La febbre costante del capitalismo pandemico. Recensione a “Capitalismo in quarantena” – di Andrea Cengia

La febbre costante del capitalismo pandemico. Recensione a “Capitalismo in quarantena” – di Andrea Cengia

27 Ottobre 2021 Off di Francesco Biagi

Anselm Jappe è un filosofo molto attento alla condizione sociale odierna. Più in particolare la sua formazione lo porta ad occuparsi dei temi relativi alla produzione e alla circolazione delle merci. Il punto di osservazione che qualifica le analisi di Jappe si rifà alla lettura di Marx attraverso l’interpretazione della cosiddetta scuola della critica del valore. È anche alla luce di queste premesse che diviene importante Capitalismo in quarantena, testo che Jappe elabora collettivamente assieme a Sandrine Aumercier, Clément Homs e Gabriel Zacarias ed ora proposto in edizione italiana grazie all’editore Ombrecorte. Si tratta di una lettura della realtà sociale contemporanea che ha due caratteristiche di rilievo. In primo luogo, il testo propone di confrontarsi con i più recenti accadimenti economico-sociali. Il volume ha inoltre un merito ulteriore. Perché grazie ad esso si permette al lettore italiano di seguire la messa alla prova di alcune categorie elaborate, tra gli altri, da Robert Kurz. Come anticipa il titolo del volume, l’intento degli autori consiste nel provare a mettere in relazione e innescare una riflessione sul tema del rapporto tra capitalismo e condizione pandemica. La tesi degli autori è più volte ribadita nel testo e può essere sintetizzata da questa sua efficace formula: «siamo di fronte a una pandemia socio-naturale legata al capitalismo» (p. 27). Già qui sorgono alcuni interrogativi in merito, quantomeno, al tema della continuità e della discontinuità nel procedere del processo di valorizzazione. Quest’ultimo in che modo è stato condizionato a livello planetario da una pandemia globale? Gli autori sostengono che l’evolversi della condizione pandemica non ha trasformato le premesse strutturali che reggono il rapporto «tra Stato e economia nel capitalismo, tra salute e profitto, tra normalità e stato di eccezione» (p. 9). A conferma di questa tesi portante del testo, nell’Introduzione si afferma che «la pandemia di Covid-19 è l’acceleratore, ma non la causa della situazione di crisi globale della società capitalista mondiale» (p. 14). Sotto le apparenze che si possono percepire, gli autori individuano un processo ben più profondo e radicale: l’«esaurimento strutturale del capitalismo» (p. 15). Si tratta di un fenomeno non nuovo, originatosi agli inizi degli anni Sessanta. Il punto di partenza di quest’analisi è ricavabile dalla congiunzione due elementi: Covid-19 e crisi del modello economico dominante. Per gli autori «l’insieme del processo di crisi fondamentale, che investe anche la forma-soggetto moderna e le sue ideologie di esclusione (razzismo, antisemitismo, antiziganismo, populismo produttivo neonazionalista, socialdarwinismo ecc.), deve essere il punto di partenza dell’analisi e delle riflessioni sulla crisi del coronavirus e dei relativi interventi statali» (p. 15). Certo, questo non preclude ad una estrema dinamicità della situazione in cui ci troviamo. Lo scenario è in evoluzione oggi e lo era anche nel momento in cui Jappe e gli altri autori hanno elaborato le loro riflessioni. È possibile tuttavia segnare alcuni passaggi significativi. Ad esempio, da un lato gli Stati emergono dalla pandemia con rinnovato potere, anche nel senso della riproposizione del primato della politica, dall’altro gli stessi mostrano le fragilità strutturali delle proprie macroeconomie o le incapacità delle classi dirigenti a porvi rimedio.

 

