Tristi cronici. A che punto siamo del disagio – di Biagio Sarnataro

Tristi cronici. A che punto siamo del disagio – di Biagio Sarnataro

6 Marzo 2021 Off di Francesco Biagi

Inserito nella “Classifica di qualità – ottobre 2020” de L’Indiscreto, Disagiotopia. Malessere, precarietà ed esclusione nell’era del tardo capitalismo è un’antologia curata da Florencia Andreola, pubblicata a maggio 2020 da D Editore[1], nella collana diretta da Raffaele Alberto Ventura, “Eschaton”. Disagiotopia raccoglie gli interventi tenuti al Politecnico di Milano nel 2017 in occasione di un ciclo di incontri organizzato dalla Andreola e che aveva come tema il concetto di disagio, appunto.

Il disagio è un malessere sfuggente e indefinito, sempre alla ricerca di una diagnosi precisa. Eppure, da Freud alla Disagiowave, passando per il Taylor de Il disagio della modernità[2], il Bauman de Il disagio della postmodernità[3], l’Alan Ehrenberg de La società del disagio[4]o per la stessa Teoria della classe disagiata[5] di Raffaele Alberto Ventura, è chiaro come civiltà e disagio non abbiano mai smesso di frequentarsi.

Disagio, si legge nella Prefazione di Ventura, è il prezzo esistenziale, l’esternalità negativa principale della produzione di benessere. Nel libro troviamo un’analisi delle forme del disagio associabili a quella fase di crisi permanente che con Ernest Mandel chiamiamo “tardo capitalismo”. Una fenomenologia della fine della modernizzazione, l’esibizione della sofferenza di un occidente che non smette di tramontare, agiato e signorile, incontentabile come chi si lascia servire e ama comandare; incontenibile come chi non giudica di stare ancora a colonizzare. Ma di molto impoverito.

Quello che ne viene fuori è una cartografia del collasso: la decomposizione di una classe-mondo – la middle class occidentale, come ne parla Guido Mazzoni nel suo contributo Quattro crisi, il gruppo culturalmente egemone del pianeta, a cui si rivolge la mitologia mediatica che avvolge la Terra – che ha conservato progressività solo nella gestione del cinismo, della rendita e della polizia. Da questo punto di vista bisogna essere chiari: il disagio è realmente il sentimento morale più diffuso all’interno di una società che consuma più di quello che riesce a produrre, di una società signorile di massa[6]. Per ogni altro segmento della produzione e riproduzione sociale si può continuare a parlare di sfruttamento.

 

Capitalismo corpuscolare

Roberto Fineschi, uno degli interpreti italiani più rigorosi del nuovo corso di studi su Marx, ha definito la fase di ristrutturazione capitalistica che stiamo attraversando capitalismo crepuscolare[7]. Le scomposizioni e le proiezioni di quell’asse ontologico del capitale che è l’individuo ci presentano una ideologia della libertà che mette in crisi il concetto stesso di persona, vale a dire dell’universale uguaglianza e libertà degli esseri umani.

La banalità del male della dottrina delle paci perpetue di mercato ci ha insegnato che la libertà non è per tutti ma è un tutto, un valore determinato astrattamente. Nel capitalismo, oltre a essere possibile, in linea di principio si ammette e giustifica la coabitazione della libertà e della schiavitù. Seguendo Fineschi:

– di una schiavitù salariata ovvero della libertà dei moderni, per cui contrarre un contratto dispone alla vita adulta, rispettabile e garantisce la sopravvivenza;

– di una schiavitù classica ovvero della libertà degli antichi, che invece non si basa sulla performance produttiva e della soggettivazione, ma fa appello a nomos originari, tale che avere non autoctoni, che magari immediatamente neppure godono della piena personalità giuridica sul territorio nazionale, permette di stigmatizzare la questione sociale non come dinamica funzionale della contrapposizione di classe del modo di produzione capitalistico, ma come problema dell’immigrazione, razziale. Avere quindi gli schiavi salariati che sono pure nella stragrande maggioranza meridionali, latini, algerini, facilita la creazione di un blocco sociale conservatore dove gli autoctoni – pure sfruttati in quanto salariati – preferiscono stare dalla parte del capitale in cambio di un trattamento migliore e per maggiore affinità culturale[8];

– di una schiavitù – aggiungo io – metabolica ovvero il problema della libertà per come abbiamo capito si è sempre dato e per come, in virtù di una considerazione ecologica, dobbiamo porcelo oggi.

