Riflessioni di Savater sopra la nozione di malattia mentale e le relative sue concezioni (seconda parte) – di Piernicola Marasco

Riflessioni di Savater sopra la nozione di malattia mentale e le relative sue concezioni (seconda parte) – di Piernicola Marasco

15 Ottobre 2021 Off di Francesco Biagi

[Pubblichiamo la seconda parte del saggio di Piernicola Marasco, Riflessioni di Savater sopra la nozione di malattia mentale e le relative sue concezioni.]

 

Abbiamo lasciato il filosofo Savater alle prese con la nozione di malattia mentale e con la sua radicata convinzione che il modello di malattia impostato dalla tradizione medica abbia ancora senso, capacità euristiche, efficacia pratica solo in riferimento alle cosiddette malattie d’organo – polmoniti, pleuriti, ulcera gastrica, pancreatiti – e, in ambito psichiatrico, alle malattie neurologiche, come le neuropatie, il Parkinson, ad esempio, alle quali la nozione ben si addice e la cui concezione è per esse indispensabile a fini sia diagnostici, sia prognostici che terapeutici. Ma per ogni altra forma di sofferenza, le tante che il manuale di psichiatria, il DSM, elenca – le nevrosi ad esempio, le così denominate parafilie, con il loro corteo di vecchie perversioni -, l’etichetta di malattia mentale è impropria – infeconda sul piano pratico, se non controproducente –, e coloro che preferiscono seguitare per abitudine o per comodità ad adottarla, devono farlo con la consapevolezza che adoperano una metafora: parlano di queste varie forme della sofferenza umana alla stessa maniera con la quale si parla di una società malata. Ciò che non è riconducibile allo schema interpretativo della malattia non è di nessuna utilità considerarlo tale; ciò che allo schema interpretativo della malattia non è riconducibile va messo in conto invece ad una disfunzione della comunicazione. Prima abbiamo cercato di intendere cosa Savater intendesse per comunicazione e le particolari forme comunicative la cui disfunzione può essere fonte di disagi e di sofferenze. Ma se a questo punto arrestassimo il discorso intrapreso da Savater gli faremmo il torto di non completare il suo pensiero e di fraintenderlo, perché le disfunzioni comunicative che hanno incidenza “patologica”, per comprenderne la funzione, sono da considerarsi dal punto di vista della responsabilità o, come scrive, della libertà;[1] avevo interrotto l’esame del pensiero di Savater proprio sulla forma comunicativa che segnalava come significativa: quella che attiene all’affermazione su di sé, che è, che ha valore di espressione del soggetto. In altre parole, il disturbo psichico assume la sua “forma” da una comunicazione infelice, che si distende, si svolge entro una relazione significativa per il soggetto: è allora che lo scambio comunicativo nella sua distorsione nega dell’interlocutore la peculiare soggettività. Ma, data questa prospettiva, che ha il suo punto di fuga, il punto verso il quale tutte le linee si dirigono e convergono, nella soggettività, l’uso analogico della nozione di malattia rivela il proprio significato puntuale solo se viene messa al vaglio di un’idea di libertà, esercitata da o negata a chi soffre il disagio, ed al vaglio di uno spazio di responsabilità, inculcata o a lui affidata entro determinate realtà relazionali e comunicative.

Così, come per introdurci con intelligenza dentro il significato di disturbo comunicativo è stato necessario imporre ai nostri pensieri due passi entro l’universo della comunicazione, e così venire a capo di come intenderla e come la intenda Savater, così è altrettanto indispensabile aggirarsi oggi attorno alla questione della libertà. A proposito, sorge un problema, un momento di perplessità, che ammetto di comprendere e che lascia anche me in uno stato di vaga incertezza. Il problema è perché, in un corso di psicologia, invischiarsi in un tema filosofico come quello della libertà?  In un contesto di filosofi credo che una domanda simile non sarebbe stata mai posta, perché la cornice in cui precedentemente ho posto il pensiero di Savater ha già anticipato la risposta. Tra psicologi, in corso o in fieri, la domanda ha invece un suo senso. Provo ad impelagarmi lungo una serie di argomentazioni tramite le quali approdare alle rive di una soddisfacente spiegazione alla domanda. Sul momento, in proposito, posso fare solo un’allusione, sulla quale, tuttavia, invito tutti a riflettere. Nell’esercizio professionale dello psicologo l’incontro con altre persone, per le ragioni più varie, è la regola. Ed è stato detto, si ripete fino alla noia, che fanno parte della cassetta degli attrezzi dello psicologo saper ascoltare, ricostruire il mondo soggettivo dell’interlocutore, restituirgli una soggettività delusa; se non voglio che “ascolto”, “mondo individuale”, “soggettività” non siano puri e banali suoni, non c’è dubbio che ogni interpretazione che sarò capace di dar loro dipende dalla concezione della libertà, che nel tempo è in noi maturata, che tacitamente condividiamo. Parlare di soggetto è far riferimento ad un individuo che è in grado di agire in proprio: prendere posizione, formulare pensieri, fare affermazioni, assecondando una libera scelta di cui si assume la responsabilità.

 

Se porre in primo piano un disturbo comunicativo comporta una sorta di invito a fare i conti con la «questione della libertà», si rende indispensabile sia mettere a fuoco ciò che la tradizione ha appurato e tramandato in proposito – anche se non sempre con successo -, sia rintracciare le tante riflessioni che sul tema sono state fatte e si fanno nell’età della cosiddetta tarda modernità.

In genere al medico, allo psichiatra ed allo psicologo sfugge che la libertà, di cui tanto parlano ed eventualmente godono, è di un genere del tutto particolare, anche nel senso che non ha niente a che spartire con il ripetuto adagio: “Sei libero di fare ciò che vuoi purché la tua non limiti la libertà altrui”. La realtà è diversa e nella sua diversità impone della libertà una differente concezione. Le opzioni del soggetto sono libere, «non nel senso che provengono da un puro e incondizionato libero arbitrio, ma perché lo pongono di fronte a circostanze» cosmiche, politiche, economiche, educative e terapeutiche, e sono circostanze che il soggetto non ha scelto, delle quali spesso non ha sentore, quali esattamente siano e quasi sempre né il come, né il perché siano in quel modo e non in un altro. Ora, come può definirsi totalmente libera una scelta che avviene in circostanze che il soggetto non ha scelto, la cui esistenza, le cui regole lo precedono?  Nelle situazioni in cui si viene a trovare al soggetto non tutto è ammissibile, ma solo le alternative di scelta che la situazione gli concede, e il soggetto tocca con mano la illusoria fallacia dell’adagio citato: “non può fare ciò che vuole”. La situazione, per definizione, ammette infatti solo diversi tipi di condotta, ed è tra di essi che l’uomo è sollecitato a fare le sue scelte, a optare in favore di quella che ritiene più opportuna secondo questo o quel criterio. La libertà, dunque, ha senso solo nei termini di scelte strettamente dipendenti dalla situazione: ovvero, la “libera scelta” non ha senso se si ritiene di assolverla in termini assoluti: in questi termini, al contrario, nonostante quel che si dice in proposito, una scelta non è mai libera. Un atto di scelta manifesta la condizione di libertà in cui si realizza solo se avviene nei termini delle «alternative di scelta contenute nella situazione, tra quella migliore – più buona – e le altre che lo sembrano meno». Mentre, ahimè, spesso cadiamo nel tranello di sentirci obbligati ad un’opzione radicale tra il “Bene” e il “Male”.

