Il fascino del fallo – di Franco Lolli

Il fascino del fallo – di Franco Lolli

12 Aprile 2021 Off di Francesco Biagi

[Intervento presentato il 26 marzo 2021 nell’ambito del seminario su Psicologia delle masse e analisi dell’io, organizzato dal collettivo Settima lettera.]

 

Limiterò il mio contributo alla riflessione sul fallo considerandone esclusivamente il suo versante immaginario. Inizierò, pertanto, il mio intervento con un’affermazione decisamente grossolana e apparentemente ingiustificata, che, tuttavia, mi auguro di riuscire a motivare, precisandone progressivamente il senso: la logica del fallo ha un carattere indubbiamente fascista.

Fascista in quanto ha imposto e impone un regime vero e proprio. Quello che Freud ha chiamato primato del fallo[1] è, a tutti gli effetti, il fondamento di una ‘dittatura’ istituita da un determinato sistema culturale, politico ed economico: la dittatura del patriarcato. Il patriarcato è qualcosa di più della narrazione semplicistica alla quale è stato frequentemente ridotto: è un modo di organizzare i rapporti di potere e di forza tra uomo e donna, stabilendo una più o meno esplicita superiorità dell’uomo sulla donna. Prescrive e norma una gerarchia incontestabile. È, come ogni formazione umana, un fatto culturale, relativo ad un contesto storico e sociale definito e che, di conseguenza, non ha nulla di assoluto o di naturale.

Jacques Hockman lo ben ha descritto isolando nella cultura ebraico-cristiana (ma non solo) quello che ha definito il complesso di Adamo. In tale mito fondativo della cultura patriarcale, la donna è creata per risolvere la solitudine di Adamo, come suo complemento e completamento: dunque, in una totale soggezione (anche generativa) dal maschio. In più – fattore non secondario – il racconto biblico della Genesi mette in rilievo la responsabilità di Eva nella mitica cacciata dal Paradiso: sarà la sua debolezza a provocare quel peccato originale che esilierà per sempre l’essere umano dalla beatitudine divina. Ma, soprattutto, sarà stata la ‘distrazione’ di Adamo ad aver consentito alla cedevolezza della donna di scatenare la ben nota reazione disastrosa. Come a dire: se la donna non è sorvegliata, se la si lascia agire senza alcun controllo, le conseguenze sono devastanti. Tale è il nucleo concettuale su cui (o meglio, con cui) il discorso patriarcale si installa.

Ebbene, bisogna ammettere che la stessa psicoanalisi è impregnata di questa mentalità. E non solo quella freudiana. L’elaborazione lacaniana non sfugge a tali pregiudizi e malintesi. Nella rivisitazione che Lacan propone della dinamica edipica, il registro femminile è troppo spesso e sbrigativamente identificato al mortifero, allo psicotizzante, al desoggettivante, al fusionale annichilente. Ci vuole un padre, allora, ci vuole un elemento terzo, separatore (per l’appunto, il fallo) affinché il bambino sia messo in salvo, liberato, cioè, dalla morsa asfissiante del materno. Ora, sia chiaro: Lacan è stato preciso e inequivocabile su questo punto. Il fallo che egli chiama in causa è un significante, un concetto, una rappresentazione, non certamente l’organo genitale maschile che, al contrario, domina – per certi versi, pateticamente – la scena freudiana. Affermare la centralità del fallo non significa affermare la centralità del pene. Il fallo è centrale nella dinamica edipica in quanto mancante, precisa Lacan: al punto tale che – come noto – egli arriverà a sostenere – in maniera paradossale, ma rigorosamente logica – che il vero fallo ce l’ha la madre. In effetti, Lacan ridefinisce la logica edipica come effetto e articolazione di funzioni diverse che, se da un lato, vengono sganciate dalla loro incarnazione in personaggi con sessi determinati, dall’altro lato, è pur vero che la loro definizione (e noi sappiamo quanto le parole siano importanti come generatrici di pensieri) resta assolutamente di stampo patriarcale. Ad esempio, per descrivere la tendenza fagocitante dell’adulto nei confronti del cucciolo d’uomo, Lacan utilizza l’espressione desiderio materno, collocando immaginariamente sul versante femminile della coppia genitoriale l’abuso di potere fusionale che aspira il bambino in un caos insuperabile. D’altro canto, l’attributo paterno sarà donato alla funzione separatrice che interviene nella relazione duale.

