CELAN, NACHTGLAST – di MORITZ BASILICO

CELAN, NACHTGLAST – di MORITZ BASILICO

24 Febbraio 2021 Off di Francesco Biagi

L’esilio ha inizio il 20. di gennaio; ovvero, ogni esilio ha il suo 20. gennaio. O ancora: la passeggiata montana di Lenz descrive il farsi del linguaggio esiliato[1]; e la montagna è il luogo dell’aperto, categoria rilkiana isolata da Furio Jesi nel suo commento ai Marginalien zu Friedrich Nietzsche: “Nelle postille di Rilke a Die Geburt der Tragödie ricorre una parola, Musik, che vi rimane aperta; non: ambigua, priva di significato univoco poiché dotata di molteplici significati simultanei; ma: aperta a ogni significato e tale che ogni significato non vi possa aderire, bensì soltanto vi sosti brevemente o vi scorra. (…) Rilke prende atto dell’apertura della musica nelle pagine nietzschiane e la configura come il vuoto per eccellenza con cui l’artista ha a che fare.” Ecco, noi vogliamo vagliare il sospetto che il portato specifico della poesia di Celan sia proprio in questo vuoto proferito e che anzi vi siano da ricercare in esso le ragioni di quella peculiare qualità della parola celaniana che altri hanno, con lemma raccogliticcio, creduto “oscura”.
Consentiamoci allora di dissentire preliminarmente da Adorno, quand’egli dice che Celan “traspone la disoggettualizzazione del paesaggio in procedimenti linguistici, e che quel paesaggio spogliato a mero negativo sia il “contenuto di verità” correlato a una proclività, creduta tipicamente celaniana, ad ammutire. Astrazione bislaccamente approvata dai più: ma il poeta proferisce. Diremmo, piuttosto, che egli pone il problema dell’esilio come un problema integralmente espressivo – e anzi, dacché poeta, come un problema linguistico. Non tanto nel senso corrente, che pure è menzionato nei carteggi celaniani, per cui la perdita del paesaggio natio induce l’esule ad accasarsi in una lingua, quanto invece nel senso che l’esilio è la condizione specifica di chi frequenti un linguaggio aperto. Ed è da un simile linguaggio che Celan trae la propria parola: poesia materiata d’una lingua esiliata, o sia: aperta.
Se è plausibile l’ipotesi, avanzata nel discorso del Meridian, che “a ogni poesia resta iscritto il suo 20. gennaio”, allora deve collocarsi nella traiettoria di Lenz, nella metamorfosi della sua estraneità, chi voglia situarsi nell’apertura del linguaggio esiliato. Una metamorfosi, certo, poiché crediamo con Celan – il quale della vicenda del Lenz ha colto l’essenziale – che l’esperienza di quell’attraversamento alpestre contenga un duplice movimento di estraneazione – “vi sono forse, e su di una sola traiettoria, due diverse estraneità” –; dei quali il primo corrisponde al momento patologico del Lenz o anche all’adorniana coazione al silenzio, e il secondo al liberarsi di un “altro” al quale la poesia si rivolge. Insomma, si tratta ora per noi “di distinguere tra estraneo ed estraneo.”
Il racconto di Büchner esordisce in flagranza del primo straniamento; passaggio sinistro, che, benché non incognito, conviene leggere estesamente:

“Il 20 gennaio Lenz traversò la montagna. Le cime e gli altipiani nella neve, giù per le valli pietra grigia, distese verdi, rocce e abeti. Era un freddo umido; l’acqua grondava giù per le rupi e balzava al di là del sentiero. I rami degli abeti pendevano pesanti nell’aria bagnata. Nel cielo passavano nubi grigie, ma tutto così denso, e poi fumigava la nebbia e trascorreva umida e pesante fra gli arbusti, così lenta, così enfia. Lui procedeva indifferente, non gli importava nulla del cammino, ora su, ora giù. Stanchezza non ne sentiva, solo gli dispiaceva talora di non poter camminare sulla propria testa. Da principio sentiva qualcosa urgergli in petto quando il pietrisco saltava via in quel modo, il bosco grigio fremeva sotto di lui e la nebbia ora divorava le forme, ora ne scopriva a metà le membra possenti; v’era in lui una premura, cercò qualcosa, forse perduti sogni, ma non trovò nulla.”