Ma cosa significa questa aggiunta alla coppia studiata da Fineschi? Che dobbiamo fare lo sforzo di decolonizzare la critica dell’economia politica, perché se continuiamo a concepire la diversa configurazione delle contraddizioni interne al capitale come se si trattasse di trasformazioni epocali, di una continua successione di fasi, corriamo il rischio di situarci sulla stessa linea temporale dell’ideologia capitalistica.

Il capitale come rapporto e come cosa è ab origine crepuscolare, accumulatore, spoliatore, colonizzatore. Ciò che ne distingue il carattere prevalente dipende dall’osservatore e dallo scontro dei rapporti di forza in atto, poiché oggi parliamo di segmenti produttivi, di giornate di lavoro che con la categoria di “giornata” non hanno più niente o molto poco a che fare.

Che si tratti, come già si legge in Marx, di schiavi neri, di sepoys cinesi, di giavanesi, di coolies, di impoveriti, contadini nelle fabbriche, di salariati in competizione, lo schema di estrazione della forza lavoro punta sempre al profitto: è coazione fisica sotto pressione padronale per l’autovalorizzazione del capitale. Ovvero: non esiste il capitalismo storico senza il colonialismo storico, dei territori così come delle vite. Non esiste capitalismo al crepuscolo che non sia stato razzista e schiavista dal primo minuto di estrazione del plusvalore. Certo: non dobbiamo disperdere consistenza e precisione delle differenze specifiche. Ma neanche possiamo fare a meno di porre il problema di un altro, diverso concetto di libertà e di oppressione sociale.

Schiavitù metabolica e considerazione ecologica vogliono dire che se continuiamo a porci da una prospettiva esclusivamente kairotica, ad esempio, come se stessimo sempre sull’orlo del collasso –  soprattutto quando sembra di starci realmente – o della rivoluzione – qui le percezioni si fanno più diversificabili – finiamo a parlare di apocalissi culturali senza renderci conto che persino l’apocalisse è una rendita della posizione di privilegio dell’occidente, inteso come quella parte del mondo dove il mondo può finire e il tempo compiersi.

Vuol dire, in poche parole, abbandonare la semantica del tempo, della progressività, anche del capitale, per approdare finalmente a una semantica dello spazio e della materia. Anche perché, inscritto in quella temporalità l’ Illuminismo una rivoluzione l’ha fatta, non ne farà un’altra, anzi in quei termini persino la rivoluzione diventa, nel migliore dei casi, una escatologia degli oppressi, malinconia di sinistra.

Il capitale esiste come flusso continuo di valore attraverso vari stati fisici come il denaro, la merce, il lavoratore, la terra. La continuità del flusso è una condizione primaria dell’esistenza del capitale: il capitale deve circolare con continuità e reinventare i modi della sua circolazione continuamente. Altrimenti muore. Bisogna lasciare che i crepuscoli tramontino e cominciare a guardare alla contraddizione assoluta che coglie il capitale vs pianeta Terra, risignificare la linearità del tempo con la circolarità dello spazio. Recuperare li punto di vista di Niels Bohr, o di Carlo Rovelli se si vuole, nella critica dell’economia politica. Perché il problema è concepire la simultaneità e la pluricontestualità della cosa e del processo chiamato capitale.