 

Se la libertà è solamente libertà-in-situazione, se la situazione è la condizione della responsabilità, nelle varie circostanze la cui successione scandisce la vita, la dimensione etica si attiva ogni qualvolta che si costituisce una situazione e in essa si rendono possibile e praticabili alcune alternative di scelta. E le situazioni che si possono dare sono numerose e variabili e mai l’una sovrapponibile ad un’altra. Inoltre, in ognuna di esse la scelta non si rappresenta in una alternativa secca e stabile, perché ogni atto di scelta è sempre successiva ad altre due scelte: l’una, riguarda la scelta dei criteri di giudizio che si intende adottare; la seconda, riguarda la valutazione, la validazione dell’applicabilità o la pertinenza dei criteri prescelti alla situazione in cui l’uomo si trova ad agire. In questa maniera la libertà si esercita in tante situazioni e in ognuna di esse tramite tanti criteri, quanti corrispondono o meno ai giudizi indispensabili a compiere le scelte. Il problema della libertà, quindi, non è semplice ma problematico, niente affatto elementare, e non si lascia liquidare con una breve definizione. Per di più, a proposito delle scelte dei criteri di scelta – non sto facendo un giuoco di parole –, Savater in maniera innovativa afferma che la scelta dei criteri, ai quali le scelte debbono necessariamente rispondere, segue alcune strade preferenziali, quelle dettate dal «carattere degli individui e dalle loro scelte precedenti».[2] Cioè, tra i criteri da scegliere, relativi alla pertinenza loro con la situazione, Savater pone in primo piano i criteri adottando i quali il soggetto si riconosce in una continuità con le scelte e le azioni compiute in precedenza; criteri, cioè, che appartengono alla storia del soggetto ed alla fisionomia che il soggetto ha preso nel corso della propria esistenza.

Se le cose sanno in questi termini sono ineludibili alcune conseguenze: la soggettività non la si coglie, né si declina se non entro determinate situazioni; al soggetto non è dato riconoscersi se non nello specchio di certe situazioni, nello stesso specchio che riflette anche agli interlocutori la fisionomia del soggetto; a determinare le situazioni concorre proprio lo stesso soggetto, con la fisionomia che gli è propria, “riflessa” nelle azioni scelte con maggior o minor grado di responsabilità nel corso della propria esistenza.

 

A questo punto mi viene da aggiungere, mi preme porre in giuoco, per avermi profondamente colpito, un’ulteriore affermazione di Savater. Riferendosi alla propria convinzione contraria all’opinione , che trova del tutto erronea, che la vita dell’uomo malato, anche adulto, e la vita dei bambini si risolva in uno stato di irresponsabilità, Savater se ne esce con l’affermazione che segue: «Coloro che sostengono che i soggetti in conflitto con la società non sono liberi dicono qualcosa di simile a chi osserva che i bambini non sono liberi».[3]

Le credenze che i bambini non siano liberi, che non siano responsabili, che non sappiano ciò che fanno inducono Savater a ricostruire la loro esistenza entro il seguente quadretto di vita: i bambini, posti nei contesti di vita che gli adulti si sono fabbricati – non è fuori luogo, ma più fedele alla realtà dire «nei quali gli adulti sono calati ed ai quali si sono più o meno adattati»–, non sanno che pesci pigliare, perché del mare magnum in cui nuotano i grandi poco o niente sanno, non conoscono i fondali, i suoi abitanti, i pesci, i suoi confini, le coste. Certo, vivendo in famiglia o nelle prime classi di scuola, i bambini entrano a far parte di circostanze nelle quali operano anche gli adulti. Ma una stessa circostanza oggettiva – ad esempio, la riunione attorno alla tavola per il pranzo – acquista per i bambini un significato particolare, diverso da quello che ha per gli adulti. Leggendo con attenzione il “quadretto” che Savater ha consegnato al lettore, risulta evidente che ha introdotto una distinzione tra termini come “circostanza”, “contesto” e “situazione”, che in genere consideriamo sinonimi e come tali adoperiamo. Suggerisce al contrario, di parlare di circostanza, quando si vuol far riferimento ad una condizione che, ad un’unità di luogo e di tempo, unisce un’unità di scopi, sicché viene a differenziarsi da ogni altra di quelle circostanze la cui successione costituisce il mondo della vita. Si parla di “circostanza” quando dal flusso continuo di avvenimenti ed azioni giornaliere si isola, identificato per una sua supposta unità, un frammento della vita quotidiana. Rientrano nella configurazione di “circostanze” le suddivisioni del quotidiano in “tempo di lavoro”, “tempo della casa” e “tempo libero”. Con il termine “contesto di vita” Savater distingue per una loro supposta omogeneità gli ambiti di esistenza, “circoscrizioni” della vita quotidiana che fanno riferimento a “provincie di significato”. Dall’una e dall’altra, da circostanza e contesto, distingue la situazione, termine che Savater assume nella prospettiva suggerita alla parola dal suo etimo: situ/azione, rimanda al «luogo dove si svolgono le azioni dei soggetti», a quello spazio concreto che prescrive le reali alternative tra le azioni possibili e prevede le concrete possibilità di scelta che il «luogo» detta e permette. Nella definizione di situ/azione giuoca un ruolo decisivo il nesso stringente che si stabilisce tra «azione» e «luogo», tanto che sono le azioni responsabili – nelle loro possibilità di alternativa – a delimitare lo spazio delle scelte possibili, a definire il cosiddetto «luogo», che non fa affatto riferimento ad uno spazio fisico in cui il soggetto pone in atto le proprie azioni – l’aspetto fisico dello spazio ha in tale contesto solo un carattere strumentale -. Si fa invece riferimento ad uno spazio virtuale delimitato dalle azioni di cui si può portare la responsabilità di una scelta, ovvero del luogo in cui concretamente e fattivamente si esercita la possibilità di una scelta.