Rileviamo anzi tutto questo: che la descrizione degli elementi naturali, la neve, le valli, le grigie rocce, le verdi distese e così via materializzano dinanzi al lettore l’ambiente in cui ha inizio la vicenda del Lenz, ovvero: un paesaggio montano, non dissimile da un burrone roccioso di Caspar David Friedrich. E nondimeno Lenz appare indifferente, anzi gli dispiace, curioso dettaglio, di “non poter camminare sulla testa”. Il particolare è notevole, laddove Büchner anticipa la confutazione dell’ipotesi più immediata, ossia che si tratti del desiderio di alleggerirsi le gambe dalla fatica del cammino: Lenz non prova fatica. Neppure a Celan sfugge il dettaglio, e la sua interpretazione è ficcante: “Chi cammina sulla testa, signore e signori, chi cammina sulla testa ha sotto di sé il cielo come abisso”; cognizione che turba l’indifferenza di Lenz e che, diremmo noi, guasta il paesaggio. Camminare sulla testa non è possibile, poiché la voragine celeste è smisurata (abgründig), non garantisce fondamento, non è suolo che si lasci “misurare con un paio di passi”. Il paesaggio montano è dunque turbato da questa sua costitutiva esposizione a uno sfondo irriducibile e impercorribile, da una natura che si sottrae al criterio paesaggistico: questa è la situazione del Lenz, arretrato nell’indifferenza.
Nonpertanto, proseguendo la lettura ci pare che lo statuto di tale indifferenza si complichi notevolmente:

“quando la tempesta gittava le nubi nelle valli, e vaporava su per il bosco, e alle rocce si destavano le voci, prima come tuoni dissipati in lontananza, ma poi giungendo roboanti, come volessero cantare la terra nel loro giubilo selvaggio, e le nubi galoppavano come nitrenti cavalli selvaggi, e il sole vi penetrava in mezzo folgorando con la sua spada i campi di neve, cosi che una luce chiara, accecante, vi inferse un taglio dalle vette fin giù nelle valli; o quando la tempesta spingeva in là le nubi e vi stagliava dentro un lago azzurro di luce, e poi il vento si attenuava e giù in fondo, dalle gole e dalle cime degli abeti, saliva mormorando come una ninnananna e un suonar di campane, e nel profondo azzurro sorgeva un rosso tenue, e piccole nubi passavano su ali argentine, e tutte le vette, nitide e ferme, scintillavano illuminando tutto in torno il paesaggio – allora qualcosa gli lancinava dentro, e ristava, ansante, il corpo curvato in avanti, occhi e bocca spalancati, gli sembrava di dover trarre in sé la tempesta, tutto comprendere entro sé; si distese e giacque sopra la terra, si sprofondò nell’Universo, ed era una brama che gli faceva male (…).”

Leggiamo per intero pure questo passaggio, per avvertire un mutamento vistoso della qualità della parola che ora descrive l’ambiente naturale; fluttuazione cui torneremo poi estesamente. Per ora ci basti constatare l’aprirsi d’una feritoia nell’indifferenza del Lenz, la quale corrisponde alla sensazione di “dover ricevere in sé la tempesta, accogliere tutto in sé”, di incavarsi nell’universo. L’indifferenza di Lenz per il paesaggio, insomma, coincide con una sua progressiva – man mano ch’egli s’inerpica sul sentiero montano – e dolorosa indistinzione rispetto alla natura elementare:

“pensava che essere toccati dalla vita profonda di ogni forma dovesse essere un sentimento d’infinita beatitudine; avere un’anima per pietre, metalli, acqua e piante; accogliere in sé trasognato ogni ente naturale, come l’aria i fiori con l’aumentare e il diminuire della luna.”