Più in generale, si potrebbe sostenere che il pregiudizio che la psicoanalisi eredita dal patriarcato consiste nell’idea della pericolosità del ‘femminile’, quando questo non è moderato dall’intervento maschile. La psicoanalisi postfreudiana, a questo proposito, ha giocato un ruolo determinante: basti pensare alle note osservazioni di Bruno Bettelheim sulla madre frigorifero, ai lavori di Margaret Mahler e di Frances Tustin, al concetto winnicottiano di madre sufficientemente buona, fino agli sviluppi più recenti della teoria dell’attaccamento. Si è imposta, all’interno dell’intero movimento psicoanalitico, l’ampia e implicita condivisione dell’ipotesi di una originaria attitudine materna insidiosa e potenzialmente nociva, capace, se lasciata libera di esprimersi, di causare al bambino danni evolutivi irreversibili.

Ma tale regime fascista stabilisce anche la legittimità di una sola forma di godimento, considerando ‘legale’, accettabile, civile, unicamente quello fallico, quello maschile (presente – occorre precisare – tanto negli uomini, quanto nelle donne), quello interamente centrato sull’esercizio del fallo, sulle sue prestazioni e sulla promessa di una soddisfazione pulsionale piena, legata tanto all’atto della penetrazione quanto a quello dell’essere penetrato. Il godimento che la civiltà patriarcale tollera (pur fingendo il contrario) è quello fallico, non a caso fondato – come aveva notato Freud – sulla opposizione concettuale attivo/passivo, dominatore/dominato, masochismo/sadismo. La logica intrinseca al godimento fallico (e al fantasma inconscio che lo orienta) è, sostanzialmente, quella dell’assoggettamento e della sottomissione, nelle sue versioni più disparate e nelle sue varie declinazioni, che lo stesso Freud aveva identificato nella ‘grammatica pulsionale’ che governa le vicissitudini dell’esperienza di soddisfazione. Il godimento fallico è la misura del godimento stesso. Tutto ciò che lo eccede, che lo supera o che lo nega è messo al bando. È questa – secondo Jacques-Alain Miller – la radice ultima del fenomeno del razzismo: l’intolleranza per gli altri godimenti, considerati come godimenti altri rispetto a quello fallico. Il godimento delle donne, in primo luogo, che – come dice Lacan – non è complementare a quello fallico, ma supplementare (nel senso che supera le contrapposizioni falliche tipiche della dialettica avere/essere sulla quale si basa l’intera dinamica prestazionale del registro maschile). Il godimento della donna non può essere compreso secondo i criteri della classica dicotomia fallica: per tale motivo, è considerato enigmatico, misterioso, pericoloso. Si potrebbero leggere i fenomeni di violenza sulle donne in questa chiave: il maschio non sopporterebbe il godimento inconoscibile della donna, un godimento irriducibile alla sua logica elementare, inquietante nella misura in cui non necessariamente lo include né può controllare. Per lo stesso motivo, il movimento LGBT, in tutte le sue molteplici versioni, rappresenta un vero e proprio attentato alla stabilità secolare del godimento fallico. Modalità inedite di godimento che squilibrano la mentalità binaria del patriarcato, mettono a soqquadro il criterio delle differenza dei sessi come unico criterio di regolazione del godimento stesso, che non riconosce più nel fallo il punto archimedeo della civiltà stessa.

In modo analogo, ogni forma di godimento che non rientri nella logica normativa e classificatoria del fallo, o che, più esattamente, è supposto non rientrarvi, diventa oggetto di un attacco che si sviluppa e si espande dall’ambito politico-religioso a quello dei movimenti in difesa della tradizione o dei confini (tanto geografici, quanto morali) della ‘nazione’. L’intolleranza nei confronti del diverso è, sostanzialmente, l’intolleranza nei confronti del suo godimento supposto diverso. I neri, gli omosessuali, le persone di etnia Rom, i trans, ecc., sono immaginariamente ritenuti protagonisti di un godimento non regolamentato, quasi primordiale, fantasticato come senza freni, quasi in presa diretta con la vita e il suo flusso incontenibile. È l’ipotetica sottrazione al controllo e alle regole alle quali il cittadino è costretto a sottostare ad indurre in quest’ultimo quella diffidenza e quell’insopportazione che a malapena – pur quando si traduce in aperto odio – riesce a celare la radicale invidia per una possibilità di appagamento che gli è negata.