Introdotta simile distinzione, si comprende che teoricamente i tre termini non sono riducibili l’uno con l’altro, e che una singola circostanza né si riduce ad un solo contesto, né ad una singola situazione. Consideriamo, a esempio la circostanza “cena” – l’occasione in cui una famiglia intera si riunisce ad un tavolo per consumare il pasto della sera – e la valutiamo in termini di situ/azione – di luogo dove si svolgono le azioni dei soggetti -, la sala da pranzo, il raccogliersi seduti attorno ad uno stesso tavolo per “mangiare insieme” è per i piccoli un “luogo” ben diverso dal “sito” che la stessa circostanza rappresenta per gli adulti. Una sola, unica circostanza – la riunione della famiglia attorno al desco – prende l’aspetto di due in situ/azioni del tutto diverse. Uno è il luogo delle azioni degli adulti, il perimetro in cui gli adulti compiono le loro azioni, secondo regole prestabilite e per fini determinati, nel cui spazio, tra le azioni programmate, gli adulti compiono le loro scelte; altro il luogo delle azioni e il nesso azioni e scopi in cui, pur sedendo allo stesso tavolo con gli adulti, si muovono i bambini e nei quali è a essi possibile compiere le loro scelte. Per ogni adulto le azioni che richiedono la sua responsabilità sono di un certo livello al quale i bambini – che niente sanno delle regole e degli scopi di tali azioni – non hanno accesso: non sanno assumersi alcuna responsabilità. Certo che, per ogni adulto, che identifica la “sua” situazione con le condizioni dettate dalla realtà e la ritiene pertanto comune a tutti i partecipanti – un adulto identificato nella sua età (esaurito nel suo adultismo) -, i bambini appaiono inevitabilmente ai suoi occhi incapaci di responsabilità. Accade così che in detta unica circostanza – nella condivisione del desco familiare – la strutturazione delle “situazioni”, che definiscono il campo delle azioni possibili e stabiliscono le alternativa di scelta tra le azioni possibili, si dispone seconde due livelli disgiunti: uno per gli adulti ed uno per i bambini, e forse andrebbe indagato se per le giovani età le alternative tra situazioni che si possono creare non siano varie, e magari distinguibili tra campi di azione dell’infanzia, della fanciullezza e della adolescenza. Il fatto è che per il bambino, che attraversa lo stesso frammento di vita familiare, questo frammento costituisce una “situ/azione” diversa dalla forma situazionale che esso assume per l’adulto, cosicché delle azioni che costituiscono l’esperienza dell’adulto egli non porta alcuna responsabilità.

Questa la differenza che passa tra una concezione come quella che Savater suggerisce – ed io di cerco di mettere a fuoco – e l’altra, che va per la maggiore e che vari ragionamenti cercano di dimostrare fondata, sull’irresponsabilità dell’infanzia: per quest’ultima il bambino non ha ancora sviluppato capacità di assumersi responsabilità e, per la sua piccola età, per la poca esperienza acquisita, vive in una condizione di irresponsabilità. Per la prospettiva introdotta da Savater, delle “cose dell’adulto” il bambino non ha responsabilità, nel senso che di esse non porta alcuna responsabilità, che è e rimane solo adulta. Certo, il bambino si comporta in maniera irresponsabile di fronte alle situazioni ed alle azioni proprie degli adulti! Così agli adulti appare, ma il bambino così si comporta non perché non sia capace di responsabilità, ma perché di fronte a “cose estranee” che non attengono alla propria sfera di responsabilità. Le responsabilità infantili si misurano solo in quelle “circostanze di vita” che divengono concrete “situazioni” per i singoli bambini. Parlare di responsabilità dei bambini in circostanze di vita “pre-viste” – nel senso di anticipate rispetto alle concrete situazioni dell’infanzia -, secondo la situazione che rappresentano per l’adulto, e giudicare le condotte infantili con questo metro, costituisce un errore marchiano: errore che comporta il rischio di concludere frettolosamente che i bambini sono irresponsabili fino a quando non acquistano, con il raggiungimento della maggiore età, la piena capacità di assunzione di responsabilità. Le cose stanno altrimenti: l’età che noi adulti chiamiamo “maggiore” non è altro che un’approssimazione arbitraria che cerca di definire il momento in cui, crescendo, il giovane comincia a condividere con gli adulti le modalità con cui le varie circostanze della vita si organizzano in “situazioni di adulti”. La maggior età non si identifica con un’età nella quale lo sviluppo, la maturazione della psiche raggiunge un livello al quale corrispondono le assunzioni di responsabilità; indica, piuttosto, il momento in cui il “fu-bambino” mette i piedi entro i luoghi “adulti” e abbandona le situazioni proprie dell’infanzia, nelle quali – Savater non ha dubbi – il bambino aveva fino allora esercitato le proprie responsabilità.

Eppure, non questo ultimo, ma il precedente è il modo più comune e diffuso di vedere le cose, almeno per quanto riguarda i bambini: concezione per la quale gli adulti sono – si sentono – legittimati a sostituirsi a loro nelle decisioni, ad “agire in vece” della loro responsabilità “assente” (di fatto “negata”), e, se necessario, a privarli della libertà di scelta, convinti di non privarli di niente: solo in apparenza limiteremmo la loro libertà, perché di essa di fatto non disporrebbero.

Errore non solo teorico, dunque, ma «banalità» – avrebbe scritto la Arendt – attorno alla quale si attorciglia il “male”, e per la quale si apre la strada che conduce gli adulti a condotte autoritarie, pone gli adulti su di un terreno scivoloso fino ad assumere e giustificare comportamenti disumani: cos’è un uomo – si interroga Savater -, anche se piccolo, cui viene sottratta la libertà, ovvero, la possibilità di scegliere tra atti che la propria condizione di vita consente, che la “situ/azione” prescrive e permette?

 

Questo lungo ragionamento circa l’infanzia, che ho restituito forse in maniera confusa, che dimostra come una stessa circostanza costituisca per l’adulto e il bambino situazioni diverse, mi offre occasione di una serie di riflessioni alle quali chi pratica psicologia non può non essere interessato. Non lo può perché si connette, quale conseguenza logica – proprio perché discende logicamente da una premessa, da una determinata concezione della libertà – al costante accostamento alla malattia mentale del tema dell’incapacità di intendere e di volere di cui è vittima il folle. Siamo infatti abituati pensare in termini di analogia che coloro che cadono malati si comportino – e ci si attende che in tale modo si conducano – come chi non ha raggiunto ancora, come si è soliti dire, la “maggiore età”, non a caso detta età della ragione. Non è casuale nemmeno, ma, nel modo su accennato estremamente logico, che si imputi ad uno stato di malattia cosiddetta mentale una tendenza alla regressione; che si dica e si legga che chi è malato “regredisce”; che uno stato di regressione sia chiamato a spiegare, nella veste di meccanismo fondamentale del fenomeno patologico, il disturbo psichico; che i sostenitori della psicopatogenesi del disagio mentale considerino la regressione la conditio sine qua non del disturbo psichico

Ma la nuova concezione dell’infanzia suggerita da Savater sembra a me costituire un baluardo di fronte a condotte educative sbagliate; sicuramente non offre alcuna scusante a situazioni preconfezionate o ad atteggiamenti autoritari. Si offre, anzi, anche come orizzonte di una serie di concrete risposte a problemi di ordine educativo e non può disinteressare chi intende spendere le conoscenze psicologiche apprese o nel lavorare nelle scuole o negli ambiti della salute di soggetti, come si dice, in età evolutiva.

