Marx nell’orizzonte dell’estinzione – di Franco Berardi Bifo

Marx nell’orizzonte dell’estinzione – di Franco Berardi Bifo

26 Giugno 2021 Off di Francesco Biagi

“Comunismo è il pieno ritorno dell’uomo a se stesso come essere sociale, un ritorno compiuto coscientemente abbracciando l’intera ricchezza dello sviluppo precedente. Questo comunismo, in quanto naturalismo pienamente sviluppato equivale all’umanismo, in quanto umanesimo pienamente sviluppato equivale a naturalismo. È la risoluzione genuina del conflitto tra uomo e natura e tra uomo e uomo, la fine del conflitto tra libertà e necessità, tra l’individuo e la specie. Il comunismo è la soluzione del rompicapo storico, e sa di essere questa soluzione.”

(Marx, Manoscritti del 44)

 

Apocalisse dell’umanesimo 

Ho sempre considerato i manoscritti del Marx giovane come un libro bellissimo ma privo di relazione col nostro tempo e politicamente inutile: la intima struttura di quegli scritti infatti mi pareva troppo legata all’impianto hegeliano e quindi intrappolata nella presupposizione idealistica di un superamento storico (Aufhebung) iscritto nel destino logico dell’uomo.

Eppure, per qualche ragione, oggi quei testi che io scoprii da giovanissimo lettore, stanno tornando alla mia attenzione, forse perché la questione dell’umanesimo ritorna, in una nuova luce, che è la luce oscura della possibilità di estinzione della civiltà umana. Questa prospettiva non venne mai ad emergenza nella discussione tra i marxisti del secolo scorso, perché una sorta di presupposto progressivo era implicito nella loro mente.

È facile trovare tracce di universalismo umanista negli scritti  giovanili di Marx e anche nella retorica del movimento operaio del Novecento, ma l’ipotesi di un collasso finale della civiltà umana, un ritorno brutale del Caos pre-antropico, non è mai stata presa in considerazione anche nelle peggiori congiunture del ventesimo secolo, che fu segnato dagli orrori del fascismo e del nazismo.

Ora è diverso: non solo gli orrori del fascismo e del nazismo sono tornati in larga parte del pianeta, ma il collasso degli ecosistemi, unito all’esplosione dell’Infosfera e al caos mentale che ne segue, ci costringe inevitabilmente a immaginare l’inimmaginabile. La pandemia, e i collassi sistemici che ne sono seguiti, hanno inaugurato ufficialmente l’età dell’estinzione, il che significa che l’estinzione della civiltà umana si profila come orizzonte di possibilità. Il bio-virus ha messo in moto un info-virus che ha paralizzato e scardinato il ciclo economico del capitalismo.

Dal momento che l’info virus ha messo in moto una mutazione psicopatologica della vita sociale e dello stesso inconscio, è ora difficile aspettarsi che il normale ciclo dell’economia potrà mai riprendere. Nonostante il falso ottimismo degli economisti – i quali non sanno immaginare il mondo se non attraverso le categorie della loro pseudo-scienza – l’epoca espansiva del capitalismo sembra aver raggiunto il suo punto limite, e ora ci si presenta un’alternativa: o una trasformazione egualitaria della vita sociale, redistribuzione della ricchezza, rapporto frugale con la natura, oppure un ciclo di guerra, collassi ambientali, epidemie provocate da virus che l’antropizzazione ha privato dell’habitat ecologico, catastrofi umanitarie, e alla fine l’estinzione della civiltà umana.

Comunismo o estinzione.

Dopo questa affermazione insieme drammatica e radicale, siamo costretti a chiederci: è ancora immaginabile il progetto comunista, oppure si è dissolto nella nebbia dell’inimmaginabilità? È ancora praticabile? Per rispondere a questa domanda dobbiamo prima spiegare quale sia il significato della parola comunismo in Marx, poi dobbiamo analizzare le trasformazioni che hanno cambiato la organizzazione materiale della società e particolarmente del lavoro, infine dobbiamo valutare la mutazione che si sta verificando nella sfera della soggettività sociale nell’era inaugurata dalla pandemia.

