Pandemia immaginaria e social media – di Alvise Marin
L’epidemia d’immagini che ha colpito l’umanità contemporanea sembra aver sancito il suo ingresso definitivo nel registro dell’Immaginario e il suo congedo, salvo realtà residuali, dalle strutture simboliche e quindi dalla realtà, in cui ha da sempre abitato.
L’uomo fin dalla preistoria ha prodotto immagini, istoriando le pareti delle caverne, affrescando le volte dei templi, dipingendo tele e superfici le più varie. Al di là di ciò che rappresentavano, il loro era un piano, anche laddove entravano in commistione con la vita reale, separato da quest’ultima. La riproducibilità tecnica delle immagini ne ha permesso l’immissione nelle nostre vite, secondo flussi di un’intensità mai vista prima. Attraverso i media le immagini rimbalzano ai quattro angoli del globo, suscitando onde di commozione, avversione, rispecchiamento e terrore, modellando, sopratutto con quelle pubblicitarie, relazioni sociali e identità, individuali e collettive, assorbendo la realtà in un cono immaginario, con il quale viene a coincidere.
L’immagine si è autonomizzata dalla realtà e ne ha assunto lo statuto. Il mito platonico della caverna non è più percorribile, perché alle spalle delle ombre non ci sono le cose reali, ma altre ombre, in un irreversibile effetto di mise en abyme.
Oggi l’immagine produce la realtà, è la realtà, e qualsiasi altra forma in cui quest’ultima si presenti, risulta una versione degradata, non altrettanto credibile quanto la prima. E’ l’immagine ad assegnare il valore di verità alle cose, ad essere l’unico criterio di distinzione tra vero e falso, essere e non essere. L’ininterrotta produzione e riproduzione mediatica di immagini e la loro circolazione e ricombinazione infinita riconfigurano di continuo il tradimento della realtà da parte dell’Immaginario e della sua galleria di mutevoli simulacri. La conseguenza di ciò è che ogni accadimento sembra sempre portare con sé un alone d’irrealtà e di finzione, piuttosto che di revocabilità. Le immagini sono tracimate nella nostra vita reale, de-realizzandola, modellandola a loro immagine e somiglianza, attraverso monitor ubiquitari collocati in luoghi e spazi pubblici e superfici pubblicitarie che ricoprono gli edifici delle nostre città, fino alla surreale disneylandizzazione di alcuni spazi suburbani americani o la trasformazione di alcune città in veri e propri parchi a tema.
Nelle nostre già immaginarizzate società, la nascita di internet, la diffusione di device prêt-à-porter dotati di interfacce interattive multimediali e, in anni recenti, dei social media, hanno permesso un passo in avanti, rispetto ai media tradizionali, tale da creare un nuovo ambiente, che – attraverso un gioco di specchi interno – tende a rendersi progressivamente autonomo dalla realtà esterna.
Il salto tecnologico compiuto è stato tale da riconfigurare velocemente le nostre modalità cognitive e relazionali e provocare, soprattutto nei giovani, alterazioni neuro-percettive: ogni tecnologia, che in sé non è mai neutra, contiene già nelle sue specifiche progettuali le caratteristiche del mondo che plasmerà con la sua adozione.
I social media, a partire dal primo, Facebook, hanno fatto di più, rimodellando anche le nostre identità individuali: alienandosi nel profilo del loro account, esse trovano in quest’ultimo una vera e propria estensione, una sorta di protesi identitaria, al punto che, in alcuni casi, l’identità del singolo è stata aspirata nel buco nero di fb, senza residuo alcuno.
Se da un lato Facebook ha permesso l’accesso ad una produzione illimitata di informazione, per quanto, spesso, di difficile verificabilità, dall’altro ha dato la possibilità ai singoli utenti di condividere in parole e immagini, pensieri, affetti, emozioni, esperienze ed aspirazioni, diventando in questo modo, un sistema di riconoscimento virtuale globale. Condivisioni che nei social più recenti, come Instagram, eliminano le parole, limitandosi alle sole immagini.
Chiedendoci quale tipo di riconoscimento possano fornire i social, possiamo facilmente verificare come spesso l’immagine che una persona fornisce al proprio avatar digitale è quella che più si avvicina al suo Io ideale, con il ricorso, in alcuni casi, a interventi correttivi e migliorativi. Un’immagine di sé stessi, che fin dall’inizio assume statuto di simulacro con cui si stacca dalla realtà, per entrare in un registro diverso, quello dell’Immaginario. Qui l’essere tende a fondersi con il sembiante, che a sua volta diventa più reale del reale, iper-reale. Più le nostre immagini passano attraverso la platea di amici, conoscenti e semplici spettatori, più si distaccano dall’originale, di cui non portano più alcuna referenza.
Qui il narcisismo del singolo si amplifica, entrando in vibrazione con quello altrui, per andare a costituire comunità virtuali e immaginarie, in cui, in un gioco di rimandi speculari e simmetrici, ognuno solidifica quella struttura immaginaria che è, ab origine, il suo Io. La nostra identità, attraverso l’interfaccia di fb, diventa una vetrina, in cui collocare in bella vista ciò che risulta più apprezzabile e condivisibile oppure, al contrario, destare ondate di critiche e disappunto.