La prima osservazione che faccio è che educare alla responsabilità coincide con l’aiutare il giovane a esercitare la personale responsabilità nelle proprie situazioni di libertà: a indicare ai giovani, ad aiutarli a capire e a difendere le condizioni di libertà, lasciandoli liberi delle loro scelte, a rischio di sbagliare. Niente è più formativo di una disposizione alla responsabilità che si è formata nell’esercizio di un giudizio che a posteriori si esprime sulle scelte precedenti, anche in senso negativo. Si pensi all’espressione che i “grandi” usano per convincere i giovani allo studio: «Studia perché quel che studi ti sarà utile da “grande”»; «non perdere tempo, studia, da grande lo rimpiangerai». Ecco individuato il piano delle motivazioni valide: poiché forse è vero che da grande quel che si è studiato serve e che si può un giorno rimpiangere quel che non si è studiato. Ma il bambino si chiede: «Che cos’è il grande? Quando si diventa grandi? Come posso rappresentarmi la vita dei grandi?» e non gli risulta facile capire, perché si allude ad una situazione che per il bambino è di là da venire. Ponendosi di fronte al bambino con suddetto atteggiamento, lo si distrae dalle specifiche “situazioni” nelle quali potrebbe esercitare concretamente, fattivamente la propria responsabilità; se neghiamo al piccolo questo esercizio delle proprie responsabilità con l’idea di prepararlo a responsabilità future e da adulto, l’educazione alla responsabilità si esaurisce in un processo di ammaestramento a schemi di condotta ed a valori, di cui, per non aver un preciso referente, sfuggono gli intimi significati. Il giovane si arresta ad un bivio: o, visto che non capisce, fa orecchi da mercante, lascia dire gli adulti e cerca conforto nelle situazioni proprie, che riesce a difendere; o si limita ad accontentare gli adulti – o per evitare le punizioni e le brutte figure o per non dispiacere loro – e memorizza le parole prive di senso, in cui i grandi credono e a cui danno tanto valore; quando non capiti invece che, nel tentativo di capire cosa significhi “vivere da grandi”, prenda a seguire ossessivamente gli adulti che gli stanno attorno e, provando ad imitarli, divenga un “maestro delle imitazioni”, oppure, dopo aver visto bene come scorra la vita dei grandi, concluda: «Ma non mi conviene restare bambino?».

 

Torniamo al tema della libertà, attorno a cui ruota quello della responsabilità e della costituzione del soggetto, considerandolo alla luce del pensiero postmoderno. Abbiamo finora visto, e credo che pochi non concordino, che la libertà umana è una libertà condizionata. Vista la connotazione negativa che hanno termini come “condizionamento” e “libertà condizionata”, meglio sarebbe usare l’espressione libertà situazionata, espressione che è preferibile anche perché più corrispondente all’idea che la libertà prende forma solo entro determinate “situazioni”, anche se Savater, quasi provocatoriamente, forza il proprio ragionamento: «Se non esiste condizionamento, non si dà libertà, né scelte etiche».

Tale “liberatorio” condizionamento risale, a suo avviso, a due ordini di fattori: vi concorre, infatti, tutto ciò che, stando a me dintorno in quel determinato momento, contribuisce a fare “situ/azione”, cioè, a configurare il “luogo” delle mie possibilità di agire: luogo concreto in cui trovo gli oggetti della mia attività e i fini per i quali la predispongo; condizionamento che Savater definisce trasversale. Esiste, tuttavia, una seconda possibilità di un condizionamento, definito da Savater longitudinale, il quale si esercita in due maniere: la prima riguarda sempre ciò che mi sta d’attorno, che mi è presente e mi preme, valutato in quest’ottica non solo per quel che è, ma per quel che è stato e sarà, in altre parole, valutato sia per la storia che ha, sia per il futuro, quale direzione già segnata nel e dal passato. Quel che ora è, non è solo quel che è: è anche una realtà che, dopo essere stata qualcosa di altro, tende a trasformarsi in un’altra forma per il futuro prossimo o venturo. Il presente influisce sopra la determinazione della situazione anche per quel che è stato, come per quel che sarà; la “situazione” registra nelle sue configurazioni anche le sollecitazioni ad andare in una direzione determinata, verso la quale si incammina a nostra insaputa e spesso contro la nostra volontà; a questa trasformazione che i contesti in cui mi trovo subiscono nel tempo posso oppormi in maniera limitata, anche se in modo ancora significativo. A illustrare come intenda questa maniera, Savater porta l’esempio di come, quando si guida una barca a vela e il vento soffia da una certa direzione, per andare dove si vuole giungere, è necessario sfruttare il vento. Al vento il buon velista non si oppone, pur tenendo ferma la rotta.

Ma il condizionamento, scrive Savater, che ho  arbitrariamente definito longitudinale, esibisce anche un’altra faccia che guarda in viso lo stesso soggetto: il quale ha una storia e tende, a volte a sua insaputa, verso un futuro. Savater ritiene di grande importanza – e sicuramente rappresenta il contributo più originale del filosofo basco -, rispetto al problema della libertà ed all’esercizio della responsabilità, la storia del soggetto: «Uno dei fattori che più influiscono su ciascuna occorrenza concreta di libertà morale è la somma dei risultati anteriori all’uso di questa stessa libertà: la libertà orienta e – in una certa misura – condiziona la libertà stessa».[4]

Il giudizio etico, dunque, non si esercita sopra i singoli punti dell’esistenza in cui ogni azione si compie, né su un singolo punto si arrabatta a confrontare l’azione svolta con un modello astratto che permetta di discriminare le azioni buone da quelle cattive – e naturalmente anche quelle sane da quelle malate -; al contrario, se la libertà è qualcosa che si declina dentro un progetto, l’etica fonda la «propria  valutazione sull’insieme di quello che ciascuno individuo va facendo di se stesso».[5] In altre parole, gli spazi di libertà sono “condizionati” in quanto fondati da quel che il soggetto ha già fatto, compiuto e da quel che farà – o intende fare -, secondo una prospettiva nella quale il presente implica un’azione che “dura nel tempo”, e che Savater rende con l’espressione di uno “star facendo”: un percorso che nasce da un’origine e mira a una meta.