Il patriarcato è la religione del padre, il cui culto è quello del fallo. È per questo motivo che, sul piano immaginario, il fallo esercita un fascino incontestabile. Ed è proprio in questo punto che il discorso del patriarcato (e del fallo immaginario) incrocia il tema principale del testo a cui è dedicato questo seminario. Nel senso che il capo (che – come afferma Freud – è riconosciuto come tale dalla massa se dimostra di avere maggiore forza e maggiore libertà libidica) è colui che, in un modo o nell’altro, incarna la possibilità di un accesso privilegiato al godimento. Il capo di quella che diventerà una massa si mostra come colui che possiede una certa spregiudicatezza nei confronti del godimento, una disinvoltura che viene ammirata, imitata, invidiata.

L’attualità (politica, ma non solo) ci fornisce, di tale carattere del capo, delle rappresentazioni che sono al confine tra il comico e il tragico: da Putin a Trump, da Orbán a Erdoğan (e la lista potrebbe proseguire ulteriormente), il trascinatore carismatico delle folle deve mostrarsi in grado di cavarsela bene con il godimento, incarnando in qualche modo il fallo eretto, il fallo in piena erezione, il fallo sempre pronto alla miglior performance, il fallo sempre felice, soddisfatto, sicuro di sé. Il fallo immaginario non conosce divisione soggettiva, non conosce il dubbio, non conosce incertezze. Perché il fallo immaginario è la raffigurazione stessa della felicità, di una contentezza così intensa (dunque, strutturalmente impossibile) da sconfinare nell’idiozia: perché, in effetti, c’è qualcosa di profondamente ebete nel godimento (illusoriamente) pieno del fallo, qualcosa di assolutamente ‘imbecille’ proprio perché promette un’onnipotenza (ai limiti del maniacale) che il minimo spirito critico non potrebbe che smentire. Le vicende di tante donne che si incatenano a rapporti con uomini considerati ‘bastardi’, fissati sul sesso, rozzi, volgari, dei quali vergognarsi ‘in società’ ma insostituibili in camera da letto, da disprezzare per la loro bassezza morale ma irresistibili sul piano pulsionale, ebbene tali storie, così frequenti e così ‘classiche’, dimostrano l’esistenza di tale subdola commistione tra la potenza del fallo e la sua controfigura fatua, tra il senso di vitalità energizzante che gli è immaginariamente attribuito e il suo carattere essenzialmente grottesco, farsescamente sproporzionato, nel suo essere un semplice un pezzo di carne, rispetto agli effetti strabilianti che promette. Il fallo è ottimista, positivo, una riserva senza fine di speranza immaginifica. Ripararsi e riposare alla sua ombra costituisce la fantasia del nevrotico che così si illude di poter sconfiggere la castrazione che lo riguarda.

Il fascino del fallo risiede, infatti, nel consentire il disconoscimento della propria finitudine, del proprio limite, della propria mortalità, nell’incantare e sedurre chiunque vagheggi la speranza di esorcizzare da sé ogni traccia di fragilità. Nella sua ingannevole postura marmorea e statuaria, l’immagine del fallo eretto offre un rimedio apparente a chi si sente minacciato dal reale.

