coincidere. La pulsione di morte che guida Joker – una pulsione che pure è inevitabile attraversare se ci si vuole liberare dalle “illusioni relative all’ordine esistente” – non apre ad alcuna prospettiva politica[30]. Ciò che ne deriva è quindi una protesta (auto)distruttiva priva di contenuto: una protesta in cui la pulsione non sa farsi desiderio. Dalla mossa di Joker non può nascere nessuna soggettività politica, ma solo “una nuova tribù” di cui egli si pone alla guida[31]. Phillips ci invita a non fare parte di quella tribù. La rivolta di cui Joker è il simbolo, infatti, riproduce e potenzia lo stesso “stato d’animo fascista” entro il cui contesto sorge[32]: è una rivolta populista incapace di contrastare sia i rapporti di forza egemoni che i valori dominanti. È una rivolta moralista e fascistoide che rischia di trovare ben presto un nuovo capo peggiore dei precedenti e il cui “nichilismo radicale” richiede necessariamente “una controparte falsamente morale per affermare sé stesso”[33]. Non è un caso che Joker abbia bisogno di un Murray da immolare come capro espiatorio e che, fin dal falso movimento con cui dà avvio alla sua nuova identità, resti incagliato nella “negatività astratta, incapace com’é di proporne una concreta”[34].

Dopo la repressione della rivolta il finale del film ci ripresenta Arthur, ormai divenuto Joker, di fronte alla psicologa di un ospedale psichiatrico-giudiziario. Un inquietante taglio nero iniziale ci introduce alla ricomparsa spettrale del sintomo-risata. Il sintomo torna a prendersi la scena e a dominare la soggettività di Joker. Questa volta il dominio sembra definitivo. Diventando Joker, Arthur è divenuto la risata stessa: una risata che ormai non si può più distinguere dal pianto. La rivolta pulsionale è stata sconfitta sia fuori che dentro Joker. All’impotenza politica della violenza nichilista fa da pendant l’interiorizzazione definitiva del comando a ridere. Joker ha perduto per sempre la sua lotta contro il sintomo con cui ha finito per coincidere. Ora Joker è la sua risata, pronta di nuovo ad esplodere nel ghigno risentito e sadico che ben conosciamo. Nell’ultima sequenza del film lo vediamo andarsene camminando come Charlot nell’epilogo di Modern Times. A differenza di Charlot, però, Joker è perduto e sa di esserlo. Non ha nessun compagno accanto. È privo di direzione e lascia pedate sporche di sangue dietro di sé. Alla fine danza di nuovo, poi corre avanti e indietro senza senso. Vinto.

 

Conclusione

È, questo, un finale (in)felice che ci permette di prendere congedo tanto dall’edificante saga di Batman – ossia dal misero immaginario della società neoliberale in cui Joker infila senza remore la sua lama tagliente – quanto dalla perfida violenza di Joker e della rivolta populista che egli guida. È il finale amaro di un film che, come è stato sottolineato, rappresenta perfettamente la sterile “degenerazione di una rabbia giusta” e in questo modo pone gli spettatori di fronte a un vuoto politico da colmare[35]. Contro l’egemonia persistente degli assiomi neoliberali e la tentazione della rivolta pulsionale occorre praticare un’indocilità riflessa capace di progettare la trasformazione radicale dell’esistente. Bisogna costruire, cioè, un orizzonte desiderante comune finalizzato a disincagliare il presente dal vicolo cieco in cui si trova. Joker, che “non teme di esibire la pulsione di morte come una delle sue intenzioni costitutive”, sembra suggerirlo[36]. Anche per questo è un film profondamente politico. È un buon esempio di cinema critico-espressivo che ci permette di “riconoscere e modificare il carattere traumatico dell’esperienza”[37]. Ed è quanto basta allo spettatore, che da ogni sequel forzato sarebbe ricondotto nel solco narcotizzante del cinema spettacolare.

 

NOTE: 

[1] F. Berardi Bifo, Soglia & cosmopoiesi, in Argonline.it, 15 maggio 2020, on line.

[2] Ibidem.

[3] Su questo, cfr. O. Malatesta, Una risata vi seppellirà, in Jacobin, 27 ottobre 2019, on line e A. Freedman, It’s Morning in Joker’s America, in Jacobin, 10 gennaio 2019, on line. Che il film sia ambientato nei primi anni ’80 – scrive Freedman – non è affatto un caso. Sono infatti quelli gli anni in cui “la classe operaia multietnica subiva la sconfitta storica del sindacato e tagli massicci alla rete di sicurezza sociale”. E sono anche gli anni in cui, mentre ciò accadeva, Reagan “sorrideva in televisione”. Sono insomma gli anni in cui le politiche neoliberali e il programma del populismo di destra venivano veicolati attraverso le immagini di sogno della nuova società dello spettacolo. Martin Scorsese lo tematizzava già in Re per una notte (1983), il film a cui – secondo Freedman – Joker “deve di più” e al cui “mileu oscuro” Phillips e lo sceneggiatore Scott Silver “hanno attinto pesantemente”. Non stupisce allora che proprio Scorsese sia stato “uno dei primi sostenitori” di Joker.