Una storia, quella del soggetto, che interessa non tanto per quel che può risultare interessante per una fedele biografia, ma in quanto ruota attorno alle vicende che identificano il soggetto e sottolineano la soggettività del protagonista: storia che fa leva sul grado di responsabilità cui il paziente ha avuto accesso nel “suo” fare storia. Da ciò discende, come da una favola, una “morale”: ogni cosa fatta con gradi di responsabilità limitati nuoce ad ogni successiva adozione della responsabilità, ne limita l’espansione; così come ogni atto partecipato e responsabile, al contrario, invoca e evoca un sempre maggior grado di responsabilità. Savater ha ragione quando scrive che non si possono trascurare gli «effetti delle scelte precedenti», né «sopprimere individualmente la somma storica di numerose volontà che hanno scelto contemporaneamente».[6]In questo senso, nella storia personale, prossima al significato di autobiografia, il punto, il momento in cui si svolge un’azione – ogni azione che si voglia prendere in esame – è sempre un punto di arrivo ed insieme un punto di partenza di un viaggio che, iniziato, prosegue, di un viaggio che è già intrapreso in prospettiva d’un viaggio di nuovo conio: «Nessun punto raggiunto per una serie di libere opzioni precedenti esonera d’ora innanzi dalla responsabilità morale».

Questa prospettiva teorica, che il sostenitore dell’etica come amor proprio ha introdotto, può risultare difficile – ostica, se non ostile –, alla comprensione – e alla condivisione – dei più, perché mette al centro della dimensione etica il soggetto, in contrasto con molte altre teorie e con le più abituali concezioni morali che portano l’attenzione sopra valori extraindividuali. Molti vedono nella tendenza cui Savater dà corpo un vero e proprio pericolo; altri una sorta di degenerazione dell’etica. Ma bisogna conoscere Savater, prima di esprimere un giudizio netto sopra il suo operato, bisogna rendersi conto in che maniera usa quell’amor proprio che dà il titolo al suo libro, nonché il suo convincimento per il quale, se è vero che «in campo morale ciascun soggetto è responsabile anzitutto verso se stesso», il se stesso di cui parla il filosofo basco è «il centro di una geografia di relazioni associative e dissociative con il resto del mondo».[7] Direi di più: il soggetto è anche il fulcro intorno a cui ruota e si svolge un intreccio di storie, lo snodo in cui la storia personale ruota attorno a quella familiare e l’una e l’altra alla storia sociale.

 

Non posso, proprio non riesco a non sviluppare parte del lavoro di Savater per quel che ritengo significativo e utile a chi si trova professionalmente impegnato – o intende farlo in futuro – in ambiti sia educativi che sanitari. Riprendo alcune delle sue considerazioni – a volte le sue stesse parole – che predicano che gli spazi di libertà, dove si esercita la responsabilità individuale, sono fondati da quel che il soggetto ha già fatto e da quel che farà o intende fare; la prospettiva per la quale il presente implica un’azione che “dura nel tempo”, lo rappresenta nella specie dell’istante di «un percorso che nasce da un’origine e mira a una meta». Una considerazione come questa spalanca a me una finestra sul mondo, dalla quale guardare e riguardare il vasto giardino in cui si aggirano le anamnesi, la ricostruzione di una storia del cosiddetto paziente.

Ma quale storia interessa? Il medico nello stendere nella cartella clinica la storia del paziente porta la propria attenzione a tutti gli incontri con una qualche malattia in cui il paziente si è imbattuto: inizia con il domandare se è nato da un parto regolare o meno, quali malattie infantili abbia avuto – il morbillo, la varicella? -, se è femmina, i tempi e le regolarità del ciclo mestruale e, così procedendo, risale al presente. E per quanto riguarda la storia delle relazioni familiari, l’anamnesi registra solo le eventuali malattie genetiche dei genitori e dei collaterali. In ambito psicologico l’anamnesi, la raccolta della storia del paziente, pagato il pedaggio di una dipendenza alla medicina – non solo teorica ma anche di prestigio sociale – riserva un elenco delle stesse domande, ma si arricchisce di nuovi particolari storici, che coincidono con i momenti delicati dello sviluppo: come ha vissuto lo svezzamento, chiede lo psicologo, la nascita eventuale di un fratello, il rendimento scolastico, la vita affettiva e sessuale, l’inserimento lavorativo: una storia del soggetto che interessa per quel che è andato a buon fine e quello che ha mancato il bersaglio. Siamo comunque lontani da quanto si auspica Savater, dall’interesse che ha manifestato «alle vicende che identificano il soggetto e sottolineano la soggettività»  del protagonista della “sua” storia. Si tratta, in poche parole, di risalire da una biografia ad una sorta di autobiografia. È opportuno fare iniziare ogni anamnesi dal racconto che il soggetto fa della sua storia, consapevoli, Savater ammaestra, che nel dettare la sua storia il paziente descrive il suo presente: delle vicende trascorse elenca quelle, solo quelle, che gli ricordano non tanto il presente, ma che il suo presente giustifica, sostiene ciò che del presente il soggetto ritiene fondativo. Ammesso che nella storia personale, prossima al significato di autobiografia, il momento in cui si svolge un’azione è sempre un punto di arrivo ed insieme un punto di partenza di un viaggio che, iniziato, prosegue, non è difficile comprendere che, nello stendere una storia di se stessi, gran parte del proprio passato non interessi più, se non addirittura sia necessario al paziente rimuovere ogni particolare che vanificherebbe il suo presente. Solo, in seguito, lo psicologo può iniziare a ripercorrere e ricostruire assieme a lui l’anamnesi, e nel farlo abbia l’accortezza di abbandonare il registro che valuta gli accadimenti col metro dello “è andata bene o è andata male”, che è il metro di valutazione sociale di ciò e di come ci si aspetta che vadano le cose. Ma non possiamo scordare che ci sono adattamenti che sono riusciti, sono andati a buon fine, ma che per il paziente sono stati un dramma, hanno richiesto, quindi, una perdita secca in termini di soggettività; al contrario, si sono attraversati momenti conflittuali e confusi, che si sono conclusi in un guadagno di soggettività.

Lasciatemi tuttavia il tempo di riflettere su questa mia ultima affermazione, di correggermi. Le mie parole, infatti, potrebbero dare adito a un equivoco: presentano la soggettività nelle vesti di un bene, che può crescere, “arricchirsi”, o diminuire, “impoverirsi”. Incredibilmente, a mia insaputa, ho rischiato di rappresentare la soggettività in equivalenza di una sorta di “conto corrente”, che ha un saldo che può esser valutato quantitativamente, e di rappresentare il soggetto nei panni di un titolare di un conto bancario che, quando controlla il saldo, spera in una sua crescita, così come ne teme un “calo”. Non si può concepire la soggettività come una cosa che cresce su se stessa; è, caso mai, una sorta di alone che circonda paesaggi, persone e cose di singole situazioni: corrisponde al grado di responsabilità esercitato nelle singole situazioni.Non riguarda tanto che cosa un soggetto fa ma come lo fa, riguarda meno le scelte che compie e più il modo in cui il soggetto si qualifica in ciò che fa.