Ecco dunque il sogno sepolto nel petto di Lenz: la suprema indifferenza, l’essere nuovamente – diciamolo con la definizione con la quale Simmel oppone l’ente naturale, spaesato, al criterio paesaggistico – “punto di attraversamento per le forze universali dell’esistenza”. L’oscillazione tra dolore (Weh) e gioia (Wonne), peraltro, ne costituisce l’unica dimensione patologica; ma di questo altrove.

Tale condizione d’indifferenza è enunciata da Büchner con parole, che noi ora vorremmo accentuare e mutuare da lui per un ulteriore affinamento della questione celaniana dell’esilio. E anzi citiamo, per non perderne le tracce, direttamente le parole di Celan: “Lenz, ossia Büchner, riserva, «ahimè, l’arte», parole sprezzanti all’«idealismo» e ai suoi «pupazzi di legno». Cui egli contrappone, e qui seguono le pagine indimenticabili sulla «vita del minimo», gli «spasmi», «le allusioni», il «sottilissimo, quasi inavvertito giuoco espressivo», – cui egli contrappone il naturale e il creaturale.” Si delinea, insomma, nel trasporto più esplicitamente filosofico delle pagine centrali del Lenz questa cesura fondamentale tra un’arte o una rappresentazione “idealistica” – virgolettiamo insieme a Celan, accentuando che si tratta dell’espressione adottata da Büchner, senza esaminarne l’opportunità teorica – e quelli che, con espressione invero formidabile, sono qui detti “gli spasmi della vita del minimo”:

“Si tenti una volta di calarsi nella vita del minimo e di restituirla, negli spasmi, nelle allusioni, nel sottilissimo, quasi inavvertito giuoco espressivo (…).”

La vita del minimo è quella vita naturale che si ritrae da ogni presa rappresentativa, che non può essere impietrita in un’immagine definitiva: minimo è l’ente in quanto “punto di attraversamento per le forze universali dell’esistenza”, dinanzi al quale l’uomo schernito dal Lenz dispera di non poter “essere una testa di Medusa”, ossia di non potersi avvalere dell’artificio di “cogliere la natura in quanto natura”. “Signore e signori, vi prego di prestare attenzione: «si vuol essere una testa di Medusa», per… cogliere il naturale in quanto naturale per mezzo dell’arte!” L’artificio della natura impietrita dallo sguardo di Medusa consiste nella finzione che essa conservi il suo statuto naturale, anche in quanto rappresentazione. Ma la rappresentazione è un Gesichtskreis, cerchio che separa e definisce il visibile, mentre la vita del minimo è indifferente. Così, lo rileva lo stesso Celan, l’uomo indifferente, il Lenz partito per la montagna il 20. Gennaio, è estraneo all’essere una testa di Medusa; e tale è l’una estraneità, la prima.
L’altra estraneità, la seconda, è nel cuore stesso del minimo, nel suo ristare solo brevemente nell’apparenza; e se la condizione dell’esilio che andiamo circoscrivendo concerne un adeguamento a tale brevità, il frequentare questa seconda forma d’estraniazione, allora essa può essere compendiata nella succitata esortazione di Lenz a “calarsi nella vita del minimo”. Salire in cima alla montagna, per discendere nella vita minima: ecco la questione.

Il Gespräch im Gebirg, scritto da Celan nell’agosto del Cinquantanove, verga una simile traiettoria nel silenzio montano; quel medesimo silenzio che il Lenz intende, nel momento della sua più alta vertigine, come l’orrida voce di un orizzonte che non vuol più fare paesaggio e che poi non è altro che il tinnito posatosi nell’orecchio di Adorno:

“Forse non udite nulla? Forse non udite l’orrida voce, che grida lungo tutto l’orizzonte e che si è soliti chiamare silenzio?”

