Mattanza e forma. Su Rossana Rossanda narratrice

Mattanza e forma. Su Rossana Rossanda narratrice

28 Gennaio 2021 Off di Francesco Biagi

di Luca Lenzini

 

«Toda luna, todo año, todo día, todo viento, camina y pasa también. También toda sangre llega al lugar de su quietud»: in epigrafe al suo libro di memorie La ragazza del secolo scorso, pubblicato da Einaudi nel 2005[1], Rossana Rossanda ha posto questa citazione dal Chilan-Balan (“Sacerdote Profeta”), i libri scritti nei secoli posteriori alla conquista spagnola in caratteri latini e in lingua maya yucateca, specie di enciclopedia e memoriale del popolo Maya[2]. All’epigrafe i recensori non fecero granché caso, e magari qualche lettore distratto avrà pensato a un esergo di tonalità elegiaca sul tema del tempus fugit o ad una variazione sull’Ecclesiaste, così perdendo di vista la prospettiva di lunghissimo corso che, da quella soglia, investiva il «secolo» del titolo, con l’eco atroce del genocidio del popolo scomparso. Si aggiunga che dopo l’epigrafe e prima che il racconto de La ragazza abbia inizio, nel libro una breve nota senza titolo tra le altre cose avverte:

Dopo oltre mezzo secolo attraversato correndo, inciampando, ricominciando a correre con qualche livido in più, la memoria è reumatica. Non l’ho coltivata, ne conosco l’indulgenza e le trappole. Anche quelle di darle una forma. Ma memoria e forma sono anch’esse un fatto tra i fatti. Né meno né più[3].

La definizione della memoria come «reumatica» è leggibile qui in chiave di continuità con la citazione dei libri maya di apertura: ne è confermata la presenza ineliminabile del dolore, storico e collettivo prima che individuale, come inerente al processo di scrittura. Come le pittografie trascritte dagli estensori del Chilan-Balan, i lividi prodotti dall’accidentato tragitto novecentesco vengono tramandati insieme al carattere discontinuo proprio del “reuma” e  alle deformazioni da esso prodotte, lucidamente accettate come dato non rimovibile né esorcizzabile. Davvero nessuna ombra elegiaca potrebbe allungarsi, insomma, sulle pagine del libro incompiuto[4], che si conclude sul fermo-immagine di «Aldo, Luigi ed io, seri e freddi, uno accanto all’altro», tutti radiati dal “comitato centrale” del Pci, nel 1969[5]. Non era poi quel comitato il luogo da cui, già alla fine dei Cinquanta, Rossanda aveva intuito che «non si esce senza tragedie[6]»? E del resto, per nulla elegiaca e semmai traumatica era anche l’istantanea di apertura del Capitolo primo, quella del «serpente nero che traversò la tovaglia stesa sull’erba», in un’isola del Carnaro, negli anni Venti, riaffiorante dalla prima lontana giovinezza in famiglia, allegoria e battesimo ad un tempo: «Contro ogni probabilità sono certa di esser nata quella notte[7]

 

Memoria e forma nella compagine testuale de La ragazza del secolo scorso si fondono nelle modalità proprie del saggio, che riassorbe nel suo capiente e plurale dialogismo il flusso del tempo e la trama infinita delle discussioni del “secolo breve”, la trafila delle occasioni perdute e dei momenti fatali che compongono il frastagliato paesaggio storico. Se ne possono ricavare passaggi e ritratti memorabili (soprattutto nella prima parte), ma la narrazione del vissuto non vi si configura come mera rievocazione o conchiusa testimonianza, quanto come interpretazione e interrogazione – interminabile, quindi provvisoria – del passato, a partire da un presente inconciliato; il  che in effetti è quanto richiede una ermeneutica del trauma e dei suoi sensi riposti, e comporta i giusti rischi di una prospettiva siffatta[8], per così dire in itinere e di parte. L’intelligenza dei fatti è autoriflessiva ed in continuo evolversi, tiene d’occhio tanto le alternative inesplorate ed i fallimenti imprevisti, quanto le possibilità latenti che daranno esiti a distanza, sicché il soggetto è lo strumento sensibile di questo processo (dinamico e non statico), e come tale si offre al lettore, senza paura di deludere chi si aspettasse formule conclusive e sapienze postume. Ed in apparenza una stessa struttura – mentale prima che testuale – informa anche Un viaggio inutile[9], il resoconto di un soggiorno-missione in Spagna compiuto nel 1962 che Rossanda scrisse nel 1980, pubblicato in origine a puntate sul «Manifesto» e ripreso prima dal Saggiatore nel 1996 e poi da Einaudi nel 2008, sulla scia del successo de La ragazza; ma se le somiglianze sono evidenti, trattandosi sempre di confronti con la storia (e con sé stessa nella storia), si sbaglierebbe a trascurare le differenze: a Un viaggio inutile vanno  riconosciuti una autonomia ed un grado di finitezza che, in realtà, ne fanno una sorta di unicum nel quadro delle esperienze letterarie italiane del secondo Novecento, e forse la più riuscita tra le scritture di Rossanda.