Ciò che conta è l’esposizione, o meglio la sovra esposizione allo sguardo dell’altro, che possa illuminare con una luce endorfinica identità spesso fragili e claudicanti: in una messa in scena del proprio teatro interiore, opportunamente camuffato e imbellettato, di fronte a spettatori che si auspica possano rispondere con la claque dei like. Simulando e dissimulando, indossando e togliendo infinite maschere, tante quante le stanze virtuali in cui si desideri abitare. Confessando involontariamente la fragilità del proprio Io e la funzione vicaria, che a suo sostegno svolgono i social media, in una simulazione del proprio sé, che rischia fatalmente di scivolare in una sua falsa versione, in un’altalena tra voyerismo ed esibizionismo.
Quello che inconsciamente va in scena è il dramma di Narciso che, nel suo ripetersi all’infinito, non punta alla ricerca di se stesso, ma della propria immagine alienata e perciò inattingibile, attraverso il riscontro che gli spettatori forniscono alle sue performance. Attraverso lo specchio dei social si rincorre quell’immagine ideale di se stessi che rimane sempre altro da sé e il cui avvicinamento o allontanamento generano rispettivamente idolatria e (auto)aggressività.
Le prestazioni fornite dal singolo o dai gruppi, visto il flusso continuo di parole e immagini, che tutto omologa e uniforma, devono essere sempre più spettacolari e di grande impatto.
Il preoccupante fenomeno degli adolescenti, che si confrontano con esperienze estreme, dall’esito talvolta fatale, ci dà la misura del loro assorbimento nel cono immaginario, dove ogni legame con la fatticità del proprio corpo tende a venire meno. Dove la verità della propria soggettività corporea viene scambiata con una finzione incorporea, che promette di redimere queste vite da un vuoto di riferimenti di senso, che non ha trovato nell’Altro parole piene con cui colmarlo.
D’altra parte è la stessa illusoria ubiquità che la rete promette, che ci rende corpi disincarnati che fluttuano nel vuoto digitale del web. Siamo in affannosa e compulsiva ricerca di conferme da parte del nostro pubblico: che esistiamo ancora, che l’immagine pubblica di noi stessi non si sta deteriorando, che l’altro supporta ancora immaginariamente il nostro Io. Con inevitabili crisi di astinenza da emoticon che, protratte nel tempo, possono sfociare in un crollo narcisistico, dal tenore depressivo. A questo punto non è più l’ascolto della propriocettività del corpo vissuto (Leib), che fornisce la conferma della sua esistenza e della sua permanenza, ma l’immagine alienata di un selfie da condividere nei social. Ed è la stessa quotidianità a non portare più con sé la certezza della realtà, laddove non venga certificata da immagini pubblicate in rete. Perché la vita vera si è trasferita nell’immagine, mentre la realtà, che si va modellando a partire da essa, per un’inversione ontologica, ne diventa il simulacro.
Se nei social il rapporto con la realtà tende a dileguarsi, le manifestazioni pubbliche di rivendicazione e protesta, innescate dal loro interno, hanno sempre il fiato corto. I social non sono l’ambiente che possa innescare rivoluzioni sociali e politiche, vedi il fallimentare esito delle primavere arabe, perché il loro collante non sta in una realtà simbolica condivisa, oramai in fase di frantumazione, ma in un immaginario evanescente e facilmente rimpiazzabile secondo i tempi accelerati degli eventi e delle mode. Ciò porta spesso ad agire ‘come se’, quindi senza la forza di simboli condivisi, stratificati e incarnati, ma con la debolezza di immagini che spesso vengono viste ma non comprese.
Possiamo dire che nei social non si entra in contatto con l’alterità, ma con la specularità, prova ne è che si tendono a costituire comunità virtuali omogenee per interessi dove, come ho scritto, funzionano rapporti speculari simmetrici. Per entrare in contatto con l’Altro e quindi con il proprio corpo che, ricordiamolo, si umanizza dal momento in cui viene iscritto dai significanti che il grande Altro (le tradizioni, le culture, i miti ecc.), imprime su di esso attraverso il linguaggio, ognuno di noi deve pensarsi nella sua divisione, ovvero nell’ordine del Due e non dell’Uno. L’Uno dell’Io non dà spazio all’Altro e, nella sua esaltazione monolitica ed immaginaria, è foriero di paranoia e, di fronte al suo crollo, di schizofrenia. Nei social non si esibisce quasi mai la propria mancanza, ovvero il proprio essere, ma quasi sempre l’ipertrofia immaginaria del proprio Io. Se questo porta con sé una sensazione inebriante, allo stesso tempo espone il soggetto ad un potenziale crollo, perché a mancare sono le fondamenta di uno stabile sistema simbolico condiviso, sul quale il soggetto si sia potuto edificare. L’epidemia immaginaria in cui viviamo, è infatti il frutto del crollo degli universi simbolici in cui da sempre l’uomo ha vissuto e delle realtà che su di essi sono state costruite. La disarticolazione delle catene significanti a cui erano ancorate leggi, culture e tradizioni di queste realtà, e il loro shakeraggio in un miscuglio combinatorio di segni de-ferenziati e de-contestalizzati hanno creato, in poco tempo, il terreno fertile per questa epidemia.