Marx non ha elaborato una teoria utopica del comunismo, anzi da qualche parte ha detto che non era interessato a scrivere ricette per il ristorante dell’avvenire. Però dice in varie occasioni che nella lotta degli operai era in questione qualcosa di più grande e più importante dell’interesse particolare degli operai stessi (salario, tempo di lavoro, condizioni di lavoro e così via): nel progetto comunista di abolizione della proprietà privata e dello sfruttamento era in questione il destino della dignità umana.

Marx non prese neppur in considerazione la possibilità di una sconfitta finale del progetto comunista, anzi qua e là traspare nel suo pensiero l’idea di necessità storica, fondata sull’eredità hegeliana, sul persistente mito del superamento come piena realizzazione della Ragione. Nei lavori tardivi di Marx, e particolarmente di Engels, questa necessità è legata con un certo tipo di determinismo economico: la dinamica della concentrazione capitalista era considerata come la premessa naturale dell’espropriazione degli espropriatori. Quando Marx parla dei comunardi sconfitti dalla repressione violenta che le armate francesi e prussiane scatenarono unite contro il comune nemico proletario, non prese neppure in considerazione l’ipotesi che quella particolare sconfitta fosse un segno dell’invincibilità del capitalismo. Marx era perfettamente cosciente del fatto che i comunardi stavano aprendo la strada a un processo di lungo periodo che si sarebbe svolto attraverso tentativi, sconfitte e vittorie parziali. Ma per quanto io possa ricordare non prese mai in considerazione la prospettiva di una sconfitta finale dei lavoratori.

Quando alla fine del ventesimo secolo il movimento internazionale dei lavoratori fu sconfitto dall’offensiva congiunta dell’economia neoliberale e del fascismo militare, e la classe operaia venne politicamente distrutta dalla deregulation globalista, i marxisti si trovarono in una condizione di incertezza: dovevano accettare l’idea della fine di ogni possibile autonomia sociale e quindi l’idea che il capitalismo, nella sua specifica versione neo-liberale, era l’orizzonte finale dell’immaginazione politica, o dovevano sviluppare nuove forme di autonomia, radicate entro una nuova configurazione del processo lavorativo?

Mentre la maggioranza di coloro che erano stati comunisti si trasformavano in funzionari servili della riforma neo-liberale, una parte di loro, in particolare quelli che poi furono definiti post-operaisti o piuttosto neo-operaisti, inaugurarono una nuova linea di ricerca teorica e politica, fondata sulla consapevolezza che i lavoratori cognitivi non sono meno sfruttati dei loro predecessori industriali, e finalizzata a sperimentare un’emancipazione possibile dell’intelletto generale dalla presa dello sfruttamento capitalista.

Oggi, nella condizione dell’apocalisse pandemica dobbiamo chiederci: nelle presenti condizioni di collasso economico, di confusione e depressione psichica la soggettività sociale potrà trovare nuove forme di ricomposizione di re-immaginazione? Se l’autonomia dei lavoratori è la sola maniera per trasformare l’alienazione in libertà, come Marx suggerisce, se solo l’emancipazione dei lavoratori dalla schiavitù salariata può condurre all’emancipazione del genere umano, allora la sconfitta dell’autonomia dei lavoratori comporta una sconfitta del genere umano nella sua interezza. Oggi, dopo la sconfitta mondiale del movimento operaio stiamo effettivamente affrontando un rischio di disgregazione dell’edificio sociale e di crollo catastrofico dello stesso ambiente fisico del pianeta terra.

 

Tendenza e possibilità 

La critica materialista del capitalismo si fonda sulla premessa che non vi è alcuna garanzia trascendente di un esito progressivo dell’evoluzione sociale e che il processo storico non ha niente a che vedere con la realizzazione di un ideale morale, di un astratto programma politico. Il futuro è contenuto come possibilità nella composizione presente della società. La possibilità di una nuova forma sociale è incorporata nelle relazioni sociali, nella potenza tecnica, e nelle forme colturali che si sono sviluppate nel corso della creazione conflittuale della civiltà moderna.

