Edward Said, tra orientalismo e inconscio sociale – di Daniele Balicco

Edward Said, tra orientalismo e inconscio sociale – di Daniele Balicco

17 Luglio 2021 Off di Francesco Biagi

Nei Quaderni del carcere Gramsci afferma: «L’inizio dell’elaborazione critica è la coscienza di quello che è realmente, cioè un “conosci te stesso” come prodotto del processo storico finora svoltosi che ha lasciato in te stesso un’infinità di tracce accolte senza beneficio d’inventario». Inspiegabilmente, l’unica traduzione in inglese dell’opera si ferma qui, laddove il testo italiano di Gramsci conclude aggiungendo: «Occorre fare inizialmente un tale inventario». Gran parte del mio coinvolgimento personale in questo libro deriva dalla consapevolezza di essere un «orientale», in quanto nato e cresciuto in due colonie britanniche del Vicino Oriente. I miei studi, dapprima in queste colonie (Palestina ed Egitto), poi negli Stati Uniti, sono stati occidentali in tutto e per tutto, eppure tale precoce e radicata consapevolezza è persistita. Da molti punti di vista, questa ricerca sull’orientalismo rappresenta uno sforzo per redigere l’inventario delle tracce depositate in me orientale, dalla cultura il cui predominio è stato un elemento così importante nella vita di tanti orientali.[1]

 

 

Edward Said è morto a New York il 24 settembre del 2003. Era nato sessantasette anni prima a Gerusalemme, il 1 novembre del 1935. Con un nome inglese e un cognome arabo, formatosi al Cairo, in una scuola coloniale britannica, professore di letteratura comparata negli Stati Uniti e, nello stesso tempo, attivista politico palestinese, Said è stato un uomo che per tutta la vita ha saputo far lavorare insieme, e pure scontrare, i mondi scissi della sua identità.

Se si ripercorre anche rapidamente la sua bibliografia, quello che forse più colpisce, ancora oggi, è proprio vedere come questa sovrapposizione di mondi, di lingue e di conflitti politici – che ha dato un colore unico alla sua vita – si trasformi in un movimento di ricerca vivace e spregiudicato, capace di sfidare di continuo sovranità disciplinari, altrove accuratamente protette.

La sua è sicuramente stata una delle più interessanti incarnazioni, nel Secondo Novecento, della figura storica dell’intellettuale pubblico gramsciano, capace di mediare, nella sua scrittura e nel suo pensiero, ricerca specialistica e discorso comune condiviso. Del resto, pochi altri intellettuali sono stati capaci di lasciare, come Said, una traccia quasi così forte e quasi indelebile nel dibattito pubblico internazionale contemporaneo. Si pensi anche solo all’importanza di un testo, sicuramente controverso, ma ormai classico, come Orientalismo[2]. O al volume su La questione palestinese[3], probabilmente il suo vero capolavoro saggistico. Ma anche lavori come Dire la verità. Gli intellettuali e il potere[4], Cultura e imperialismo[5], La pace possibile[6], Musica ai limiti[7] sono studi che hanno largamente oltrepassato i recinti solitamente impermeabili della ricerca accademica soprattutto statunitense, entrando con forza nella discussione contemporanea.

Per l’orizzonte volutamente pubblico del suo lavoro, il modo migliore per provare a ricostruire un profilo generale dell’itinerario intellettuale di Said è quello di adottare un punto di osservazione che provi a tenere insieme i diversi piani del suo discorso, senza separarli e senza tuttavia farli implodere in un tutto indistinto: il punto di osservazione privilegiato è la politica. Perché a differenza della maggior parte degli intellettuali radical appartenenti alla teoria internazionale, Said è stato un vero e proprio militante: deputato del consiglio nazionale palestinese per quattordici anni, consulente dell’ONU, oppositore di Yasser Arafat agli accordi di Oslo, il suo impegno è stato, fino alla morte, continuo, rigoroso e severo. Due esempi, fra molti. Nel 1979 un editore di Beirut propone di pubblicare in edizione araba La questione palestinese, chiedendo però di togliere, o di modificare radicalmente, le parti critiche su Siria e Arabia Saudita. Said si rifiuta. Il libro, tradotto perfino in ebraico, a tutt’oggi non è stato ancora pubblicato in arabo. Nel settembre 1993 la Casa Bianca lo convoca per presiedere agli Accordi di Oslo; declinerà l’invito, rispondendo che preferisce non partecipare alla celebrazione di un funerale. Come si capisce anche solo da questi due casi, per Said la politica non è stata un’opzione teorica, ma una vera e propria forma di vita, uno stile di pensiero, una necessaria scelta di parte. Per capire il senso della sua attività critica bisogna sempre tener presente che è l’urgenza delle questioni che bloccano il presente a ri-orientare, nei suoi scritti, la ricerca teorica, a darle direzione e ordine. Letteratura, filosofia, storia, antropologia, musica gli servono perché forzano l’orizzonte chiuso del presente, aprendo possibilità reali, altrimenti invisibili; e speranza.