[4] T. Perry, 5 of the most powerful quotes from Michael Moore’s viral Facebook post about Joker, in Good, 10 october 2019, on line.

[5] Cfr. B. Mauffret, Le grotesque et les enjeux politiques de la laideur. Réflexion autour du film Joker de Todd Phillips, in Postscriptum, 29, 2020, on line.

[6] F. Chicchi, Come trasformare The Joker in Joker, in Commonware, 04 Novembre 2019, on line.

[7] Ibidem. Sull’(in)civiltà del godimento intesa come la “formazione societaria che si inscrive all’interno di quello che Jacques Lacan ha definito il «discorso del capitalista»”, e sul modo in cui questo “si esercita sulle vite” proprio attraverso l’ingiunzione al godimento, cfr. Id., Soggettività smarrita. Sulle retoriche del capitalismo contemporaneo, Bruno Mondadori, Milano, 2012, pp. 94 e ss.

[8] S. Žižek, Una lettura perversa del film d’autore. Da Psyco a Joker, Milano, Mimesis, 2020, p. 35.

[9] F. Chicchi, Come trasformare The Joker in Joker, cit.

[10] S. Benvenuto, Clown senza padre, in Le parole e le cose, 19 novembre 2019, on line.

[11] Cfr. I. Dominijanni, La maschera di Grillo-Joker, in Internazionale, 17 ottobre 2019.

[12] Sulla “teologia del denaro” tramite cui la potenza del capitale impone il suo comando sulla vita sociale, cfr. M. Pezzella, Insorgenze, Jaca Book, Milano, 2014, pp. 105-200.

[13] F. Parode, M. Zapata, N. De Oliveira Junior, O devir-negro no filme Coringa, in Passagens, 1, 2021, on line.

[14] F. Chicchi, Come trasformare The Joker in Joker, cit.

[15] G. Debord, La società dello spettacolo, Milano, Baldini & Castoldi, 2008, p. 59.

[16] Ivi, p. 64.

[17] A. Tricomi, Maschere del populismo: su “Joker” di Todd Phillips, in Le parole e le cose, 21 ottobre 2019, on line.

[18] A proposito del gesto di Joker contro Murray, Guillaume Basquin ha parlato di “dynamitage du spectacle”. G. Basquin, Une charge anticapitaliste, in En attendant Nadeau. Journal de la littérature, des idées et des arts, 5 novembre 2019, on line.

[19] A. Tricomi, Maschere del populismo, cit.

[20] Ibidem.

[21] F. Chicchi, Come trasformare The Joker in Joker, cit.

[22] A. Tricomi, Maschere del populismo, cit.

[23] F. Chicchi, Come trasformare The Joker in Joker, cit.

[24] M. Pezzella, Estetica del cinema, Il Mulino, Bologna, p. 18.

[25] In questo senso, Tricomi sostiene correttamente che Joker ci consegna “il poetico ritratto di uno degli innumerevoli loser contemporanei su cui gli attuali populismi tentano i loro esperimenti di macelleria sociale”. A. Tricomi, Maschere del populismo, cit.

[26] S. Žižek, Una lettura perversa del film d’autore, cit. p. 26.

[27] Per una lettura di questo tipo, cfr. C. Formenti, Joker, il giustiziere “populista”, in Micromega.net, 25 ottobre 2019, on line, dove la figura di Joker diventa “il simbolo dell’odio di classe nell’era in cui le classi hanno perso rappresentanza politica e consapevolezza collettiva della propria identità”. Joker sarebbe quindi il simbolo e la maschera di un “populismo del popolo”: un populismo scatenato “nella metropoli gentrificata che ha vomitato fuori di sé le classi popolari”.

[28] S. Žižek, Una lettura perversa del film d’autore, cit., p. 27. L’obiettivo polemico di Žižek è il già citato post scritto a caldo su Facebook da Moore e riportato in T. Perry, 5 of the most powerful quotes from Michael Moore’s viral Facebook post about Joker, cit.

[29] Ivi, p. 28.

[30] Ibidem.

[31] S. Žižek, Una lettura perversa del film d’autore, cit., p. 36.

[32] Per la categoria di “stato d’animo fascista”, cfr. M. Pezzella, Il fascismo come «stato d’animo»: Mario e il mago di Thomas Mann, in Altraparola, 2, 2019 e Id., Il fascismo da stato d’animo a regime: “Vincere” di Marco Bellocchio, in Le parole e le cose, 3 luglio 2020.

[33] S. Žižek, Una lettura perversa del film d’autore, cit., p. 31.

[34] Ivi, p. 32.

[35] O. Malatesta, Una risata vi seppellirà, cit.

[36] Le parole citate, con cui Pezzella descrive la forza critico-espressiva del film di Pasolini Salò, o le 120 giornate di Sodoma, mi sembrano utilizzabili anche nel caso di Joker. M. Pezzella, Estetica del cinema, cit., p. 49.

[37] Ivi, p. 18.