Il movimento di autonomia che emerge nella seconda parte del secolo passato si fondava sulla convinzione che il comunismo è una forza immanente contenuta nella composizione sociale presente, ma che deve essere disincagliato perché le potenze dell’intelletto generale possano svilupparsi oltre i limiti del capitalismo. Questa forza è nascosta entro la forma attuale della produzione. E questo processo si sviluppa nel continuo conflitto politico e nella continua collaborazione tecnica tra lavoro e capitale.

Il riferimento al Frammento sulle macchine è cruciale a questo punto: in quel testo Marx suggerisce che il comunismo è contenuto nelle pieghe del presente, come tendenza incorporata nello sviluppo tecnico dell’organizzazione di lavoro e conoscenza. Tutto è già lì: la potenza dell’intelletto generale, l’intensificazione costante della produttività, la tendenza verso l’emancipazione del tempo dal lavoro. La tendenza iscritta nell’organizzazione tecnica del capitale conduce a una nuova concatenazione di conoscenza e macchine. In questa visione immanentista c’è il pericolo di intendere una possibilità come se fosse una necessità. Invece non si tratta di una necessità ma di una possibilità, che solo una configurazione autonoma della soggettività (immaginazione solidarietà organizzazione) può trasformare in emancipazione effettiva.

 

Il progetto comunista è ancora immaginabile? 

Nel pensiero di Marx la possibilità dell’autonomia sociale dalla regola capitalistica, e quindi l’immanenza del comunismo, era collegata con l’emergere della classe operaia industriale.

In molti punti Marx sostiene che la classe operaia industriale è la sola forza sociale che ha la capacità di emancipare l’intera umanità nel corso della sua propria emancipazione. Né i contadini né i poveri né gli intellettuali hanno questo ruolo storico universale, solo la classe operaia industriale, per due caratteri intrinseci alla sua esistenza sociale.

Prima di tutto la vita dell’operaio industriale è il punto di arrivo di un processo di alienazione dell’attività umana, come Marx spiega nei Manoscritti Economico Filosofici del ’44. In secondo luogo, le condizioni tecniche del processo di lavoro modellano la classe operaia come una massiccia armata disciplinata, fortemente territorializzata, legata allo spazio della fabbrica, e costretta a seguire gli stessi percorsi di vita quotidiana. Queste due caratteristiche sono essenziali per capire la ragione per cui l’autonomia dei lavoratori è la condizione per l’emancipazione dell’umanità intera.

Però nell’epoca che segue alla deregulation neoliberale e alla deterritorializzzione digitale del lavoro, cioè nella sfera del Semiocapitale, queste due caratteristiche svaniscono, fin quasi a scomparire. La territorialità industriale che comportava una disciplina egualitaria e la massificazione della forza politica del proletariato, è sostituita dalla deterritorializzazione del processo lavorativo, e dalla precarizzazione della relazione di lavoro. Gli operai industriali erano culturalmente pronti all’egualitarismo perché il salario riduceva il loro tempo a una misura unitaria, e perché la loro collocazione fisica era necessariamente legata al luogo della fabbrica. Ma questo legame tra territorio e lavoro è stato polverizzato dal processo di globalizzazione e dalla precarizzazione del lavoro: la flessibilità digitale rende possibile la delocalizzazione e la dispersione dei lavoratori e induce una condizione di permanente competizione tra lavoratori, che rende assai più ardua la formazione di una cultura egualitaria.