Da questa combinazione di politica ed estetica deriva la qualità specifica dei suoi scritti. Per un verso, infatti, lo stile di Said è quello di un saggista severo, d’attacco, come si addice ad ogni vero intellettuale politico. Nello stesso tempo, però, il suo sguardo è quello di un osservatore estetico delle forme di vita, attento a preservare, nell’astrazione, i dettagli circostanziati del vissuto. Amerà sempre quella “tradizione materialistica italiana” che da Lucrezio arriva fino a Vico e Gramsci e che ai suoi occhi è capace di correggere l’astrazione aerea tedesca in un pensiero incarnato, terrestre, mondano, secolare. Per la stessa ragione, non lo persuaderà la lezione decostruttiva francese, né il marxismo di Althusser. Di certo non si fiderà mai della “svolta” testuale di Hayden White, né potrà facilmente sopportare lo scetticismo teorico di scuola anglosassone: «solo menti libere ed incontaminate da ogni esperienza diretta degli sconvolgimenti determinati da guerre, pulizie etniche, migrazioni forzate e dolorosi spostamenti possono elaborare teorie simili»[8].

Ma se si tiene presente che gli anni del successo di queste teorie sono gli anni del suo coinvolgimento diretto nell’OLP, diventa chiaro il senso politico della sua ostilità teorica: la sua idea di lavoro intellettuale è precisamente gramsciana, lo considera niente meno che una forma di dirigenza politica. Più in generale, lo immagina come un atto di sfida contro ogni forma di sopraffazione politica e di ingiustizia sociale. E in più saggi ammonisce: bisogna lavorare ad un nuovo umanesimo universalista ed inclusivo, l’unico in grado di insegnare alle nuove generazioni il desiderio per modi di vivere e di conoscere non coercitivi, né tirannici. Non diversamente immagina la risoluzione del conflitto fra Israele e Palestina. Sarà, infatti, per tutta la vita sostenitore dell’autonomia dei Territori occupati come premessa di una politica aperta, inclusiva, universalizzante. Fino ad immaginare, a partire dal 1999, la costruzione di un unico stato bi-nazionale. Perché nulla è più lontano dal suo pensiero di un’indipendenza vissuta come spazio dove arroccare un’identità violentata.

I suoi libri più importanti, Orientalismo, La questione palestinese e Cultura e imperialismo, nascono dalla combinazione di autori eterogenei, come Foucault, Gramsci e Fanon. Con questa cassetta degli attrezzi, Said delinea una genealogia della costruzione culturale dell’Oriente come proiezione simbolica di una dominazione coloniale; all’interno della quale ricolloca il sionismo e l’occupazione militare israeliana. Ma questi lavori di ampio respiro teorico nascono insieme ad una miriade di altri articoli politici e giornalistici, scritti che testimoniano il suo coinvolgimento diretto nella politica palestinese, dalla partecipazione ai lavori del consiglio nazionale, all’estensione nel 1988 della Dichiarazione d’Indipendenza, fino alle sue dimissioni e alla critica durissima all’ultima stagione del potere di Arafat.

Nella sua attività di critico letterario e musicale, di polemista, di storico delle idee convive invece la lezione dell’umanesimo di Vico con il close reading anglosassone; la tradizione della forma saggio novecentesca, Lukàcs e Adorno su tutti, con la passione per le forme della musica classica occidentale e, in particolare, per la ricerca musicale di alcuni pianisti, come Gould, Pollini, Barenboim, Brendel, per Said veri e propri modelli di lavoro intellettuale. In particolare, per Gould l’ammirazione sconfinerà quasi nella mania. Del pianista canadese Said ammira non solo la tecnica strabiliante e l’audacia intellettuale; ma soprattutto il suo stile appassionato ma antisentimentale, razionale e gioioso, proprio come il Bach di cui fu interprete rivoluzionario e di cui portò alle estreme conseguenze la tecnica del contrappunto. Per Said, quest’ultima è la forma musicale che innalza il pensiero fino alla possibilità di liberare, dalla violenza che la incatena, la possibile coabitazione armonica dell’eterogeneo.