Ma c’è un ulteriore punto che va sottolineato. Psicologia delle masse e analisi dell’io deve,  a mio avviso, essere letto insieme a Totem e tabù, il cui contenuto essenziale è, peraltro, fedelmente ripreso nel testo di cui ci stiamo occupando. Totem e tabù è il mito che racconta la nascita del patriarcato, è il mito fondativo del patriarca. Non sto qui a ripercorrerne tutti i passaggi: mi interessa unicamente mettere in rilievo, di quel mito, alcuni elementi che possono aiutarci nella comprensione del fenomeno delle masse e, in particolare, nella definizione del capo. In Totem e tabù, Freud ci racconta come ognuno dei fratelli che partecipò all’uccisione del padre divenne, a propria volta, il suo rappresentante, colui, cioè, che ne onorava la memoria accettando di sottomettersi ad un insieme di regole, dalle quali il padre dell’orda si era considerato esonerato. Ognuno di quei fratelli, pertanto, divenne un patriarca, il capostipite di un clan, il fondatore di una stirpe: il patriarca – si potrebbe dire – ereditò il potere del padre dell’orda, la sua posizione speciale all’interno del gruppo, istituendo, tuttavia, una legge che regolava il godimento e la sua circolazione all’interno del gruppo, consentendo – particolare di non poco conto – la distribuzione di una sua parte ai sottoposti. Era, così, finalmente possibile a tutti l’accesso ad una soddisfazione – seppure ‘moderata’ da una giurisprudenza –, non più appannaggio del solo sovrano. Il successo del patriarca sta in questo sua ‘generosità’: egli rinunciò ad essere il solo a godere e, nell’istituire un sistema legislativo che normava le modalità di godimento, ne poté elargire una quota al suo popolo. Il patriarca è il derivato del padre dell’orda, il suo distillato depurato, però, dell’ingordigia pulsionale del suo predecessore. È tale sua ‘moderazione’ che lo rese amabile, idealizzabile. Egli ha sconfitto – o meglio, arginato – la prepotenza libidica del suo antenato e, grazie a tale raffinazione della sua figura, può elevarsi a oggetto ideale.

Il patriarca è – per così dire – il prodotto storico della mitica uccisione del tiranno primordiale, il frutto della sua simbolizzazione. Il leader capace di generare il fenomeno della massa, assume su di sé, enfatizzandoli, i tratti del patriarca, recuperando, tuttavia, del padre dell’orda, una parte del suo carattere pulsionale. il Fürher è, allora, colui che è in grado di rievocare l’inclinazione egocentrica del tiranno primordiale, la sua spregiudicatezza libidica che i suoi sottomessi gli invidiavano ma, contemporaneamente, ammiravano; una sorta di reviviscenza del padre dell’orda, che, tuttavia, eredita dalla figura di patriarca una disposizione più temperata, una maggiore attenzione al suo popolo, memore della fine che quest’ultimo ha riservato a chi non si era curato in alcun modo del suo appagamento. In tal modo, il capo si assicura che la massa non sviluppi alcun intento omicida nei propri confronti: al contrario, la folla lo protegge, lo difende, lo tutela, per tutelare per sé stessa l’accesso a quelle briciole di godimento che cadono dalla ricca tavola del suo padrone. La storia ci insegna che la folla si rivolta contro il capo non perché egli ha troppo potere, ma quando dimostra di non averne più: in altri termini, quando non è più in grado di garantire quella parte di godimento con la quale aveva ‘barattato’ la propria incolumità. Il capo è in auge finché è identificato al fallo turgido. Al cui culto, gli esseri umani si danno, educati, come sono sin da piccoli al farlo, dal ‘catechismo’ patriarcale. Il culto del fallo è il culto del padre, è il culto del capo, è il culto del maschile. Il patriarcato consiste in questa forma di religiosità che attraversa le varie confessioni e le varie fedi: la sua crisi (se di vera crisi, per giunta, si può parlare) mette in discussione il sistema di valori e l’ideologia che sostiene e lo sostiene. Per questo, non c’è da illudersi. La nostalgia della sua mitica stabilità si infiltra negli ambienti più insospettabili: dai quali, molto probabilmente – come già mi sembra di vedere – bisogna aspettarsi che arriverà il gesto di restaurazione più violento ed efficace.

 

Note:

[1] Il primato del fallo potrebbe riassumersi schematicamente in due semplici formule: 1) prima che lo sviluppo cognitivo, l’intervento educativo e l’esperienza sociale smentiscano tale credenza, per il bambino esiste un solo sesso, quello maschile – nei corpi in cui è assente, il pene o spunterà un giorno o, per varie ragioni, è stato tagliato via –. 2) la successiva consapevolezza dell’esistenza del sesso femminile implica la sua definizione per sottrazione, in negativo: il sesso femminile è quello in cui manca l’organo genitale maschile.