Chi ha raccolto, da questo punto di vista, una indicazione fondamentale è Federico Chicchi. Nel suo contributo a Disagiotopia la critica al capitalismo contemporaneo parte dal Gilles Deleuze del Poscritto sulle società di controllo[9]. Secondo Chicchi siamo passati da una società del capitale a una società del denaro, invertendo socialmente i piani, contraddicendo l’inversione storica, logica e epistemologica studiata da Marx. Deleuze spiega come questo passaggio sia avvenuto anche sul piano istituzionale: dal controllo all’autocontrollo, dal carcere all’impresa. L’impresa, si legge nel Poscritto, è un’anima, un gas, si insinua dappertutto, diventa lo spazio stesso della nuova modalità di produzione di soggettività.

L’ordine del discorso contemporaneo nella forma dell’impresa, questa inedita e intima cogenza sociale  che determina le condizioni di esercizio della soggettività contemporanea e delle sue inedite espressioni psicopatologiche, prevede l’evaporizzazione del lavoro, il deplacement del lavoro all’interno della sintassi sociale. È qui, in questa riconfigurazione del rapporto sociale di produzione, nel farsi sempre più sottile del confine tra produzione e riproduzione sociale, che dobbiamo situare la frontiera di nuove forme di accumulazione capitalistica.

Queste forme di estrazione di plusvalore non sono una deviazione improduttiva e parassitaria di quote crescenti di risparmio collettivo, bensì produzione di valore in spazi fino ad ora definiti come improduttivi: le cosiddette sfere della riproduzione sociale e della circolazione. Il che vuol dire: esteso a tutta la spettrografia della vita sociale, l’esistenza dell’impresa permette l’esistenza del profitto crescente senza accumulazione di capitale fisso.

Chiamo perciò capitalismo corpuscolare questo capitalismo biopolitico, per cui il capitale smette di controllare e comincia ad orientare la vita e la vita diventa comunicativamente, ovvero tutto quello che conta per uno zoon politikon loquace[10] come l’uomo, un buono o un cattivo investimento. Una ideologia che si avverte come disagio della classe media impoverita e performante, mentre continua a chiamarsi sfruttamento per il resto, e polizia e aparthaid sociale per chi si trova dall’altra parte della barricata. Ciò che è accaduto è il divenire merce della vita: i confini della forma merce sono infatti diventati consustanziali alla vita. Per cui: il mercato diventa l’unica matrice del sociale. Marx dava un preciso nome a questo fenomeno: feticismo.

Il programma di civiltà della civiltà del valore di scambio è arrivato al punto da non avere più bisogno dell’ipocrisia borghese della disciplina dei contratti: non c’è bisogno dello scambio ma soltanto del valore. E questo perché il capitale non produce più società: è diventato società, un sistema di comunicazione, detta à la Niklas Luhmann, nel quale ogni elemento è coinvolto immediatamente e mimeticamente non come forza-lavoro ma come forza-valore.

L’evaporazione del lavoro da forza a valore immediato dei corpi, da proprietà del corpo a facoltà dei corpi, è secondo Chicchi la posizione di una società che subisce la crisi di un’intera episteme. Se il capitale si è fatto immanente alla vita vuol dire che ha la forza di bloccare la vita dell’immanenza. Ed è a questo punto, in questa perdita di autonomia, che Chicchi ci rimanda all’analisi dell’omologia che sussiste tra sfruttamento industriale e cattura biopolitica del valore, tra il più-di-godere di Lacan e il plusvalore di Marx: la necessità di creare senza sosta un surplus di godimento che motivi soggettivamente, nella illusione narcisistica, il rilancio del processo di accumulazione.

Oggi tale processo si iscrive direttamente nei corpi, installa dispositivi che presiedono all’accumulazione in seno ai processi di soggettivazione, in modo che si riesca a produrre una sorta di cortocircuito tra potere e resistenza, tra soddisfazione e insoddisfazione, e confondere sul piano epistemologico ed etico la loro differenza.