All’episodio al centro di Un viaggio inutile, il mese passato in Spagna su mandato del Pci per riformare, clandestinamente, le fila dell’opposizione al regime franchista, si riferisce anche un breve passaggio de La ragazza, quattro pagine del Capitolo dodicesimo che ribadiscono il fallimento della missione: «In capo a un mese tornai in Italia e dissi a Pajetta, tutto eccitato, che avevo incontrato, sì, gli antifranchisti, anarchici inclusi, ma che non sarebbe successo niente[10]». Come può accadere, allora, che intorno a questo “nulla di fatto” il libro del 1980 si costituisca come felicissimo esperimento narrativo, in bilico tra reportage e feuilleton?

 

Già a partire da questa domanda i tratti distintivi di Un viaggio si svelano con chiarezza. Al livello del testo che abbiamo detto, riprendendo un’allusione dell’autrice[11], del feuilleton rinviano, con la sequenza delle “puntate”, le titolazioni dei capitoli; qualche esempio: 3. Ah, le vert paradis. Dove la narratrice si avvede che le città sono non meno imprevedibili delle persone; 7. Incontro un fantasma. Dove di notte si cammina nei quartieri operai e di giorno si discute troppo; 14. Vitoria. Dove si incontra un partito socialista che non somigliava né a quello passato né a quello futuro; 17. Politica come educazione sentimentale. Dal quale si evince che la Spagna poteva benissimo fare a meno di me, ma non viceversa… L’impianto ostentatamente didascalico dei titoli presuppone una ironia di fondo: quanto più essi si susseguono come tappe di un percorso orientato (una quest, quasi…), annunciandone i progressi, tanto più essi giocano sull’inconcludenza della ricerca e sul costante disorientamento della viaggiatrice; né l’ironia manca di manifestarsi en plein air, come nel caso del titolo del nono capitolo: Illescas. Dove non succede niente di politico; anzi niente in generale, se no non sarei qui a raccontarvelo. La contraddizione tra l’ubiquo «niente» del Viaggio e la necessità di narrare-interpretare la vicenda spagnola qui si dichiara espressamente come movente paradossale, ma non per questo meno cogente, della scrittura, così che – altrettanto evidenti, in questo récit, sono i richiami di ordine letterario – l’ombra di Sterne e quella di Flaubert, o meglio di Tristram Shandy e Fréderic Moreau sembrano andare a braccetto lungo le strade di Spagna. Ma il disallineamento tra l’allure briosa delle titolazioni e le illusioni e gli spiazzamenti di una peripezia sur place, in realtà, non è che una delle forme in cui si esprime la mossa dialettica che presiede all’insieme. Un ulteriore, più amaro livello d’ironia si direbbe che coinvolga il contrasto o controcanto tra la sostanza di queste memorie, intramate come sono intorno al vuoto, ed il pieno che invece, ad una intellettuale come Rossanda, doveva venire dalla Spagna di Orwell e Malraux, letture formative quant’altre mai per la sua generazione. Il fantasma funesto della guerra civile si aggira con una sua indocile insistenza, al di là dei riferimenti espliciti, nei «tanti, infiniti colloqui[12]» e nei silenzi che formano il tessuto del Viaggio; ed a veder bene, anzi, è proprio da quel nucleo sanguinante e rimosso che si riverbera sulla stasi del presente qualcosa di non metabolizzato, perturbante, che perciò inquina l’orizzonte del pensiero e dell’azione, così paralizzando il possibile e sottraendo al futuro ogni chance di emancipazione. Al moto circolare e infinito dei discorsi corrisponde una sottrazione, una dolente, immobile lacuna.