In un primo momento, anche il 20. gennaio di Celan pare avvolto nel silenzio. Ma, lo dicevamo, il problema tipico della poesia pensante di Celan è quello di precidere quel silenzio, insana nostalgia medusea: “V’era dunque silenzio, lassù in montagna. Non a lungo v’era silenzio, ché quando se ne viene un ebreo e ne incontra un altro, allora il silenzio presto finisce, anche in montagna. Ché ancora, anche oggi, anche qui, l’ebreo e la natura son due cose diverse” Sulla montagna Celan si viene incontro – lo scrive lui stesso nel Meridian: “Scrivendo mi sono dedotto, l’una come l’altra volta, da un 20. gennaio, dal mio 20. gennaio. Ho incontrato… me stesso.” – e un colloquio rompe il silenzio.
E se è attendibile il sospetto, per cui il fuoruscire dall’immane mutezza sancisce qui l’esordio d’una parola diversa, la progettazione (Entwurf)  d’una lingua esiliata, che – come si legge nella lettera che Celan, inviandolo ad Adorno, accompagna a questo breve racconto – possa addrizzare ciò che è muto, allora il colloquio che segue vorrà essere esempio di tale trasfigurazione: “Il tacere non è un tacere, non una parola s’è qui ammutolita, non una frase; è solo una pausa, una falla nella parola, una vacanza, tu vedi sparse intorno tutte le sillabe (…).” Che l’incontro alpestre tra Jud Groß e Jud Klein alluda all’incontro (mancato) nell’estate del Cinquantanove tra Celan e Adorno a Sils Maria è nozione condivisa; noi aggiungiamo, in forza di quella annotazione del Meridian, per cui lassù in montagna Celan crede d’aver incontrato sé stesso, che il Gespräch esprime insieme la contiguità e la differenza tra l’adorniana coazione al silenzio, la Atemwende che abbiamo sinora indicato come adeguazione del linguaggio al mero negativo, e l’Entwurf celaniano di una lingua aperta.      O, volendo ora esprimere tale movimento in forma definitiva e con un tenore vagamente aristotelico, diremmo che esso è il racconto dell’esilio in cammino verso sé stesso. Addivenire all’esilio, incamminarsi nell’aperto: questa è la suggestione della poesia pensante di Celan.
L’esitazione si sbreccia con una constatazione: non un silenzio, ma una Wortlücke, una Leerstelle prelude al Gespräch; non lingua che ammutisce, ma lingua che ha al suo centro un vuoto, che è vacante. Parola aperta, insomma, che poco oltre guadagna in dettaglio: “La terra si è ripiegata qui, si è ripiegata una e due volte e tre volte, e si è schiusa nel mezzo, e nel mezzo c’è un’acqua, e l’acqua è verde, e quel verde è bianco, e il bianco viene da ancora più in alto, viene dai ghiacciai, si direbbe, ma non si dovrebbe dire, che questa è la lingua, non per te e non per me – perché, chiedo io, a chi è destinata, la terra, non a te, io dico, e non a me -, una lingua, ecco, senza io e senza tu, solo egli, solo ella, solo esso, capisci, e nient’altro che questo.” Resistiamo alla tentazione di interpretare questo passaggio invero fondamentale alla luce dell’influenza – che non riusciamo a non ritenere superficiale, se comparata con quella che su Celan ha avuto il pensiero di Heidegger – di Martin Buber (evidente è l’interazione con il celebre Ich und Du, ma si pensi anche al Daniel del 1913, contenente un racconto intitolato Von der Richtung. Gespräch in den Bergen; ma, del resto, che Celan fosse lettore di Buber non è segreto). Restiamo, insomma, al testo, e constatiamo una vistosa frammentazione dell’essenza relazionale tipica del GrundwortIch-Du, Ich-Es – buberiano: la lingua di lassù, lingua alpestre, lingua che è montagna tre volte piegata e aperta al centro, dove giace un lago verde, e nel verde il bianco glaciale d’alture anche più rarefatte…; questa lingua è “lingua senza io e senza tu”, con nient’altro che un egli, un ella, un esso ridotto a elemento linguistico di là da ogni relazione.
Se dunque interroghiamo, per avvicinare il senso linguistico di quel terzo, non già Buber, ma la semplice grammatica, ci ritroviamo su di un terreno invero sorprendente. Nella più antica grammatica pervenutaci – come di seguito in ogni altra grammatica – si legge, per quel che concerne la categoria grammaticale della persona, che “Le persone sono tre, la prima, la seconda e la terza: la prima è quella dalla quale il discorso proviene (aph’ou ho logos), la seconda è quella verso la quale il discorso si dirige (pros hon ho logos), la terza è quella della quale il discorso parla (peri hou ho logos).” Una definizione semplice e, si direbbe, intuitiva, la quale nondimeno è, a uno sguardo più attento, poco perspicua. È certo vero: la prima persona è “colei da cui proviene il discorso”, colei che lo pronuncia, e tuttavia sembra che, forse per non togliere il criterio utile qui a definire la terza persona, si ometta che anche la prima persona sia quella “della quale il discorso parla”. E lo stesso vale per la seconda persona: essa è sì “colei alla quale il discorso si rivolge”, ma ad un tempo il discorso in seconda persona parla di lei. La prima e la seconda persona sembrano dunque assolvere a una duplice funzione: indicare di chi si parla – di colui che conduce il discorso o di colui che lo riceve – e ricondurre l’oggetto del discorso così definito all’interno del discorso stesso, del suo circuito. E mentre la definizione data da Dionisio Trace per la prima e per la seconda persona sembra difettare di quel che si ascrive invece alla terza, così quest’ultima manca, ma qui a ragione, della qualità specifica delle prime due: quella di essere per definizione interne all’accadere del discorso, il quale non assume così nessuna posa specifica verso di essa. Per questa ragione un certo rigore categoriale vieta ai grammatici di considerare la terza persona come persona, ossia come figura che recita una parte nel discorso. Ciò che il logos dice nella forma dell’Es, dell’Er, del Sie è quanto esso non può presuppore al proprio interno; questa è la nota definitoria del “terzo”, l’essere altro dal discorso, pur essendo menzionato da esso. Dev’esser questa la dimensione dello sprechen (“wer spricht, der redet zu niemand”): parlare di qualcosa, senza la condizione di presumerla interna all’orbita del discorso. Se il reden è forma dialogica, allocutoria, che verte sulla relazione di un io e un tu, il linguaggio che si articola nella forma dello sprechen non presuppone “ciò di cui parla” come una sua proprietà, ma anzi come un “altro” al quale esso si apre, esorbitando.