L’impostazione del testo è particolarmente importante perché non offre un’indagine della crisi pandemica considerandola una forma priva di relazioni con il contesto economico e sociale astoricamente considerato. Al contrario gli autori inseriscono la crisi pandemica nella più generale crisi sincronizzata del capitalismo intendendo con questa espressione la fotografia scattata dal FMI. Insomma, nel contesto del «doppio shock dell’offerta e della domanda» (p. 62) il FMI sanciva il rallentamento globale[1]. Lo stesso termine ‘rallentamento’, viene da aggiungere, è una delle parole-spettro del modo di produzione capitalistico votato alla valorizzazione del valore, come avrebbe detto Marx. Che ruolo ha giocato il virus in questo contesto? Quello di acceleratore di tendenze di medio-lungo periodo. Queste ultime erano già in corso per motivi immanenti al modo di produzione e quindi non sono state generate ex-novo dall’esplosione della pandemia globale. Inutile anche cercare di retrodatare la causa della crisi di accumulazione in corso. Meglio piuttosto porre l’accento sul legame genetico tra modo di produzione e crisi, ossia sul fatto che non vi è nessun ‘progresso’ garantito nel procedere del sistema economico mondiale. L’immagine che ne descrive l’andamento non può quindi essere quella propria della filosofia della storia, della cavalcata inarrestabile e trionfale, dove gli ostacoli via via incontrati sono puntualmente spazzati via. In questo momento in particolare, paradossalmente, il peggior nemico del modo di produzione capitalistico è se stesso in quanto esso convive con insanabili contraddizioni che si sviluppano sotto la sua superficie. Potremmo dire che è questa la logica specifica dell’oggetto specifico. In cosa consiste? Nella prospettiva qui proposta essa è frutto del processo di valorizzazione che «tende a espellere massicciamente dalla sfera della produzione la forza lavoro che crea plusvalore, come ha dimostrato Marx in tutta la sua critica dell’economia politica» (p. 18). Il discorso degli autori appare qui, per sua esplicita ammissione, debitore alla riflessione teorica di Robert Kurz. Sul rapporto tra espulsione massiccia di forza lavoro e valorizzazione, nel senso individuato da Marx nel Libro I e nel Libro III del Capitale, molto è stato scritto. In altre parole, la razionalità e la coerenza interna del modo di produzione avrebbe meritato uno spazio di discussione da parte degli autori. Non è tuttavia su questo punto che il testo insiste in quanto, evidentemente, l’urgenza espositiva punta altrove. Perciò appare opportuno concentrarsi sulla diagnosi esposta dagli autori in cui si descrive il modello sociale del modo di produzione capitalistico come quello di una «società autofaga e autodistruttrice» (p. 19). In questo contesto generale si colloca il caso particolare del neoliberismo, il quale, a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, ha favorito la «moltiplicazione esponenziale del capitale fittizio» (p. 19) rispetto all’economia strutturata sul capitale reale. L’oggetto teorico fondamentale che l’opera cerca di cogliere è il «limite interno del capitale» (p. 19) che, nella prospettiva qui affrontata, avrebbe ormai raggiunto il punto di non ritorno. Posto questo, le crisi periodiche non sarebbero che i costanti sussulti delle contraddizioni del modello economico dominante. All’origine di questo processo vi è quella che Marx ha definito modificazione della «composizione organica del capitale»[2], e che gli autori descrivono come «un processo di “desostanzializzazione” della sua sostanza, il lavoro astratto, e questo, inesorabilmente, a causa della sua stessa logica di funzionamento» (p. 19).

Il testo descrive il nostro orizzonte sociale come quello della «inversione» in cui si assisterebbe al dominio del capitale fittizio su quello reale. E a tal proposito gli autori non mancano di descrivere i più significativi momenti storici di questa affermazione. Si tratta di una descrizione tanto sintetica quanto efficace ed informata, che parte dalla fine degli anni Settanta e arriva al capitalismo delle piattaforme.

È alla luce delle caratteristiche intrinseche del modo di produzione capitalistico e quindi delle sue contraddizioni interne che gli autori intendono interpretare la situazione pandemica. Per farlo gli autori si muovono controcorrente prendendo le distanze dall’interpretazione offerta da molte autorità pubbliche, secondo la quale il virus sarebbe una disgrazia naturale che avrebbe portato la malattia all’interno di un corpo economico-sociale sano. Si tratta di un punto politicamente centrale. L’accettazione di questo paradigma interpretativo ha lo scopo politico di anestetizzare qualsiasi critica al sistema sociale corrente. Del resto, se l’economia mondiale prima dell’emergenza Covid-19 era in salute, l’obiettivo sociale da perseguire sarebbe quello di tornare alla situazione precedente. Viceversa, è facile comprendere come si possano aprire qui spazi politico-sociali di critica radicale al modello economico le cui fondamenta sono tutt’altro che robuste. A margine è possibile notare come, dal punto di vista economico-politico, sia di scarso interesse individuare il momento zero che ha dato inizio alla pandemia: un passaggio di specie? o la fuga del virus da un laboratorio mal custodito?