Se la musica può dunque diventare, nel suo pensiero, uno spazio simbolico dove immaginare la politica, non stupisce che in una delle sue ultime interviste rilasciate in vita, la sola per un giornale israeliano, l’Ha’aretz Magazine, Edward Said descriva il conflitto fra Israele e Palestina come una disperata ed immensa sinfonia. Costruito su uno svolgimento complicatissimo di stratificazioni storiche, di non risarcibili sofferenze individuali, di tragici errori politici, di responsabilità nazionali e internazionali, quel conflitto potrebbe essere sciolto solo da una mente grandiosa come quella di Joan Sebastian Bach. Ci vorrebbe una politica portata a quell’altezza di narrazione e di comprensione del reale; una diplomazia educata all’arte del contrappunto e per questo capace di organizzare un groviglio di conflitti senza apparente soluzione in un processo molto più ampio e dinamico, di differenziazione e di riconoscimento. Proprio come nelle Variazioni Goldberg. Senza annullare le differenze; senza farle reciprocamente deflagrare. Daniel Baremboim, introducendo Musica ai limiti, il volume che raccoglie gli scritti di critica musicale di Said, si sofferma proprio sul significato profondo che l’esperienza della musica ha avuto nella riflessione politica dell’amico:

il suo ideale sociale e politico di inclusione, di accoglienza, deriva dal suo modo di intendere la musica. Se si sottolinea una singola voce, escludendo tutte le altre, si viola il principio fondamentale del contrappunto; allo stesso modo, pensava Said, è impossibile risolvere un conflitto politico, o di qualsiasi altro genere, senza coinvolgere tutte le parti in causa nel processo che porterà alla soluzione[9].

Per questa ragione, l’eredità vera del lavoro di Said non va cercata solo nell’area disciplinare che dalla lezione di Orientalismo ha costruito, negli ultimi trent’anni, quell’intero corpus di ricerche e di tecniche interpretative che oggi cade sotto il nome di studi post-coloniali. Il lascito simbolico più forte della sua attività politica ed intellettuale va cercato altrove. Probabilmente nella West/Eastern Divan Orchestra. La storia di questo progetto, voluto e creato da Said insieme a Daniel Barenboim, è la storia di un gruppo di ragazzi ebrei e arabi (non solo palestinesi, ma anche siriani, libanesi, egiziani, giordani, iraniani) che, a partire dal 1999, si trova a vivere e a lavorare insieme, per sei settimane all’anno, sotto la guida di Barenboim e dello stesso Said. Lo scopo è quello di creare un’orchestra comune, composta tanto da giovani musicisti israeliani quanto da giovani musicisti arabi. La West/Eastern Divan Orchestra inizia così a suonare in giro per il mondo, facendo concerti in Europa, negli Stati Uniti, in Sud America fino ad arrivare in Israele e nella stessa Palestina: nell’estate del 2005, l’orchestra riuscirà a suonare a Tel Aviv e all’auditorium di Ramallah, ripresa in mondovisione dalla televisione franco/tedesca ARTE. E così, il progetto di uno stato unico bi-nazionale, per quanto ancora lontanissimo anche solo da una sua prima discussione pubblica, inizia ad esistere nello spazio simbolico dell’orchestra, quasi traccia sedimentata di un futuro anteriore possibile.

 

Note: 

[1] E. W. Said, Orientalism, Pantheon Book, New York, 1978 (tr. it Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente [1991], Feltrinelli, Milano, 1999, p. 34).

[2] Ibidem.

[3] E. W. Said, The Question of Palestine [1979], Vintage Book, New York, 1992 (tr. it. La questione palestinese. La tragedia di essere vittime delle vittime, Gamberetti, Roma, 1995).

[4] Id, Representations of the Intellectual, Vintage Book, New York 1994 (tr.it Dire la verità. Gli intellettuali e il potere, Feltrinelli, Milano, 1995).

[5] E. W. Said, Culture and Imperialism, Vintage Book, New York, 1994 (tr. it Cultura e imperialismo, Gamberetti Editore, Roma, 1998).

[6] E. W. Said, From Oslo to Iraq and the the Road Map, Vintage, New York, 2004 (tr. it La pace possibile, Il Saggiatore, Milano, 2005).

[7] Id, Music at the Limits, Bloomsbury, London, 2008 (tr. it Musica ai limiti, Feltrinelli, Milano, 2010).

[8] E. W. Said, Reflections on Exile and Other Essays, Harvard University Press, Cambridge MA, 2000 (tr. it Nel segno dell’esilio. Riflessioni, letture e altri saggi, Feltrinelli, Milano, 2008, p. 18).

[9] E. W. Said, Musica ai limiti, cit., p.10.