Antonio Tricomi – Le bozze di quel racconto

Antonio Tricomi – Le bozze di quel racconto

4 Aprile 2021 Off di Francesco Biagi

ANTONIO TRICOMI

Le bozze di quel racconto

Era ancora lì, sempre lì. Oltre il vetro, lo spiazzo, la strada acciottolata subito curva, presto in salita, di colpo ingoiata dalla boscaglia. E, più su, oltre la cinta, tutto all’intorno, di pareti smussate di terra e di fronde e di arbusti, che serravano da ogni parte lo sguardo. Praticamente un cono, lì in alto, a lievitare in quella frattura più ampia di cielo che poteva vedersi tra due meno dolci rilievi scavati di netto e, quasi per intero, a occuparla: il vertice che pareva sfiorare l’immaginaria giuntura tra tali pendii; la base, perciò capovolta, sormontata da irregolari mucchi rigonfi di materia porosa che, in vari punti, davano l’idea – essa pure una semplice illusione ottica – di lambire i massicci. Lo si sarebbe detto, anche per i colori, un enorme gelato: una cialda marrone, di fattura industriale, su cui si fossero adagiati cumuli rossastri di un unico gusto, ricavato con perizia artigianale da un frutto (lampone o fragola, per esempio).

Lui qui c’era venuto per smettere di pensare. E, a forza di impegnarsi a non pensare, d’un tratto, sbirciando fuori della finestra, aveva visto il cono, o in qualsiasi altro modo si dovesse chiamare quanto, senza muovere un muscolo, proseguiva a fissare. Anzi no: non era andata così.

Da settimane non riusciva a frenare i ragionamenti: articolava, dentro di sé, catene infinite di teoremi e discorsi, una dopo l’altra, una nell’altra, che non si mischiavano con il reale, con le azioni ordinarie del vivere, con le parole pronunciate davvero, ma rimanevano sovrapposte al suo corpo, a quanto faceva o diceva, senza vietargli la propria routine e, però, stremandolo. Catene, soprattutto, che, nell’ingoiarsi a vicenda, s’incarnavano in una sequenza continua d’immagini vaghe ma orrende, che lo torturavano non avrebbe saputo più dire quando durante la veglia e quando, invece, mentre dormiva. Il sonno era infatti divenuto irregolare, quasi assente, ed egli forse non aveva, dopotutto, a lagnarsene, se tanto gli avrebbe offerto, in forma di incubi, le medesime scene che lo assediavano da sveglio. A turbarlo, fino a causargli fitte infuocate di puro dolore, s’incaricavano, più d’altre, alcune visioni ricorrenti: lui che sotterrava uno scrigno da cui colava, poi follemente sprizzava, una tale quantità di sangue da produrre un’onda che, risucchiatolo, lo trascinava con sé, lo sbalzava in cielo, nello spazio, dentro un’astronave dove c’era, ad attenderlo, una donna, simile a sua moglie, che prima gli chiedeva “Stasera verrai giustiziato: vuoi dirla almeno a me, la verità?”, quindi gli indicava una mannaia, nei pressi, gridando “O intendi usare quella, adesso, contro di te?”, infine pareva liquefarsi, o anzi mutarsi in un ermafrodita che, nudo, si slabbrava in una trama di schegge.

Non ne poteva più. Allora s’era preso qualche giorno di ferie per salire alla baita dove tutto era forse iniziato. Un mese fa era qui con il figlio. L’ultima cosa che ricordava era loro due in cucina, intenti l’uno a sminuzzare il basilico con la mezzaluna, l’altro a ridurre in cubetti il guanciale con un coltello, mentre nel portatile, adagiato sopra il tavolo, scorrevano i fotogrammi di un vecchio film di De Sica a lui caro: Il giudizio universale. Poi ricordava le parole del figlio, “Me ne vado dall’altra parte del globo con lui”, e di aver pensato: “Come: va via? Ho perso ogni cosa per crescerlo, tutto da solo: dopo che m’ha ucciso la moglie, per nascere. Lei non voleva un bambino. Son io che ho insistito: che ho ammazzato la madre, per averlo. E adesso che fa? Mi abbandona?”. Dell’ultima sera passata col giovane, altro non ricordava. Aveva solo memoria di sé che diverse ore, forse giorni, più tardi, sempre nella baita, sorseggia del succo di pomodoro scondito (ma eccezionalmente aspro) da un calice sbeccato, mentre, seduto sul divano, i piedi distesi sopra un baule, si rilassa, sudato e ormai senza forze, rivedendo un altro film amatissimo, Il disco volante di Tinto Brass, ancora dal portatile, sistemato sulle cosce.

Del figlio, non s’era saputo più nulla. Che lui c’entrasse con questa scomparsa, gli inquirenti avevano subito avuto il sospetto, specie perché non sapeva dire cosa fosse accaduto tra loro negli ultimi istanti trascorsi assieme e che accidenti egli avesse fatto immediatamente dopo o, magari, nei giorni appresso. Ma al capitano, venuto a disturbarlo ancora una volta in ufficio, rovinandogli la piccola pausa quotidiana dall’oscuro lavoro di correttore di bozze, lui l’aveva ripetuto di nuovo, mentre gustava l’abituale cono gelato all’amarena: “Adoravo mio figlio. Per non fargli mancare niente, ho ripudiato le mie ambizioni di scrittore di fantascienza e mi sono chiuso qui dentro, a sgobbare più di un mulo. Senza di lui, il mondo, per me, sarebbe letteralmente finito. Cadrebbe in pezzi. E io con lui. Perché avrei dovuto squartarlo?”.