 

Proviamo, adesso, a trasferire quanto si è detto sull’infanzia al “malato”, che a ragione può dirsi “paziente” anche proprio per l’esclusione, che la malattia gli impone, da una piena responsabilità delle scelte da compiere: per la ricaduta in uno stato di irresponsabilità, che lo rende simile ad un bambino.

Grazie a questo trasferimento della tematica da un campo all’altro, ci si può rendere conto delle difficoltà di cui è disseminato il rapporto medico-paziente e gli ostacoli che si frappongono a un’esatta concezione – e a un uso appropriato – di quel genere di “patto” di cui oggi tanto si parla e va sotto il nome di consenso informato. Tuttavia, proprio la relazione medico-paziente, quando la si consideri nella nuova prospettiva, illustra meglio di quanto non faccia il rapporto adulto-bambino, il “paradossale” che la attraversa. La perdita di libertà, che viene sancita infatti per i malati, è una condanna, da un lato, ma, dall’altro, un’attenuante: la perdita di libertà si risolve in un vantaggio sia per il povero malato, sia per il medico e lo psicologo. Sul versante dei pazienti, accade che un ladro diviene un cleptomane e un omosessuale non più un vizioso, ma un malato; dal punto di vista dei medici e degli psicologi, costoro vedono le scienze, di cui sono rappresentanti ed interpreti, farsi belle: attribuirsi – non sempre meritatamente – caratteri di altruismo e di umanità.

Savater fa notare che questa prospettiva è utile a tutti: rasserena i pazienti, i familiari e le istituzioni, tutto e tutti “umanizzando”, realtà compresa: fa maturare e crescere la convinzione che la vita scorra con la fluidità di sempre, non presenti soverchi problemi, come la persuasione che la società offra ai suoi membri le categorie per analizzare e risolvere i pochi problemi che restano sul tappeto, e più efficaci strumenti per provvedervi. La medicina e la psicologia vengono incontro all’uomo: lo accostano amorevolmente, mettono a sua disposizione le innovazioni tecniche, da un lato, alimentando le sue speranze, dall’altro, donando una consolazione, “buona” per tutti e per tutte le occasioni; più facilmente vi riesce in chi «preferisce una qualche forma di vile determinismo piuttosto che accettare i rischi e le conseguenze di una libera scelta».

In questa luce, la medicina e la psicologia appaiono scienze progressiste; scienze “umane”, direi, ma non nel senso dyltheiano del termine. Gli interventi medici e psicologici, che derubricano il vizio, il perverso, l’eretico – quante malate mentali finirono al rogo dell’inquisizione – a malattie, appaiono, agli occhi dei più, umanitari e progressisti, in quanto soddisfanno la diffusa tendenza «a considerare “progressista” qualsiasi interpretazione che trasformi i conflitti umani nel risultato meccanico di una necessità materiale, psichica e sociale».

Ci ritroviamo a tu per tu con un carattere ambivalente – detto in senso positivo – che è specifico sia della relazione medico-paziente, sia dell’attività medica; carattere che si riscontra parimenti in ogni contesto didattico, per cui non ne sono immuni né l’azione pedagogica, né la relazione insegnante e allievo. A chiarimento e a dimostrazione della presenza di tale funzione ambivalente, Savater cita il racconto di Matthew P. Shiel, dal titolo La casa dei rumori.[8] Il testo parla della necessità, dell’inevitabilità per l’uomo di trovare nel corso della propria esistenza una casa accogliente, come la chiama l’autore, una «dimora adeguata». L’uomo è portato a “fare casa” di ogni situazione: gli piace sentirsi a casa in famiglia, “far casa” delle strade che percorre e della città che abita; sentirsi a casa a scuola, tra gli amici e nel posto di lavoro. E si ingegna, per quanto gli riesce, di raggiungere lo scopo. E la casa è fatta di “cose”, la cui organizzazione le rende familiari, attribuendo a loro funzione e valori, che anche gli altri, i vari interlocutori del protagonista, condividono. Un luogo accogliente – una “dimora” – per il quale si è disposti a pagare un prezzo. Ecco perché il più delle volte torna conveniente agli adulti, come ai bambini, pensare se stessi nei panni di esseri irresponsabili; ecco perché, quando si cade in malattia, non si rifiuta di decadere dal registro della responsabilità.

Il fatto fondamentale è che non si può fare altrimenti dal cercare una “dimora” – casa che per molti “non ha prezzo” – e di esser disponibili a pagarne il “prezzo”. Ma questo prezzo, nonostante ogni buona intenzione, risulta a volte incredibilmente alto. Ad alcuni le “cose organizzate”, l’ordine in cui le cose si dispongono – più che casa, patria e famiglia –, acquistano la figura di una Macchina, e i “rumori” che accompagnano il suo funzionamento, lo stridore che a volte produce la macchina sociale suona come una campana a morte. C’è sempre un prezzo da pagare per “trovare casa”, ma siccome non tutte le cose vanno in ogni casa per il verso giusto, si dà la circostanza in cui l’abitante si «inquieta e s’addolora», e il suo stato di disagio può salire a un livello tale da motivare il sospetto dell’insorgenza d’una vera e propria malattia. Ad alcuni il mondo diviene insopportabile; costoro «non sopportano il mondo».

Tuttavia, se applichiamo a queste disagiate condizioni i ragionamenti che ci sono stati suggeriti dall’infanzia, la prospettiva con cui considerare un eventuale stato di malattia muta radicalmente e consente di dire che nelle circostanze della malattia – le stesse costituite dall’incontro tra un malato, che soffre di calcoli renali, ad esempio, ed il medico curante -, la stessa circostanza costituisce una determinata situazione per il medico e una situazione diversa per il paziente. Ognuno è responsabile della propria situazione: detto in altra maniera, è la singola situazione che determina le aree delle scelte e delle corrispondenti responsabilità. Della situazione medica, cui una determinata circostanza dà origine, è responsabile il medico e delle scelte che essa impone al sanitario il paziente non ha alcuna responsabilità – nel senso che “non ne porta la responsabilità”, non in quello che lo dice “incapace” -; la stessa circostanza si configura come una situazione etica del tutto diversa per il paziente, che resta in essa e di essa l’unico responsabile. È questa una prospettiva che consente di approfondire, ad esempio, le tematiche raccolte e di studiare le soluzioni soddisfacenti ai problemi aperti dalla problematica del consenso informato.