Accentuare l’Er, il Sie, l’Es contro l’Ich und Du significa dunque forzare il linguaggio in una certa posa, e precisamente ad appuntare all’evidenza ciò peri hou ho logos. Allorquando il linguaggio menziona quel che non è persona, ciò che non partecipa al discorso, gli è vietato di rivolgervisi; solo gli è dato di stare presso di esso, di stargli intorno, di posarvisi. Questo stare del linguaggio presso alle cose senza interloquire con esse è la postura cui la poesia pensante di Celan lo costringe; o si costringe, in quanto materiata di quel linguaggio. Riformuliamo: l’aggirarsi del linguaggio presso ciò che non interloquisce è la situazione della poesia pensante di Celan e definisce pertanto la condizione esiliata del linguaggio.
Se è vero che, come scrive Adorno, l’ermetismo di Celan si iscrive in una tendenza della poesia contemporanea a ripiegarsi su sé stessa, a tematizzare la condizione di possibilità del proprio “contenuto di verità” (Wahrheitsgehalt), allora l’espressione tipicamente celaniana ha per tema appunto il modo proprio di quel halten, di quel trattenere la verità. Di più: la sua verità è nel modo di quel halten, aperto e breve. Il rovesciamento cui alludeva Adorno dev’essere inteso in questo senso radicale: l’esilio nel suo stadio maturo è il progetto di un linguaggio, la cui apertura sia espressione adeguata alla vita del minimo, alla natura in quanto terzo. Un linguaggio costretto a una postura, che gli vieta di chiudersi sulle cose, di operare la permanenza del proprio criterio; in un verso di un tardo ciclo intitolato Eingedunkelt Celan chiama l’indifferenza naturale che traluce nella parola esiliata “das Ungeschiedene”:

Einbruch des Ungeschiedenen                  Irruzione dell’indistinto
in deine Sprache,                                      nel tuo linguaggio
Nachtglast,                                               nimbo notturno,

Sperrzauber, stärker.                                Incantesimo, più forte.

Von fremdem, hohem                              Dilavata da estranea
Flutgang unterwaschen                             alta fiumana
dieses                                                       questa
Leben.                                                     vita.

“Das Ungeschiedene” è parola che Celan, ricoverato a Parigi, sottrae a una lettura dell’Odissea: akritos è l’originale omerico, ciò che è senza criterio. Questa indecisione prorompe nella lingua di un tu allocutivo, come la sera s’infiltra negli avanzi del giorno (einbrechen significa sì “irrompere”, ma è anche usato in una locuzione tedesca che indica l’avanzare della sera: der Einbruch des Abends); ma ecco l’atteso rivolgimento: l’insinuarsi dell’indistinto nella lingua non è un far della sera, ma è Nachtglast, termine mutuato da una traduzione di Of time and the river di Thomas Wolfe e magicamente manipolato. La parola “Nachglast” significa, anche nel passaggio del romanzo, l’eco del giorno, la coda crepuscolare della luce dopo il tramonto. La contraffazione celaniana, si noti la dentale intramezzata, è sottile ma dirompente: Nachtglast, barbaglio notturno. La parola è rovesciata: non più “luce del giorno morente”, ma infiltrazione notturna nel giorno nascente, Einbruch des Ungeschiedenen, la quale non è tuttavia oscura, ma è “Glast”, fulgore; e con la parola è rovesciata anche la situazione temporale che contorna la parola centrale del componimento: Sperrzauber, anch’essa raccolta da una pagina di Wolfe, in cui è descritta una nostalgia per il perduto mondo dell’infanzia. L’enchantement, l’incantesimo che trattiene in una terra estranea e che cresce in intensità – stärker –, ha la sua manifestazione visibile in quel Nachtglast che lo precede nell’asindeto. E la quartina finale ridefinisce ancora quel che già aveva detto il primo verso: vita dilavata da estranea, alta fiumana. Questa vita esiliata però – ecco il controincantesimo della parola di Celan, parola esiliata – è fermata nell’istante breve in cui la notte getta una luce senz’ombra sul giorno incavato dalla corrente; e in che altra luce essa potrebbe dirsi creatura?

 

Note:

[1] Il 20. gennaio è avvisaglia temporale, lo segnala Celan nel famoso discorso del Meridiano, del punto di insorgenza della poesia. Prima si è pensato al giorno in cui il Lenz di G. Büchner attraversa la montagna, poi l’allusione alla conferenza sul lago di Wannsee è parsa indubitabile. Oggi diremmo che l’ambivalenza di quella data deduca i due episodi, e con essi la traiettoria del gesto poetico, da una medesima radice. Di quella traiettoria vuole rendere conto il presente estratto di un saggio di prossima pubblicazione.
[Del
Lenz si segnalano in lingua originale l’edizione Kröner (2014) e in traduzione, oltre all’edizione Adelphi (1989), la stampa proposta da Giometti & Antonello (2013).]