Un pregio indiscutibile del testo è, ad avviso di chi scrive, quello di saper racchiudere in poche righe una serie di argomentazioni in grado di dare conto del nesso tra capitalismo e pandemia, chiamando in causa una serie di dichiarazioni e argomentazioni che possono certamente proporre un quadro interpretativo fondamentale per il lettore. Perciò, come sottolinea lo stesso autore «il Covid-19 ha seguito la stessa traiettoria dei flussi del turismo di massa e degli affari, dei lavoratori migranti e delle catene di produzione globali che utilizzano rotte aeree, ferroviarie e crocieristiche (funziona anche con le portaerei)» (p. 32). Si pensi, ad esempio, all’impatto del turismo cinese in Italia.

La parte centrale del testo si sofferma sul tema della decisione politica, quella «di far cadere il capitalismo mondiale in un coma» (p. 37) una decisione politica assolutamente senza precedenti. Il tema che si presenta è caratterizzato con tutta evidenza, da una straordinaria attualità, anche se le considerazioni di Jappe e degli altri autori sono state elaborate nei mesi passati. Anche oggi infatti non manca nel dibattito pubblico il tema della reazione politico-sociale alla crisi. Qui il libro, citando Kurz, propone di comprendere in che modo l’intreccio delle varie forme sociali capitalistiche sapranno confrontarsi criticamente con il loro feticcio, il «feticcio del capitale» (p. 44). Si tratta di un tema centrale anche nelle riflessioni di altri studiosi, tra tutti, Roberto Finelli[3]. Come sia stato possibile che i decisori politici abbiano messo in coma il capitalismo? La risposta a questo quesito è affrontata dagli autori in pagine molto dense di interrogativi e di ipotesi di risposta che si dipanano attraverso la ricostruzione storica proposta. Una risposta che non manca di affrontare il tema del rapporto tra cittadinanza e potere politico, considerando in particolare gli esiti delle elezioni in diversi paesi, dove sono emerse, tra le altre, le figure politiche di Trump e Bolsonaro. Una delle amare conclusioni degli autori è che la crisi del Covid-19 produrrà una «paradossale affermazione del “primato della politica”» (p. 59) dove lo Stato sarà chiamato (anzi lo è già) ad amministrare la situazione disastrosa ereditata.

Volendo sintetizzare, uno dei punti di forza del testo consiste certamente nel fornire al lettore una prospettiva in grado di mettere assieme, senza scadere in una meccanica sovrapposizione, crisi pandemica e crisi ‘capitalistica’. Colpisce inoltre un ulteriore elemento. Si tratta della capacità degli autori di porre in una prospettiva globale i vari eventi che vengono interpretati e messi in relazione. Il testo è in grado di proporre ipotesi interpretative dei processi in corso, con uno sguardo privilegiato alle dinamiche di finanziarizzazione economica, molto stimolanti. La consapevolezza, più volte espressa, è che la crisi pandemica sia un acceleratore di processi di lungo periodo già pienamente attivi prima dello scoppio dell’emergenza sanitaria. In questa prospettiva, dove il ruolo degli stati e delle banche centrali sembra espandersi senza controllo e ben al di là delle rispettive capacità ‘tecniche’, gli autori adombrano il manifestarsi dei prodromi di altri momenti di crisi che attraverseranno l’economia globale, indipendentemente dalla questione del Covid-19. Quella che è stata efficacemente definita come la «prima unificazione microbica del mondo» (p. 28) offre inoltre scenari sociali di grande interesse. Gli autori riescono a descrivere efficacemente l’effetto dei cambiamenti degli ultimi mesi su differenti gruppi sociali. Nel rifiuto della fine della ‘normalità’ precedente si addensano figure sociali tra le più disparate e distese in differenti continenti.