 

Fratture metaboliche

Slavoj Žižek è tornato a parlare di metabolic rift[11] e lo ha fatto da una prospettiva prossima a quella di Chicchi. Citando il giovane studioso coreano Kohei Saito (tra le altre, curatore dei quaderni ecologici di Marx) arriva a porre la questione secondo una prospettiva hedeggeriana:

“Non dovremmo ricorrere alla descrizione di Marx di come nel capitalismo tutto ciò che è solido si scioglie nell’aria, tutto ciò che è santo è profanato anche rispetto alla natura stessa? Oggi, con gli ultimi sviluppi biogenetici, stiamo entrando in una nuova fase, in cui è la natura stessa a dissolversi nell’aria: la principale conseguenza delle scoperte scientifiche in biogenetica è la fine della natura. Una volta che conosciamo le regole di costruzione, gli organismi naturali si trasformano in oggetti suscettibili di manipolazione. La natura, umana e disumanizzata, viene così “desostanzializzata”, privata della sua densità impenetrabile, ciò che Heidegger chiamava “terra”. Questo ci obbliga a dare una nuova svolta al titolo di Freud Il disagio nella civiltà – malcontento, disagio, nella cultura. Con gli ultimi sviluppi, il malcontento si sposta dalla cultura alla natura stessa: la natura non è più “naturale”, lo sfondo “denso” affidabile delle nostre vite; ora appare come un fragile meccanismo che, in qualsiasi momento, può esplodere in una direzione catastrofica”.

Il concetto di metabolic rift, la frattura metabolica tra lavoro, natura e valore, porta avanti la concezione materialistica della storia al punto da reimpostare il discorso critico nel senso di un metabolismo universale, naturale e sociale assieme. Considerando ciò che riporto di Žižek e prendendo spunto da Il lavoro è una cosa “seria”. Apologia della festa[12] faccio una considerazione ecologico-politica tramite una considerazione ecologico-politica del giovane Marx.

Siamo molto lontani dal trovare nel capitalismo corpuscolare una dimensione comune di festa, come ad esempio, e per le ragioni storiche che sappiamo, poteva essere il primo maggio – anche nelle sue edizioni più posticce. Per corrispondere al grado di sfruttamento metabolico a cui assistiamo e siamo esposti, festa sarebbe soltanto il caso di una festa della forza-lavoro, persino contro il lavoro. In tal caso parleremmo a ragione di festum, che concerne anche l’essere gioiosi, e la gioia o è collettiva o è un’altra cosa. E gioire vuol dire anche essere gai, approssimarsi alla terra (come va ripetendo da un po’ Bruno Latour). E la terra è collettiva per costituzione: la gioia ne è un segno, della terra, della vita, piena. In un senso, evidentemente, contrapposto al nomos della teologia politica, e non a caso.

E allora:

“Per esempio il Milton, che scrisse il “Paradiso perduto” per cinque sterline […], fu un lavoratore improduttivo. Invece lo scrittore che fornisce lavori dozzinali al suo editore è un lavoratore produttivo. Il Milton produsse “il Paradiso Perduto” […] per lo stesso motivo per cui un baco da seta produce seta. Era una manifestazione della sua natura. Egli vendette successivamente il prodotto per cinque sterline»[13]; e poi: “Se il baco da seta dovesse tessere per campare la sua esistenza come bruco, sarebbe un perfetto salariato”[14].

Ecco, dal punto di vista di un baco da seta digitale, uno smart worker o un lavoratore uberizzato è quel soggetto che partecipa in maniera subordinata, parcellizzata o addirittura in forma semi-automatica al processo di valorizzazione del capitale. Fanno parte di questa valorizzazione i lavoratori che percepiscono salario, i disoccupati, gli inoccupati, e ogni altro tipo di attività esclusa dal vincolo del salario, e quindi anche il lavoro di riproduzione sociale – cura, lavoro domestico, lavoro nero/grigio, come effettivo presupposto della valorizzazione. Ogni attività concorre alla formazione di plusvalore, persino quella dovuta all’entusiasmo, quando ci capita. Un tributo dei corpi al sistema etero-cis-patriarcale, introiettato al punto da diventare insensibili verso la nostra e la fragilità di chi ci sta o ci è stato più vicino.