Non è questa la sede per sviluppare una simile idea – che ci porterebbe lontano -, ma per l’importanza che riveste almeno un cenno va fatto: nel passare le informazioni necessarie a rendere responsabile il paziente della propria salute, il medico non deve confondere le informazioni che sono a lui indispensabili per compiere le proprie scelte operative – di cui resta l’unico responsabile – con quelle che interessano il paziente. Memore della distinzione sostenuta da Savater tra circostanza e situazione, concepisce il rapporto che lo lega al paziente entro la cornice di una circostanza – sa di trovarsi in una condizione in cui è accomunato al paziente da «un’unità di luogo e di tempo […]  di scopi», ma parimenti sa – dovrebbe sapere – che, una stessa circostanza può dividersi per coloro che vi partecipano in diverse “situazioni”. Dentro lo stesso luogo/tempo della circostanza si distinguono due diversi spazi, quelli dove si svolgono le azioni dei soggetti”, le situazioni. Per il sanitario è dunque doveroso interrogarsi in quali situazioni il paziente si trovi prima, durante e dopo l’incontro con lui. Compreso questo, gli sarà più facile, dopo la comunicazione della diagnosi e dei possibili percorsi terapeutici da intraprendere, passare ogni informazione che meglio si confà alla specifica situazione del paziente, chiarificando in quali termini stiano le scelte che gli sono possibili: le probabilità di successo o meno delle soluzioni terapeutiche previste e gli esiti possibili di ogni singolo intervento, la qualità della vita che gli garantisce, i tempi di durata delle terapie, le forme di somministrazione dei farmaci, il senso di sgradevolezza, di fastidio e di dolore che l’intervento è in grado di lenire, come quelli che può procurare: tutti aspetti che vanno valutati in base al peso che possono esercitare sulla vita del terapeuta e del paziente. Su questo è fondata la possibilità di esprimere, più o meno consapevolmente, il proprio consenso.

 

Mi piace terminare questo lungo corso di riflessioni, in cui parole e pensieri miei si alternano a parole e pensieri di Savater, con la constatazione che la prospettiva descritta impone una revisione sia delle finalità che si devono riconoscere ad ogni intervento che un tempo si sarebbe detto sanitario – sia esso o no psicoterapeutico -, sia delle modalità di relazione da stabilire con chi soffre di disturbi psichici. D’altra parte, sono ben convinto che simili approfondimenti contribuiranno non poco alla delimitazione della natura del disagio psichico.

Intanto alcune annotazioni sopra la natura dei sintomi che connotano il disagio mentale. Essendo disturbi della comunicazione intersoggettiva – ed essendo la comunicazione sovradeterminata (come sopra accennato) – anche i sintomi condividono la sovradeterminazione, prestando il fianco a molteplici livelli ermeneutici. Se nella malattia, secondo la tradizione medica, i sintomi derivano direttamente dalle funzioni organismiche alterate – e ne sono il segno – o dalle reazioni con cui l’organismo cerca di ristabilire un equilibrio precario – e sono il segno delle iperfunzioni compensatorie -, nel disagio psichico i sintomi di una «comunicazione distorta, frustrata e impotente» si esprimono anche come tentativi di mantenere in equilibrio un contesto relazionale – parlano i sintomi dei legami che vincolano il paziente a coloro con cui ha stabilito rapporti significativi – o una struttura familiare.

Per quanto riguarda invece la natura del disturbo mentale, il disagio segue ad una sofferenza di giuochi comunicativi relativi all’affermazione di sé, e si presenta come una sorta di malattia dei sistemi di comunicazione e di relazione in cui il paziente si trova, e consiste nell’assenza o nel deficit di spazi relazionali di rispecchiamento, nella privazione di esperienze di libertà, indispensabili fondamenti di un sentimento e di una pratica di autonomia. Il disagio mentale nasce come fastidio, disturbo sorto in seguito agli ostacoli, alle frustrazioni, agli equivoci, alle incompiutezze delle comunicazioni, che, col tempo e col crescere del «rumore della macchina» comunicativa – avrebbe detto Shiel –, si aggrava e si cronicizza, configurandosi come un protratto impedimento sia all’espressione sia al riconoscimento della propria soggettività.

A questo proposito, Savater fa notare che, se il cosiddetto malato patisce le sofferenze e i disturbi, non patisce, invece, alcuna limitazione della propria libertà – qualora sia intesa come nelle righe precedenti – , né alcun restringimento degli spazi di responsabilità: se ha delle limitazioni in ordine alla libertà, sono quelle che afferiscono alle situazioni che condivide con il terapeuta o con i suoi famigliari, ma non la propria – “propria” del paziente, nel senso in cui “proprio” è indicato da Merlau-Ponty, in applicazione al “corpo proprio” -, perché sempre resta a sua disposizione la libertà che gli è concessa dalle situazioni in cui si trova effettivamente. Egli non soggiace a una situazione di “incapacità di intendere e di volere”, ma si trova coinvolto ed avvolto in “situazioni”, dove la sua comprensione e la sua volontà sono ancorate a quelle – e solo a quelle – alternative e modalità di scelta. Queste limitazioni, tuttavia, pongono radici nella sua personale storia, nella sua pregressa esperienza di libertà, per cui, anche indagando nell’anamnesi, – sia che si tratti di una condizione organica limitante, sia di un’esperienza antecedente più o meno traumatica -, la sua libertà prende spunto proprio da quelle condizioni: su di esse si radica e si sviluppa.

Nella terapia, quindi, non è possibile prescindere da queste esperienze; ma non nel senso che non si può prescindere da loro in quanto sono la causa del disturbo presente – e vanno prese in considerazione al fine di eliminarle o correggerle -, ma ad uno scopo del tutto diverso: quello di ripartire dalle vicende trascorse per rintracciare il tipo di esperienza di libertà che ha dato origine al disagio, con lo scopo di ricostruire un percorso – già intrapreso nel passato o almeno annunciato da fatti trascorsi – che conduce ad un maggior grado di responsabilità.

Il fatto traumatico non è soltanto un avvenimento drammatico realmente accaduto ed agisce da “causa” del disturbo di cui al presente il paziente soffre; è la vicenda che al paziente è caduta addosso in una maniera attorno alla quale ruota la propria autobiografia e che resta, pertanto, pietra miliare del percorso della sua esistenza, vicenda che la relazione terapeutica ha il compito di riconoscere, attribuendogli quei significati per i quali essa – che svolgeva e svolge funzione patogenetica – possa assolvere una funzione, se mi si passa il termine, biogenetica. Non sembri questa progettualità strana e utopica. È una possibilità che può esser resa concreta ed attuata dall’intreccio di altre due funzioni parziali: l’esistenza di ognuno, di noi, infatti, svolge una funzione generativa, che provvede all’organizzazione della nostra esistenza; ma anche una funzione mitopoietica in ordine all’assunzione di responsabilità, tramite le quali il paziente potrà – dovrà – prendere in futuro le sue decisioni. Savater dice cose analoghe in questi termini: «La capacità di fabbricare via via la strategia che ogni soggetto sviluppa».[9]

 

Ciò che scrivo – che Savater dice – può sembrare strano e per alcuni, forse, troppo innovativo. Tuttavia, Winnicot, un autore che tutti citano per la sua creatività, lo aveva già scritto, solo che tanto spesso lo si cita e se ne loda la creatività al solo fine di dare respiro all’operato della psicoterapia, senza concedere alla capacità inventiva, di cui Winnicott dà prova, di mettere in crisi la cornice della prassi terapeutica. Ed è un peccato; basta, infatti, rileggere con attenzione Winnicott, per vedere che le sue affermazioni e le intuizioni di cui sono disseminati i suoi scritti sono di ben altro tenore: limitarsi a trarre dalle sue parole una qualche generica ispirazione o una semplice consolazione, vuol dire non rendergli giustizia.