Precisiamo meglio. Nel racconto di Rossanda, l’istanza oggettivante propria dell’ironia – che è qui autoironia, coscienza del limite: ed anche l’«inutile» del titolo ne è oggetto, si badi bene – è tutt’altro che un ludo letterario o un distanziamento di ordine parodico. La contraddizione esposta nelle insegne e il background tragico dello scenario collaborano invece, con una loro particolare eleganza o understatement, per cui di tutto si parla (e fittamente) ma dell’essenziale si tace, alla messa in crisi di quella dimensione esigente ed esclusiva in cui l’esistenza individuale e quella collettiva dovevano, naturalmente, interagire, incanalandosi nelle forme consolidate della mediazione. La messa in crisi, in altre parole, della Politica, e del Partito che ne era, nel caso, l’espressione per così dire privilegiata, l’interprete non discutibile: il racconto è infatti «la storia di quando, per la prima volta, a me membro del comitato centrale del Partito comunista, i conti non tornarono.» In questo senso il titolo dell’ultimo capitolo, «La politica come educazione sentimentale», che nella prima edizione era anche il sottotitolo di tutto il libro, dava un indirizzo preciso, sulle tracce dell’antenato flaubertiano, al vagabondare dell’io nella storia; e non c’è dubbio che il versante del fallimento, dello scacco, è il più in vista del testo: la mancanza di presa sul reale degli schemi ereditati, in primis quello antifascista, è per l’appunto il contenuto dell’educazione («dura», aggiunge la chiusa del viaggio[13]). L’io non dispone di coordinate culturali sufficienti ad affrontare e superare la rimozione della questione Spagna che l’Europa liberata ha operato e prolungato nei decenni; così come più in generale la dinamica delle classi non riflette progressi ordinati né un telos condiviso; e tuttavia, interpretare il racconto soltanto nel senso della disillusione e del congedo (dal Partito e dalle sue certezze) significherebbe fargli un torto, e neanche lieve. Non pochi, certo, l’hanno letto in quel senso, da quando fu dato alle stampe, ma a veder bene lo spartito della Rossanda è più complesso e molto più ampio di quanto una simile riduzione ai minimi termini può far comprendere; si potrebbe, anzi, affermare che esso accoglie al suo interno, nel suo nucleo fondante e affermativo, anche il rigetto del rifiuto della politica.

 

Ricordiamo un fatto: quando Rossanda scriveva Un viaggio inutile erano passati quasi vent’anni dal viaggio in Spagna, e soprattutto c’era stato nel frattempo il ’68 e poi il riflusso, il terrorismo; tutto il paesaggio, italiano ed europeo, era radicalmente mutato, mentre in Spagna la “transizione” era inaspettatamente in corso (le prime elezioni democratiche datano 1977); non solo, ma le “puntate” del Viaggio si susseguirono sul «manifesto» a partire dal 31 luglio fino al 22 agosto del 1980: di mezzo ci fu, quindi, la strage di Bologna, che come riferisce la Prefazione[14], interruppe bruscamente e drammaticamente sul quotidiano la sequenza dei testi composti a tamburo battente. Le foto del massacro «invasero il giornale con quell’odore di sangue polvere e paura»: ebbene, hanno forse qualcosa a che fare, quel sangre e quella paura, con la «mattanza delle forme»  che Rossanda attribuiva al presente (altrove parla di «destrutturazione»), ovvero, con le sue parole, con «l’indolenzito rancore di ciascuno verso il tentativo di pensarsi tutto e fra tutti, di ritrovare un segno, che non sia vitalistico o ansioso di morte, secondo la celebre coppia eros e thanatos, l’affermazione furiosa dell’illiceità del voler capire, come se fosse il contrario di vivere, un indebito mutilarlo[15]»? Si noti bene: è  l’illiceità del voler capire a contrassegnare, retrospettivamente, gli anni Ottanta, quelli del “gai renoncement”; ma proprio il voler capire è ciò che regge, dall’inizio alla fine, l’intero Viaggio inutile. Se alla carneficina dell’agosto ’80, in serie con le altre, fa seguito la mattanza ideologica e «disordine e dolore[16]», la scrittura di Rossanda non aderisce mai all’orizzonte di pensiero e di ideali di una società convintasi che «nulla può essere davvero pensato più[17]»; al contrario quella scrittura sprofonda nella ricerca inesauribile e inesausta del senso, rivive le giornate, rivede i volti, ascolta la sé stessa di allora e la voce degli «sconfitti che continuano a trascorrere i giorni più lunghi della vita, quelli che non fanno notizia, che non interessano a nessuno[18]»; e può dichiarare il proprio «errore», ma non rinunciare. La damnatio memoriae di tutto ciò che era riconducibile all’idea di Comunismo può durare un millennio, è possibile che si eterni ma chi scrive Un viaggio inutile non smette per questo di tracciare i suoi pittogrammi.