Solo che l’angoscia, crescendo ogni giorno, s’era tradotta alla fine in calvario. Alla baita – ereditata dai genitori, così come i suoceri morti da tempo – c’era dunque tornato perché lui stesso voleva capire. Ritrovare, se non la pace, persa per sempre, almeno qualcosa che sembrasse un equilibrio mentale. Non avrebbe potuto esserne certo, appunto perché star sveglio o dormire erano diventati per lui l’identica cosa, un’unica forma di allucinazione, ma avrebbe detto che non chiudeva occhio da due settimane. O era viceversa strizzato da un feroce sonnambulismo perpetuo, sicché, pure ora, si stava agitando come un automa privato della coscienza?

Fatto è che, lasciata l’auto, entrato in casa, ambiva semplicemente a un po’ di luce in cucina. Quindi aveva aperto un’imposta. Ed eccolo, il cono, nel cielo. Serrava le palpebre, di nuovo le apriva: era lì. E, nel tener dietro, infine, alla voglia di non chinare lo sguardo, se n’era persuaso: fosse sveglio o caduto nel sonno, di un miraggio, però, non si trattava. S’annunciava, al contrario, l’apocalisse: aveva temuto di schiantarsi lui solo, la morte giungeva invece per tutti. Quel gelato sospeso nell’aria avrebbe cominciato presto a squagliarsi, a far sgocciolare, come pure, roteando, a far schizzare ovunque i suoi rossi ammassi cremosi. E qualsiasi cosa fosse stata raggiunta da tale pioggia si sarebbe sventrata. Era solo questione di tempo: l’intero creato sarebbe andato in frantumi. Dei quali, alla fine, nulla sarebbe rimasto.

L’idea lo sorprese che, immobile, da circa un’ora spiava là fuori, dove nulla accadeva: non si sarebbe visto morire. Si accomodò su una sedia, trascinata davanti alla finestra, e chiuse gli occhi. “Non intendo più aprirli”, si disse, galleggiando nella solita faglia tra presenza ed abbaglio. E queste parole faticarono a farsi largo tra le tante che si rincorrevano nella sua mente come sempre e anzi di più.

Egli però non le tradì. Anche quando, dall’esterno, lo raggiunse un rumore continuativo e crescente, dapprincipio lontano, quindi a poco a poco vicino, che, in altre occasioni, avrebbe ricondotto al crepitio dei sassi sulla strada causato da più macchine dirette alla baita. “Inizia la distruzione”, pensò invece. E al buio rimase pure quando quel tramestio divenne un fragore arrestatosi poi di colpo, come si trattasse – questo, in altri momenti, egli avrebbe dedotto certamente – di automobili giunte infine sotto casa. “Ci siamo. Tutto, intorno a me, si squaderna”, fu il suo pacato ragionamento. Che non mutò per il fracasso – avrebbe all’istante capito, se il punto non fosse stato che il mondo cedeva – di gente che bussava con vigore alla porta. E, del resto, lui già non riusciva più ad avvertire né questo né altri frastuoni: delle colline che si spaccavano, degli alberi triturati, delle pareti della baita che crollavano. D’improvviso s’era percepito travolto da un lembo di quell’orrida mousse precipitata dal cielo; il corpo gli s’era aperto in un ventaglio di crepe infinite; aveva sentito scompaginarglisi il respiro in rantoli solo sconnessi. Era morto, cosciente di ridursi in frammenti. Come l’avesse stroncato un infarto.

[Racconto già apparso, con il titolo In una baita, nell’antologia 2016: un cono nello spazio, a cura di Antonella Gaita, Duende, Giulianova 2016]

 

Di un altro congedo

 

Non c’è niente di naturale.

È uno sbavo nel rammendo,

il nascere, appena.

È un inciampo del corsivo,

perdere fiato, battito, luce.

Rallegrarsi non serve

che felice schiumi sudore,

il corpo, dilatando i tessuti.

Consolarsi non vale

che ghiacci una smorfia,

sbecchi un ordito,

il tempo di ognuno, sul raso.

La veglia ha scolpito l’assenza:

non è subito discernimento

ma dolore quand’è schiava energia,

meccanico schiudersi addosso.

È diniego o allucinazione,

l’orma slabbrata sopra il respiro.

Ma già non ha fretta il lavoro:

è per caso, se ti lasci scostare

dalla trama delle riapparizioni.

È di sera, un’incomoda sera.

Il calco della voce dà tregua,

l’odore non stinge intero il palato,

non s’accosta un passo ad un altro

nella febbre dell’immaginario

arrancare tra vecchie salite:

fuori del duomo; laggiù si va in Grecia;

sull’acqua del porto scaglie di sole.

Ed è lì che la vedi, che la rivedi,

in una ruga malcerta del vuoto,

dentro i contorni di qualche suo gesto,

mentre non chiama, non vive e non è:

privazione finalmente assoluta

che arresa può farti annaspare –

ed è frammista l’angoscia al sollievo –

in un capogiro, quindi una fitta

di colma luminescenza cieca.

Un attimo solo. Poi è trascorso.

La stanza, di nuovo, ora è ferma.

Scopri che adesso in silenzio principia

il grato ricatto della memoria.

[Con altro titolo, il componimento è apparso su «almanacco.wixsite.com» il 10 ottobre 2018]