Non voglio aprire un nuovo tema, ma limitarmi a riportare alcune citazioni di Winnicott, che anticipano le considerazioni di Savater. In Gioco e Realtà Winnicott si chiede: «Con che cosa abbiamo a che fare in psicoterapia?»[10]. Dopo aver sottolineato che, a suo avviso, nella relazione terapeutica si ha a che fare «con due persone che giuocano insieme», quasi ad anticipare le obiezioni che gli potevano essere rivolte da tutti coloro ai quali il lavoro analitico non sembra un giuoco, ma un lavoro faticoso, sgradevole e pesante, l’autore ripeteva: «Là dove il giuoco non sembra possibile, il lavoro del terapeuta cerca di portare il paziente da uno stato in cui non è in grado di giuocare a uno stato in cui è capace di farlo»[11]. Winnicott è ancora più esplicito in un articolo, il cui titolo in una traduzione libera suona Casa è ogni luogo dal quale si parte[12], titolo che lascia intendere come l‘autore consideri legittimo “mettere su casa”, forse addirittura indispensabile, ma suggerisce anche che la sua funzione sia quella di vivere in un luogo riparato e che il desiderio di aver casa non possa essere quella di cercarvi un rifugio. È tutto questo ma anche altro: luogo da cui, rilassati e confortati, uscire per andare incontro al mondo e in cui tornare per rifocillarsi e riposarsi. Nell’articolo citato si legge: «In una psicoterapia il paziente si trova su un piano di uguaglianza con il suo medico: ha diritto di essere malato, di reclamare la salute e di rivendicare la piena responsabilità delle sue opinioni personali, politiche o ideologiche».[13]

Sono parole che pongono in crisi la prassi terapeutica di chi condivide l’idea che la malattia – in qualunque senso la si assuma – finisca per limitare le capacità di responsabilità del paziente: in caso della malattia mentale le “capacità di intendere e di volere”. La sofferenza porta il paziente a esibire comportamenti inadeguati, dimostrando di non sapere di loro né la gravità, né perché li faccia; né si trova in condizioni di poter far altro che ripetere gli stessi comportamenti.

Non soltanto un’osservazione del genere è criticata da Savater, il quale, in parte almeno, concorda con la descrizione; ma egli dissente radicalmente dalle conclusioni che in genere se ne traggono: anche una persona normale attua frequentemente delle condotte di cui non sa bene la motivazione e di cui non conosce le conseguenze, e tuttavia quelle condotte ripete di continuo, come se non potesse farne a meno. Spesso, addirittura, la motivazione che adduce non corrisponde a verità. La differenza sta che in un caso, quello anomalo, le condotte non sono condivise dagli interlocutori del paziente – che deve portare pazienza, appunto, perché deriso o rimproverato -, mentre nella persona normale la ripetitività è dovuta al rinforzo che le sue condotte trovano nelle corrispondenze loro alle attese altrui: sono apprezzate, incoraggiate, a volte lodate. Tanto che viene da chiedersi non perché chi sta male adotti quelle strategie di comunicazione e di comportamento, ma come faccia a insistere in comportamenti che non trovano consenso nel suo ambiente di vita e sono oggetto continuo di derisione o di riprovazione.

Questa “insistenza” depone a favore della virulenza del male? È la lettura abituale che se ne dà. O dice piuttosto che in quelle vicende si “giuoca una posta” importante? Che lì, proprio lì – sulla falsariga del proverbio che rammenta che “la lingua batte dove il dente duole” – si nasconde qualcosa di rilevante, di significativo per il soggetto?

Se, come sembrano suggerire Savater e Winnicott, è da preferire la seconda delle due domande, simpatizzando per l’idea che il lavoro analitico è lì che si appunta, è “sul dente che duole” che rovista, e il suo laborioso e delicato “darsi da fare” non ha il fine di eliminare il dente malato, nello specifico il «nodo dell’esistenza che fa male», ma di trasformarlo da nucleo patogenetico – che a niente sembra servire se non a far “penare” il “paziente” – in uno snodo in cui l’esistenza di chi ci sta di fronte “apprende” a ruotare; se si preferisce, in uno specchio – mi guardo, mi rifletto nei disagi che patisco -, in cui chi si pone di fronte si dà la possibilità di riconoscersi come soggetto.

Il luogo analitico, allora, riconosce la propria natura e funzione in quella di “circostanza” di possibilità: lo è perché laboratorio nel quale è possibile che affiorino e si alternino le più diverse “situazioni”. La “condizione”, definita dalle regole condivise del nuovo giuoco – il setting, la regola fondamentale, ecc. – può dirsi “neutrale” in quanto lascia il campo ad ogni eventuale alternarsi di “situazioni” nuove che magari è un sogno ad introdurre o un ricordo improvviso, oppure una vicenda che ha sorpreso il paziente negli ultimi tempi, oppure una trasformazione – lenta, progressiva o improvvisa che sia – del contesto del transfert. In ognuna di queste evenienze la circostanza si presta a configurarsi luogo di confronto tra due “situazioni” distinte: l’una del paziente, l’altra dell’analista.

In questo esercizio continuo, che si fa nel restare in certe condizioni – magari patirle –, per provare a gestirle, che si fa nel cercare di restare nella propria situazione e tuttavia comprendere quella altrui, che si fa nel divertimento di stare nelle regole del giuoco d’una circostanza, ma anche di trasformarlo in un giuoco nuovo, importante è prendere passione dei vari giuochi praticati, purché non sia allo scopo di vincere, ma di sentirsi protagonisti. In questo esercizio continuo di giuochi, se non si perde per strada il filo continuo che sorregge l’esistenza dei giocatori, ognuno di essi riconosce una propria “cifra”, uno stile individuale, un’identità che su una corda tesa – non importa a quale altezza si trovi dal terreno – rimane in equilibrio “vita natural durante”.

 

Note:

[1] Ivi, p. 270.

[2] Ibidem.

[3] Ibidem.

[4] Ivi, pp. 271-279.

[5] Ivi, p. 271.

[6] Ibidem.

[7] Ibidem.

[8] M.P. Shiel, La casa dei rumori, in Xelucha e altri racconti, Fanucci, Roma 1989.

[9] F. Savater, Etica come amor proprio, cit., p. 271.

[10] D.W. Winnicot, Gioco e realtà, Armando editore, Roma 2001.

[11] Ibid.

[12] D.W. Winnicot, Dal luogo delle origini, Raffaello Cortina, Milano 1990.

[13] Ibid.