Memoria e forma. Altro che disincanti e congedi, in questo nesso si cela alcunché di così cruciale e rivoluzionario[19] che è meglio scinderne i termini, anestetizzarlo, evitare i risvolti cruenti e le questioni aperte, parlar d’altro. C’è chi, di quel nesso, ha scritto in densi saggi; chi con rancore, chi con speranza. Rossanda invece ne ha affrontato qui le sfide nei modi della narrazione: forse solo così l’esperienza del «niente» poteva diventare una cosa viva e polimorfa, felicemente ambigua e chiarissima nel suo enigma. C’era un bisogno di racconto che nasceva dalle ragioni dello scacco. E c’erano ragioni dello scacco che parlavano non al passato, bensì al futuro. Perciò la memoria che filtra il racconto non è mai uno strumento neutro o astratto, e tanto meno fornisce un lineare e piano, ovvio succedersi di ricordi che ha in sé il suo senso, o risponde ad una tesi; né la forma è un contenitore inerte, prefabbricato. «Quel che vedo, come fosse ieri, è frutto di quel che ho dimenticato, la memoria è un prodotto dell’oblìo, come un rilievo delle superfici scure che lo portano», dice (ripete) la Prefazione[20]: è così – in questa forma – che il  “reuma” si fa racconto, trova la propria forma sulla pagina immersa nel moto veloce e lentissimo del tempo; con un sentore di sangue polvere e paura che filtra nella grana del discorso e che l’ironia non può scacciare. Ma proprio per questo «volti, parole, immagini più vere d’un incontro otto giorni prima, le madeleines di certi momenti, un passare dall’ombra al sole, un oggetto senza importanza su cui diciotto anni fa si era posato uno sguardo ed era rimasto per sempre[21]» acquistano spicco, riemergono con l’accento della verità e come tali ci parlano. Un viaggio inutile è una nostra linea d’ombra.

 

Le città – una «grigia e stanca» Barcellona, una Madrid «sgarbata», Toledo «rocciosa arrampicata sulle colline fitte di cicale», Siviglia «fresca al mattino» – i treni scintillanti, l’operaio e l’avvocato, le trattorie, le canzoni malinconiche, la polizia alle calcagna (ma forse no), tutto quel che potrebbe essere “colore” nella pagina di un letterato, nel Viaggio acquista spessore e vita perché traguardato come di sfuggita, tra una riunione e l’altra, dentro al continuo concerto di voci, allo sciame ronzante di domande e risposte, interpretazioni e smentite, ripensamenti e ipotesi sul passato e sul futuro. Ed infine è in questo concerto che si consegna al lettore anche la figura di lei che racconta. In un primo momento l’io del Viaggio inutile si descrive così: «Né alta né bassa, né vecchia né giovane, né brutta né bella, né ricca né povera, né bionda né bruna – se non fosse per un segno che porto in viso, sono fatta per non essere vista[22].» Sembra il ritratto di «un perfetto agente segreto», che come tale non può esser detto se non per via di negazione. Il “travestimento” così rispondente alla natura della missione clandestina però non regge, al pari di tante supposizioni e convinzioni. Molte pagine dopo:

Come mi inoltravo in quel bizzarro viaggio, quel che dovevo fare, e la percezione del non sapere, e quei tempi sospesi e lenti degli altri, quasi naturalmente mi separavano da chi ero stata, anzi ero in Italia […] Così anche quel che ero stata, o ero, si separava da me, e potevo vedermi come ci si dovrebbe sempre vedere, casuali, vite sostituibili. Ma questo essere niente altro che un interrogativo su un paese sconosciuto, intenta a un modesto servizio, passare e andarmene senza lasciare traccia, era venuto convenendomi, placandomi. Mi ci ero abituata, e adesso pensavo con piacere che nessuno, se avesse pensato a me, poteva immaginarmi in questa Vitoria, in questo giorno, in questa chiesa […] Non ero in missione, non ero un agente segreto, non era una grande avventura da militante. Ero un gatto bagnato a Vitoria[23].

C ’è come il segno di un rito di passaggio, in questo smascheramento, nel passare da una invisibilità all’altra. Tutto il brano s’incardina su delle negazioni («non sapere», «non ero», «non era»), ma alla fine è una forma di rivelazione che ha luogo nell’hic et nunc («in questo giorno, in questa chiesa»); e il passaggio dall’agente al «gatto bagnato» avviene senza conflitto, senza che ci sia nessun interlocutore, per una volta, a opinare o contestare. Il presente si separa dal passato in silenzio, come per un moto spontaneo e irreversibile, nella quiete (quietud). Non una resa ma la pacificazione di un ritrovamento che prelude ad un possibile ricominciamento, una svolta. C’è forse per ognuno una silenziosa chiesa di Spagna, e se incontreremo quel gatto bagnato – han sette vite… – potremo dire, allora, la parola che gli spetta, il nostro grazie.

 

Note:

[1] Rossana Rossanda, La ragazza del secolo scorso, Torino, Einaudi, 2005.

[2] «Ogni luna, ogni anno, ogni giorno, ogni vento, cammina e passa. Pure tutto il sangue raggiunge il luogo della sua quiete». Gli stessi versi si leggono in Lucia Berlin, La donna che scriveva racconti, Torino, Bollati Boringhieri, 2016; nonché nella Declaración de las Asociaciones de Migrantes, Refugiados(as) y Desplazados(as), y de Organizaciones Solidarias, en la Consulta Regional de las Americas de la Comisión Mundial sobre Migraciones Internacionales (Maxico, 2005).

[3] R. Rossanda, La ragazza del secolo scorso cit., p. 4.

[4] La ragazza del secolo scorso doveva essere in due volumi, il secondo non pubblicato.

[5] Ivi, p. 385. Si tratta di Aldo Natoli e Luigi Pintor.

[6] Ivi, p. 140.

[7] Ivi, p. 5.

[8] Non si parla qui delle imprecisioni che un editing più attento avrebbe potuto facilmente evitare.

[9] R. Rossanda, Un viaggio inutile, Torino, Einaudi, 2008.

[10] R. Rossanda, La ragazza del secolo scorso cit., p. 235.

[11] Ead., Un viaggio inutile cit., p. VI, dove si parla del: «vecchio sistema acchiappalettori, se vuoi sapere come va a finire comprami anche domani». In quel periodo il quotidiano attraversava una grave crisi.

[12] Ead., Un viaggio inutile cit., p. 50.

[13] Ivi, p. 117.

[14] Ivi, p. 5.

[15] Ivi, p. XXI.

[16] Ivi, p. XVIII.

[17] Ivi, p. XXIII.

[18] Ivi, p. 101.

[19] Penso in primo luogo alle tesi Sul concetto di storia di Walter Benjamin.

[20] Ivi, p. V.

[21] Ivi, p. XXIII.

[22] Ivi, p. 14.

[23] Ivi, p. 95.