Tra le ‘verità’ emerse con la crisi pandemica vi è quella del ruolo sociale delle istituzioni scolastiche. Non si può non essere d’accordo con gli autori nel segnalare come il sistema scolastico sia percepito socialmente come «un sistema di preparazione al mondo del lavoro e alla concorrenza del mercato del lavoro», privo di «posti vacanti» e di imprevisti (p. 100). Queste riflessioni portano a pensare che, al di là di quanto descritto nel libro, la pandemia ha mostrato un altro aspetto della realtà scolastica. Ciò che è emerso in particolare consiste precisamente nella messa a nudo della estrema fragilità che caratterizza la retorica della sovrapposizione tra gli obiettivi della scolarizzazione e il sistema produttivo. Quanti lavori e impieghi hanno visto esaurire la loro funzione in questi mesi? Quanti altri ne sono sorprendentemente sorti? Non si può certo pretendere che la scuola si armi di doti previsionali o divinatorie nell’individuare e formare in tempo reale dei cittadini-lavoratori subito formattati per le professioni che di volta in volta la contingenza economica andrà reclamando. La pandemia non ha forse mostrato, al contrario, che la scuola è il luogo della formazione secondo tempi e modi che hanno altri ritmi da quelli del mercato? La pandemia potrebbe configurare l’occasione di un irrobustimento delle strutture scolastiche, dei programmi e del sistema di trasmissione dei saperi che non sia fatto, ad esempio, di improbabili competenze che gli studenti dovrebbero acquisire senza passare attraverso forme di apprendimento rispettose dei tempi e dell’acquisizione della cultura necessaria. Si ritiene quindi, che solo da un percorso siffatto, e senza scorciatoie, si possano formare figure di cittadini in grado di gestire flessibilmente emergenze e rapidi cambiamenti attraverso robuste chiavi interpretative legate alla cultura. L’ipotesi opposta è quella di formare uno studente in grado solo di applicare quanto imparato secondo le domande di un mercato del lavoro che, nel frattempo, semplicemente non c’è più.

Tornando alla riflessione proposta veniamo informati che «lo scenario più probabile rimane purtroppo il tentativo di tornare al business as usual, e anche peggio di prima» (p. 111). Torna di nuovo la lotta di tutti contro tutti, a vari livelli. A causa di ciò, i rischi per un’accettazione sociale della sorveglianza rischiano incrementi significativi. Da questo punto di vista il testo individua, non certo a torto, nella presenza preponderante delle tecnologie digitali, un alleato fondamentale dei processi di controllo e di incremento dei processi produttivi. Come segnalano gli autori in tono amaro, la deriva del dibattito pubblico non percepisce più come «oscena» (p. 117), come invece accadeva fino a non molti anni fa, l’idea che il mondo non sia una merce. Cosa mantiene in piedi un modo di pensare diventato ormai impossibile? Per gli autori la risposta è semplice: il fascino feticista per la merce. Cresce tuttavia un sentimento trasversale di diffidenza e di urgenza che non va sottovalutato. A fare da sfondo vi è un processo di crisi economica che non ha esaurito i suoi effetti.

Per concludere, al di là delle lucide e mai banali analisi degli autori, a me pare che uno dei meriti scientifici del testo di Jappe, Aumercier, Homs e Zacarias sia di restituire un quadro del tempo presente più articolato di quanto non avvenga in alcuni dibattiti a mezzo stampa. La chiave interpretativa appare chiara anche perché rende conto delle differenti posizioni. Tra tutte le opinioni in campo, il testo propone un confronto con quella di Giorgio Agamben, di cui gli autori mettono in risalto alcuni limiti, in particolare il carattere astorico della sua prospettiva teorica. C’è, infine, un altro aspetto che sembra opportuno rilevare. In molti passaggi centrali del testo, gli autori si appoggiano direttamente all’affresco sul modo di produzione capitalistico fornito da Marx. Le citazioni sono scelte in maniera molto significativa. Ad esempio, è a Marx che va riferita l’analisi secondo cui il capitalismo azzera lo spazio attraverso il tempo[4], così come è sempre Marx a considerare la dimensione impersonale, ubiqua del modo di produzione. A partire da qui viene spontaneo riflettere sul fatto che la cassetta degli attrezzi marxiana appare ancora oggi contenere delle armi della critica in ottimo stato di funzionamento. È grazie a questa imprescindibile radice teorica che i lettori più sensibili alle istanze emerse dal testo dovrebbero comporre la propria riflessione analitica, quale premessa fondamentale per la propria azione politica.

 

Note:

[1] https://www.ilsole24ore.com/art/l-fmi-promuove-bce-e-fed-hanno-difeso-l-economia-guerra-dazi-ACiBKyr

[2] Karl Marx, Friedrich Engels, Opere complete 31.1: Il capitale Libro primo: Il processo di produzione del capitale (1863-1890). Tomo 1, Roberto Fineschi (a cura di) , Napoli, La Città del sole, 2011, p. 679.

[3] Roberto Finelli, Karl Marx, uno e bino: tra arcaismi del passato e illuminazioni del futuro, Milano, Jaca Book, 2018.

[4] Karl Marx, Grundrisse. Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica Vol. I, (tradotto da) Giorgio Backhaus, Milano, Pgreco, 2012, p. 150.