Cambia quindi la stessa percezione del lavoro perché nella sfera del semiocapitale l’alienazione prende una forma del tutto differente dall’alienazione industriale. Il lavoratore industriale è costretto a ripetere incessantemente gli stessi gesti senza senso. Il suo lavoro è pura attività muscolare, dissipazione dell’energia intellettuale e negazione dell’espressività. Solo negli spazi di estraneità al lavoro, di disimpegno, di assenteismo o di conflitto il lavoratore industriale può esprimere se stesso: per questo l’alienazione (Entäusserung) e il rovescio dell’alienazione, che è l’estraneità (Entfremdung), sono collegate, ma anche in contraddizione. L’estraneità è una conseguenza dell’alienazione, ma è anche il rovescio soggettivo dell’alienazione, il punto di partenza dell’autonomia. Nella sfera del Semiocapitale, al contrario, la dinamica di alienazione si trasforma, perché quel che viene coinvolto nel processo lavorativo non è più l’energia fisica, ma il linguaggio, l’espressione, l’invenzione: energia mentale, il nucleo dell’espressione umana. I lavoratori cognitivi, che sono il nucleo del processo di valorizzazione contemporaneo, non possono esprimere lo stesso tipo di estraneità dei loro predecessori, né lo stesso grado di rifiuto del lavoro.

La sconfitta del movimento operaio negli anni ’80, e l’offensiva neoliberale non hanno segnato soltanto una sconfitta politica ma hanno avviato la distruzione della democrazia e del progresso sociale. La democrazia è stata cancellata dall’inesorabilità degli automatismi tecno-finanziaria, e il progresso è stato sostituito da diseguaglianza crescente. Anche se leader come Thatcher, Reagan, Blair e Clinton si impegnano attivamente a distruggere il benessere sociale e la speranza di giustizia, il carattere devastatore del tardo-capitalismo non è l’effetto di decisioni ideologiche o politiche. La violenza del capitale va più a fondo perché è il sintomo della fine dell’espansione. Espansione fu la parola chiave della modernità: crescita economica, colonizzazione di nuovi territori, prolungamento del tempo di vita, fin quando emerse la coscienza del fatto che i margini per l’espansione si stavano stringendo.

Il Rapporto sui limiti della crescita (Club di Roma, 1971) anticipò quel che oggi è chiaro come il sole: la crescita illimitata non è possibile in un pianeta limitato a meno di avviare un processo di distruzione attiva delle risorse ambientali e delle energie nervose. Entro questo nuovo quadro, in cui la devastazione ambientale è divenuto il tema centrale, prese nuova forma l’intuizione e la scommessa del pensiero neo-operaista: i lavoratori cognitivi troveranno nuove vie per la soggettivazione autonoma. Le insurrezioni del nuovo secolo, come il movimento no global del 1999 e il movimento Occupy del 2011, furono considerati il laboratorio in cui questi nuovi percorsi si preparano.

Ma la pandemia ha scosso in maniera brutale le prospettive, erodendo ulteriormente le condizioni psichiche per la solidarietà e l’immaginazione. Ora stiamo attraversando una soglia oltre la quale l’inconscio è destinato a evolvere in maniera che da qui in poi è imprevedibile, e di conseguenza la soggettività collettiva si va ridefinendo secondo linee al momento inimmaginabili.

L’esperienza pandemica contiene un duplice messaggio difficile da ignorare: la solidarietà è resa fragile, quasi impraticabile quando i corpi sono soggetti al regime del distanziamento, e le menti sono indotte a interiorizzarlo. E come motivare la rivolta, anima del processo di soggettivazione autonoma, quando il virus impone la cautela nel rapporto tra i corpi?

Dobbiamo dunque pensare che la pandemia ha inflitto un colpo finale alla soggettività sociale, o che l’Inconscio collettivo saprà modellare nuovi cammini di autonomia e di amicizia tra gli esseri umani? Dobbiamo pensare che la coppia diabolica di Caos mentale e automazione cognitiva porteranno guerra e dominio totalitario in tutto il pianeta, o che una nuova cultura di frugalità e cortesia ci allontanerà dal regime psicotico nazi-liberale?

È questa la posta in gioco del prossimo decennio, che potrebbe essere l’ultimo, se la generazione pandemica non troverà la chiave per farne il primo decennio di un’epoca il cui segno non sappiamo immaginare.