Ma che cos è questa fragilità? Il sintomo dissidente: un punto non assimilabile, che fa attrito e resistenza, il clinamen che devia dalla caduta stabilita. È in questi spazi di antropogenesi, in questi intermundia dove Lucrezio collocava persino gli Dei, che si trovano le scintille di un mondo non riducibile, indisponibile, essenzialmente comune. Provare a investire politicamente sui sintomi significa, spiega Chicchi, avere il coraggio di dare vita a una politica comune del desiderio, una liberazione materiale ed estetica al contempo. Ricostruire la vita, riedificare il mondo.

 

Apollineo, dionisiaco

Questa grande civiltà occidentale, (e non ci metto la pandemia, la sua gestione, il fantasma della patrimoniale[15]), non è riuscita a produrre PIL senza contropartita. Di fronte a risultati che vorremmo continuare a chiamare razionali, le avventure dello spirito a queste latitudini, nel Nord del Mondo, hanno provocato una frattura nel metabolismo non solo tra lavoro e valore, ma anche tra motivazione e azione.

Nel capitalismo corpuscolare l’individuo disagiato, con gradi differenti di consapevolezza, abnegazione, rimorso, disincanto, frustrazione o rivalsa, conosce:

– condizioni di lavoro precarizzato, mal retribuito, non retribuito, senza diritti, bullshit jobs, auto-sfruttamento, la retorica del marketing on-line, forme di lavoro sovra-qualificato;

– l’ansia, la depressione da prestazione da società dello spettacolo, la dipendenza dalla dopamina, l’hype del like, soprattutto per il lavoro immediatamente intellettuale, che è ideologicamente più esposto (e poi perché fare del lavorio dello spirito un lavoro, con questi chiari di luna, vuol dire almeno stare male);

– la gentrification globale, come dice Loretta Less nel suo saggio in Disagiotopia e che presuppone e implica una airbnbnizzazione delle città, per cui avvengono due cose: le città diventano così smart che diventa intelligente non abitarci; se non te ne vai tu, te ne mandano loro, con l’espulsione dei ceti popolari dai centri-vetrina, questione che in posti come in Brasile ha avuto risvolti da genocidio nelle favelas;

– la post-verità, una rilettura populista e padronale della dialettica servo-padrone, che a scanso degli equivoci di Confindustria non è in nessun caso una relazione palindroma;

– le teorie del complotto;

– produzione etero-cis-patriarcale dei soggetti, per cui dovremmo lasciarci dire da Monique Wittig come sta facendo in Italia Federico Zappino;

– la Pulizia economica, come dice nel suo contributo Saskia Sassen, ovvero la distorsione della teoria economica neoliberale che esclude dal suo spazio retorico e statistico gli indici di fallimento delle politiche economiche. In particolare rispetto ai cosiddetti “piani di ristrutturazione”, alle forme di aiuto nel colonizzare i vari sud del mondo, per cui l’esito è stato: governi indeboliti e la distruzione delle economie tradizionali, vaste regioni del mondo che diventano siti per l’estrazione di risorse (anche umane, chiaramente), piuttosto che lo spazio di sviluppo di una nazione (o di un paese dell’entroterra, ugualmente);

– l’ orrore dello spazio domestico, come lo intendono Pier Vittorio Aureli e Maria Shéhérazade Giudici nel saggio che firmano assieme per Disagiotopia, dove dal mancato riconoscimento di un salario domestico e poi di riproduzione sociale si arriva fino alla organizzazione simbolica dell’intimo secondo il canone della domination masculine;

– l’atmosfera di nichilismo attivo secondo Umberto Galimberti che chiude il testo edito da D Editore, la quale ancora avvolge la condotta dei nostri adolescenti, almeno da quando Galimberti ha pubblicato nel 2007 L’ospite inquietante diciamo, e che influenza la psicopatologia della vita quotidiana giovanile, aggiungo io, dalla pubertà fino alla firma del primo contratto a tempo indeterminato.

La coppia nietzschiana, come si può intuire, è perciò ancora ben lontana dall’aver esaurito la sua carica ermeneutica. Necessario sarebbe riaprire il discorso sulla mancata conciliazione dei due termini nella configurazione spirituale del vecchio continente anche perché, accanto all’elenco appena fatto, l’altro problema è che ci sono ancora troppi euforici che leggono apollineo vs dionisiaco in maniera reazionaria.

Dopo tutto quello che ci sta capitando, stiamo ancora a contare le radici come fa Agamben – Atene, Gerusalemme, perché non Cordova allora – anziché sondare le nostre cicatrici. Stessa sorte ha dovuto patire – certo la storia della cosiddetta “rivoluzione conservatrice” si fonda su una ambiguità reale – tale coppia nella forma di una contrapposizione fra Zivilisation e Kultur. Sotto questo aspetto divenne persino motivo di scontro tra due fratelli famosi. Nelle Considerazioni di un impolitico, infatti, Thomas accusava Heinrich Mann di sostenere l’eroe letterario sbagliato, Émile Zola. Il francese appariva agli occhi dell’autore delle Considerazioni come l’ “intellettuale della civilizzazione” per antonomasia,  di contro allo spirito della musica (la faccio molto breve)[16].

Ma Zivilisation e Kultur sono davvero termini pressoché antitetici nell’universo di discorso della Bildung tedesca. Kultur e non come sembrerebbe intuitivo per un lettore italiano, Zivilisation, è il termine che compare nell’originale di Freud: Das Unbehagen in der Kultur. Il nocciolo della questione sta tutto qui, in questa duplicità di rimandi.

Guido Mazzoni nel saggio richiamato sopra si inserisce in questa ambiguità. Credere di aver creduto, nelle varie debolezze del pensiero, alla catallassi, che il mercato fosse l’orizzonte esistenziale più libertario e razionale, ha significato non tanto la fine della storia, né lo sciopero degli eventi, ma convivere con la fine nella storia. Se gli anni ‘90 sono connotati secondo Mazzoni dall’inaccadenza, questi anni 20 del 2000 possono davvero essere letti come storia.

La storia di 4 crisi: crisi economica del 2008. Dopo il 2008 la posizione di vantaggio che la middle class occidentale deteneva si è consumata. Crisi della decisionalità: la globalizzazione del capitale ha infiacchito il nomos della terra sostituendolo con una normatività più aerea, acquatica, come già poteva raccontare alla sua Anima (la figlia) Carl Schmitt in Terra e Mare[17]. Crisi della governance che all’interno dei singoli stati si è avvertita su vari livelli di scomposizione e disgregazione. Intanto lessicali: la semantica delle riforme è passata dal campo progressista a quello spudoratamente neoliberista. Poi, e reazionari come Michel Houellebecq stanno lì con molto talento a fare i foglianti e a ricordarcelo, la comparsa di una società civile globale ha generato fenomeni irreversibili di inappartenenza. Accanto e a partire da questo problema, è emersa l’ossessione del neoliberalismo per le regole: l’attaccamento patologico alle regole è il feticcio che rivela una consapevolezza inconfessabile. Al di sotto di quelle agiscono forze che tendono al conflitto e alla separatezza. Questa ossessione sta a garantire i profitti.

Ecco cosa è diventata l’ insocievole socievolezza di cui parlava Kant[18]: inimicizia mascherata da correttezza politica, l’equivalente intrapsichico delle regole del mercato, sdoppiato secondo i canoni di un apparato esterno, cioè governamentale e poliziesco, e interno, cioè superegotico, per nascondere a tutti i costi il fondo grigio e oscuro delle nuove forme di accumulazione.

In definitiva: la fine degli ideali collettivi di emancipazione ha spianato la strada al realismo capitalista. Il progetto illuministico di uscita degli esseri umani dalla minorità è di molto arretrato. Dall’altro lato però aggiunge Mazzoni «l’illuminismo come fenomeno politico si basa su un equilibrio fra istanze contraddittorie: non c’è rischiaramento senza corpi intermedi, e inversamente i corpi intermedi portano con sé un intrinseco elemento paternalistico, autoritario». Una società governata da soli corpi intermedi «è un elitismo illuminato, non una società illuminata».

Che fare? Secondo Mazzoni lo scenario migliore che possiamo immaginare sembra quello di un ritorno alla socialdemocrazia, a una rinnovata intraprendenza dello Stato. Ogni piano di trascendenza rispetto a questo piano di realtà, ogni utopia, sembra essere velleitaria.

Rispetto a questo si può dire: non ci resta che piangere, oppure, data l’eccedenza dei problemi e l’irrigidimento delle soluzioni in quest’anno di pandemia, che abbandonare i piani di realtà prima che questi ci abbandonino definitivamente. Abbandonare un piano di realtà per approdare a piani di immanenza.

Persino la realtà al confronto con l’immanenza sembra così trascendente. Ma che cos’è l’immanenza? Una vita: realismo ecologico contro realismo capitalista. È nel realismo ecologico che dobbiamo abolire la frattura metabolica, il conflitto delle facoltà. E come? Dialetticamente, cioè a partire dalle contraddizioni, dai sintomi dissidenti. Per un Aufhebung desiderante. Coscienti, però, che siamo ancora ben al di qua da dimostrare l’inconciliabilità di questo movimento istituente con il piano del molteplice neoliberale.

 

Note: 

[1] Florencia Andreola (a cura di), Disagiotopia. Malessere, precarietà ed esclusione nell’era del tardo capitalismo, D Editore, 2020.

[2] Charles Taylor, Il disagio della modernità, tr.it Giovanni Ferrara degli Uberti, Laterza, 2006.

[3] Zygmunt Bauman, Il disagio della postmodernità,  tr.it Vera Verdiani, Laterza, 2018.

[4] Alain Ehrenberg, La società del disagio. Il mentale e il sociale, tr.it. V. Zini, Einaudi, 2010.

[5] Raffaele Alberto Ventura, Teoria della classe disagiata, Minimum Fax, 2017.

[6] Cfr. Luca Ricolfi, La società signorile di massa, La Nave di Teseo, 2020.

[7] Cfr. Roberto Fineschi, Violenza e strutture sociali nel capitalismo crepuscolare, in Violenza e politica. Dopo il Novecento, a cura di F. Tomasello, Bologna, Il mulino, 2020, pp. 157-173; Id. Razzismo e capitalismo crepuscolare, https://www.lacittafutura.it/cultura/razzismo-e-capitalismo-crepuscolare.

[8] Ibid.

[9] Cfr. Gilles Deleuze, Poscritto sulle società di controllo, in Pourparler, pp. 234-241, Quodlibet, 2007.

[10] Paolo Virno, Avere. Sulla natura dell’animale loquace, Bollati Boringhieri, 2020.

[11] Slavoj Žižek, Where is the rift? Marx, Lacan, Capitalism, and ecology, https://thephilosophicalsalon.com/where-is-the-rift-marx-lacan-capitalism-and-ecology/.

[12] Gilberto Pierazzuoli, Il lavoro è una cosa “seria”. Apologia della festa, Ombre Corte, 2020.

[13] Karl Marx, Teorie sul plusvalore, III, in Marx Engels Opere, XXXVI, Editori Riuniti, p. 274.

[14] Karl Marx, Lavoro salariato e capitale, in Marx Engels Opere, IX, Editori Riuniti, p. 209.

[15] Giacomo Gabbuti, Il fantasma della patrimoniale, https://jacobinitalia.it/il-fantasma-della-patrimoniale/.

[16] Cfr. Thomas Mann, Considerazioni di un impolitico, a cura di Marianello Marianelli e Marlis ingenmey, Adelphi, 2005, pp. 73-86.

[17] Cfr. Carl Schmitt, Terra e Mare. Una riflessione sulla storia del mondo, Adelphi, 2002.

[18] Cfr. Immanuel Kant, Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico (1784), in I. Kant, Scritti di storia, politica e diritto, a c. di Filippo Gonnelli, Laterza, 2009.